Singolare, femminile ♀ #175: Un ricco banchetto
Per il secondo anno consecutivo, torna a trovarci Marta Corato, guest star da Londra, per raccontarci l’ultima edizione del BFI Flare, storica costola del festival londinese dedicata al cinema queer. Nel suo report ci parla dei titoli, tra Corea del Sud e America, che l’hanno più colpita.
Alla 39ª edizione, tenutasi tra il 19 e il 30 marzo, il BFI Flare – London LGBTQIA+ Film Festival si sta già preparando a festeggiare il suo quarantesimo anniversario, chiedendo al pubblico che l’ha visitato fin dal 1986 di raccontare i propri ricordi legati al festival. È davvero impressionante pensare a quanto sia cresciuto anche solo nell’ultimo decennio: se la sua controparte tradizionale, il BFI London Film Festival, ha già da anni un film americano molto grosso a fare da traino, il Flare aveva sempre avuto finora un approccio un po’ più “di nicchia”.
Ma, anche se non sono mancate le gemme indipendenti, quest’anno il gala d’apertura era in onore di un titolo Universal con nomi “grossi”: Bowen Yang, Lily Gladstone e Kelly Marie Tran (ma anche il premio Oscar Youn Yuh-Jung) sono tra i protagonisti del delizioso The Wedding Banquet di Andrew Ahn, remake del film omonimo di Ang Lee. Non c’è dubbio che i diritti delle persone queer e trans siano oggi più in pericolo che mai, ma l’attenzione riservata al BFI Flare è un segnale interessante che il mondo del cinema più convenzionale dei grandi studios stia cominciando anche a filtrare nei festival più settoriali.
Un terzetto sudcoreano
Nonostante la sua avanzata su tutti i fronti nel mondo della pop culture, la Corea del Sud è uno dei posti peggiori del primo mondo in quanto a diritti delle donne e delle persone LGBTQIA+. Fare film con tematiche queer è difficilissimo: è un’esperienza comune fare una fatica immane non solo a trovare finanziamenti, ma addirittura attori disposti a prendersi “il rischio”. La regista Lee Yu-jin ha addirittura deciso di rimanere molto vaga con gli abitanti del paesino dove ha girato il suo primo lungometraggio Manok; mentre sapevano, durante le riprese, che l’argomento del film fosse qualcosa di vagamente femminista, scopriranno che si tratta di un film con una protagonista lesbica solo se andranno al cinema a vederlo.
La commedia Manok segue l’omonima protagonista, una donna di mezz’età, che dopo aver capeggiato la comunità di attivisti LGBTQIA+ di Seoul e aver gestito un bar gay di successo, si sente soppiantata dalle generazioni più giovani e, con un colpo di testa non indifferente, decide di tornare a vivere al suo villaggio, nella casa che la madre recentemente deceduta le ha lasciato in eredità. L’accoglienza che trova è a dir poco ostile, specialmente da parte del suo ex marito, il sindaco del villaggio, che la ostacola in qualsiasi modo. Ma Manok è impulsiva e un po’ vendicativa: decide di conquistare gli altri paesani e spodestarlo dal suo ruolo.
Se Manok ha conquistato, con l’età e l’esperienza, la capacità di fregarsene di quello che gli altri pensano di lei, non è così per le giovani protagoniste di Lucky, Apartment di Kangyu Ga-ram. Sun-woo e Hee-suh si sono fatte in quattro per riuscire ad acquistare un piccolo appartamento; per quanto rimangano in the closet, sembrano finalmente aver trovato una stabilità domestica, quando Sun-woo perde il lavoro. L’insicurezza economica esacerba le tensioni nella coppia, e le cose peggiorano ancora quando uno strano odore pervade il loro condominio. Quando Sun-woo inizia a indagare sull’origine della puzza, i vicini non esitano ad attaccare la sua sessualità per metterla a tacere: né essere gay né abitare in un condominio con quell’odore sospetto si addicono a chi vuole mantenere le apparenze e “la norma” a tutti i costi. Il valore dell’immobile è più importante della decenza umana. Ma se la puzza minaccia di rovinare la vita domestica della coppia, la sua origine cambierà anche il loro modo di vedere il futuro insieme. Avviso: si piange, molto.
Sun-woo e Hee-suh vivono nel terrore di essere scoperte: anche i millennial coreani sono cresciuti in un mondo profondamente omofobo. La giovanissima protagonista di Summer’s Camera, diretto da Sung Divine, ci dà un po’ di speranza per le prossime generazioni.
La preadolescente Yeoreum (che vuol dire “estate” in coreano, da cui la “summer” del titolo) è rimasta recentemente orfana di padre; da lui ha ereditato la passione per la fotografia e le sue macchine fotografiche, che però non ha più il coraggio di usare. Le sono rimaste quattro foto sul rullino: gira con la macchina fotografica senza scattare nulla da mesi, quando si imbatte nella compagna di scuola Yeonwoo, stella della squadra di calcio della scuola. Click, scatta le ultime quattro foto. Ma quel rullino non è solo l’inizio della sua coming of age story e di una tenera storia d’amore. Le foto precedenti erano state scattate da suo padre, e quando le fa sviluppare trova immagini di un uomo a lei sconosciuto.
La storia di Yeoreum potrebbe prendere una piega estremamente drammatica; Sung sceglie invece di usare un linguaggio visivo delicato e dominato dai colori pastello, un tocco dolce e sognante nonostante la protagonista stia crescendo in fretta.
Un terzetto americano
Chi ama le storie queer d’altri tempi dovrà tenere d’occhio il film messicano La arriera (“la mulattiera”) di Isabel Cristina Fregoso. Negli altopiani dello stato di Jalisco, l’adolescente Emilia è stata presa in adozione da una famiglia di mulattieri; il patrigno/padrone Pancho è violento e controllante. Emilia sogna di scappare e condurre una vita libera con Caro, figlia della famiglia che l’ha adottata e che soffoca le due ragazze, passando invece il mestiere all’altrettanto violento e misogino figlio Martin. Una serie di fortuite coincidenze permette a Emilia di scappare: è attraverso un susseguirsi di incontri nella foresta che diventa grande, e viene anche a contatto con la storia delle donne che hanno combattuto nella rivoluzione messicana, vivendo poi una vita senza scendere a compromessi.
Ambientato invece nella Seattle contemporanea, Outerlands di Elena Oxman; Cass (they/them) si barcamena tra vari lavori diversi per sopravvivere a San Francisco. Ma non è l’unica cosa a cui deve pensare: Cass si trova in casa Ari, la figlia undicenne di una sua collega con cui ha avuto la relazione di una notte; nel frattempo, cerca di tenere a bada le sue dipendenze e di affrontare la precarietà in cui si trova. Una nota marginale ma importante: nel film c’è anche un cagnolino carinissimo.
Come in Lucky, Apartment, anche in Outerlands torna il tema delle difficoltà economiche delle persone queer che non hanno una rete di sicurezza su cui poter contare. È un film piuttosto duro, forse uno tra quelli dove è più difficile immaginare una via d’uscita positiva. È anche un commento su come luoghi che un tempo erano porti sicuri per la comunità LGBTQIA+, come San Francisco, stiano diventando sempre più difficili e ostili.
Andando sempre più a nord, dalla regista canadese Tara Thorne arriva Lakeview. La vista lago del titolo è quella della casa di villeggiatura di Darcy, una donna bisessuale, dove lei e un gruppo di amiche queer si radunano per “celebrare” il suo divorzio. Come in tutte le amicizie storiche, i trascorsi del gruppo danno spazio tanto all’ilarità quanto al dramma, specialmente quando arriva Dax, che è diventata una cantante indie di successo e semina zizzania e cuori spezzati ovunque vada.
Chi sguazza nell’universo della pop culture queer, guardando Lakeview si delizierà dei riferimenti disseminati nel film da Thorne, da quelli alle boygenius (che danno nome a tre personaggi!) alla “gaylor” (una teoria della cospirazione secondo la quale Taylor Swift sarebbe in realtà gay, e riempirebbe di indizi a riguardo le sue canzoni e apparizioni pubbliche).
Bricioline
Se l’anno scorso (vi avevamo raccontato la scorsa edizione del BFI Flare in questo numero della newsletter) il film che causava zuffe per acchiappare un biglietto era Love Lies Bleeding, quest’anno è stato di sicuro Hot Milk di Rebecca Lenkiewicz, già alla Berlinale qualche mese fa e da mettere in watchlist ora, se non l’avete già fatto prima.
Purtroppo la difficoltà di recuperare i corti al di fuori dei festival è ben nota, ma questo resoconto sarebbe incompleto senza citarli, specialmente perché alcuni mi sono rimasti davvero impressi. Ne scelgo tre to rule them all;
- The Eating of an Orange di May Kindred Boothby, un corto animato la cui bellezza è tanto sfavillante quanto è terrorizzante il mondo che rappresenta;
- Zari di Shruti Parekh, una storia piccola e affascinante che contrappone due modi diversi di cercare e trovare la propria identità – in India e nella diaspora; si trova per intero su Vimeo.
- Wild Oats di Rosa Duncan, in cui la teenager Rhona viene costretta dal padre a lavorare nella fattoria di famiglia invece che “dedicarsi” alle sue fantasie sulla popstar del cuore.
MARTA CORATO
Questa settimana arriva in sala La vita da grandi, esordio alla regia di un lungometraggio dell’attrice Greta Scarano. Vi proponiamo la recensione del film di Rocco Moccagatta, pubblicata sul numero di Film Tv in edicola.
La vita da grandi
Chi l’avrebbe mai detto che Greta Scarano, dietro quello sguardo così spesso in noir come interprete (Suburra e, più nascosto ma non meno bello, Senza nessuna pietà) nascondesse i colori pastello di La vita da grandi ? Liberamente ispirato alla storia vera dei fratelli Damiano e Margherita Tercon, il suo esordio da regista abbraccia il filone scivolosissimo dei film sull’autismo, rimanendo sempre felicemente un po’ sopra le righe, aiutato da una Rimini fuori stagione che fa subito Fellini (non troppo, per fortuna). È lo sfondo perfetto, anche nella scaltra confezione Groenlandia Film, per il corso intensivo per diventare adulti (cioè autonomi) che il quarantenne autistico Omar (Yuri Tuci, affetto da autismo ad alta funzionalità, la forza motrice del film) si fa impartire dalla sorella Irene (Matilda De Angelis, indovinata), tornata in famiglia per accudirlo in occasione degli esami medici della madre (Maria Amelia Monti, sposata a Paolo Hendel, bell’idea di casting), forse una prova generale per il prossimo futuro. Ovviamente, la ragazza riuscirà a capire qualcosa di più della propria vita “da grande” a Roma e a conoscere meglio questo fratellone, fragilissimo eppure, in tante cose, più solido di lei, che ambisce a diventare un gangsta rapper a un talent show (Yes, You Can!, con giudici Lundini, Maionchi, Ozpetek e Ayane, meglio di tante vere giurie tv). Inutile fare i cuori di pietra, La vita da grandi conquista pian piano con il suo passo felpato e agrodolce, anche quando sembra chiedere troppo, come nel crescendo finale dove passa impunemente da Ci vuole orecchio ai Pet Shop Boys. Una piccola fiaba, nulla più, ma rispettosa di ciò che racconta e dello spettatore. Mica poco. ROCCO MOCCAGATTA
La New York Public Library ha reso disponibile ai ricercatori l’archivio di Joan Didion e John Gregory Dunne, ricco di materiali mai visti prima. Questo articolo di Vulture ci accompagna nell’esplorazione. [in inglese]
È stato pubblicato il nuovo report ReFrame, studio condotto dal 2017 da Sundance Film Institute e WIF (ex Women in Film L.A.) sulla parità di genere nell’industria hollywoodiana. L’analisi dei film usciti nel 2024 conferma la situazione di stallo: dopo una crescita registrata tra 2017 e 2019, è dal 2020 che la quantità di produzioni bilanciate a livello di genere rimane stabile attorno al 30%. Un dato interessante, e forse per qualcuno inaspettato, però, è che nonostante il budget inferiore, questi film abbiano ricevuto nel 2024 risultati migliori al box office.
Mentre il governo statunitense bandisce nei propri documenti l’uso di oltre 200 parole (tra cui termini come “accessibilità”, “competenza culturale”, “crisi climatica”, “discriminazione”, “identità”, “oppressione”, “pregiudizio” e “privilegio”), mentre impone che dai musei Smithsonian vengano tolti i riferimenti “antiamericani”, mentre cancella le persone trans dalla loro stessa storia (come quella dei moti di Stonewall), mentre fa arrestare da agenti a volto coperto studenti che hanno scritto sul giornale universitario articoli a sostegno della Palestina, ci sembra sempre più urgente comprendere l’uso propagandistico fatto in questi anni di concetti come la “cancel culture” e la “dittatura (?) del politicamente corretto”: vi segnaliamo a riguardo questo interessante articolo pubblicato da Valigia Blu.