È arrivato nelle sale Le donne al balcone, opera seconda da regista dell’attrice Noémie Merlant, che l’ha scritta in collaborazione con Céline Sciamma. Un film militante e scatenato, spericolato mix di generi e generoso impasto di riferimenti cinefili: proprio da qui partiamo per metterlo in collegamento con il suo parente più diretto, La finestra sul cortile di Alfred Hitchcock.
Le tende alla finestra si sollevano, una dopo l’altra, proprio come un sipario, a rivelare la scena, fissa, come una scenografia teatrale, eppure tratteggiata in modo vivissimo, come una successione di dipinti di Hopper: il retro di alcuni appartamenti del Greenwich Village negli anni 50, popolati soprattutto da artisti o aspiranti tali (una scultrice, una ballerina, un compositore, e il nostro protagonista, un fotografo) o da coppie e piccole famiglie lavoratrici (come il futuro assassino, un venditore ambulante). È il notissimo incipit di La finestra sul cortile di Alfred Hitchcock, un film tanto celebre e importante da essersi fatto paradigma: la macchina da presa si muove all’interno del cortile, ma sempre come se fosse lo sguardo di qualcuno affacciato al palazzo di fronte, e restituisce in vignette immediatissime e prive di dialogo i personaggi, gli spazi e le storie che si susseguiranno nelle due ore successive.
All’inizio di Le donne al balcone, opera seconda da regista dell’attrice francese Noémie Merlant, il riferimento al capolavoro hitchcockiano si riconosce all’istante, ed è volutamente sottolineato fin dal principio: non siamo in un cortile ma in una stretta strada di Marsiglia, e la camera si muove in modo più libero nella sua esplorazione di una finestra dopo l’altra, osservando i vicini impegnati nelle proprie attività (suonare il sax, chiacchierare da un piano all’altro, cercare un po’ di fresco) – eppure l’analogia si accende immediata, mentre la mdp inquadra una giovane donna (sarà una delle nostre tre protagoniste, ma non lo sappiamo ancora) che si allena con movimenti sinuosi, come la ballerina miss Torso del film di Sir Hitch. Qui, però, il corpo – o, meglio: un corpo – della vittima appare subito, mentre in La finestra sul cortile il motore del mistero si organizzava attorno alla sua sparizione.
È solo una delle inversioni di prospettiva che proliferano in Le donne al balcone, un film a cui Noémie Merlant ha lavorato per anni, scrivendo e riscrivendo la sceneggiatura, infine rimaneggiata nella sua ultima versione insieme a Céline Sciamma, che aveva diretto Merlant nel fondamentale Ritratto della giovane in fiamme. Sebbene siano due opere diversissime – uno scombiccherato intreccio tra thriller, black comedy e ghost story Le donne al balcone, uno struggente melodramma in costume Ritratto della giovane in fiamme – è impossibile non mettere in relazione i due titoli, evidentemente figli entrambi di un comune percorso teorico, di un desiderio di riflettere, con gli strumenti del cinema e della cinefilia, sul male gaze e sul suo sovvertimento (da notare, tra l’altro, che Merlant è stata l’anno scorso anche Emmanuelle nel remake firmato da Audrey Diwan, la regista Leone d’oro per L’événement). Le ispirazioni cinematografiche di cui s’intesse Le donne al balcone sono molte, e scoperte: il sapore almodovariano, per esempio, è innegabile, e, tra colori accesissimi e dialoghi concitati, si richiama sia alle tipiche commedie del cineasta madrileno sia in modo più diretto, nella trama e nelle citazioni “fantasmatiche”, a un lavoro come Volver.
Quando compare in scena per la prima volta, Noémie Merlant – che oltre a essere regista e sceneggiatrice, di Le donne al balcone è una delle tre protagoniste – è identica alla Marilyn Monroe di Niagara: parrucca bionda e vaporosa, vestito e rossetto scarlatti, neo strategico sopra il labbro superiore, approda a Marsiglia da Parigi facendo scontrare la propria auto con quella dell’avvenente vicino di casa, e poi cammina incespicando insicura e confusa, proprio come se fosse uno spettro cinefilo fuoriuscito per sbaglio dallo schermo e ritrovatosi a vagare per la vita vera. In realtà il suo personaggio, Élise, è un’attrice, ed è letteralmente fuggita dal set e da una relazione infelice: con progressione programmatica, Merlant si preoccupa di rendere la sua “Marilyn” via via più autentica e tangibile, fatta di carne e viscere, vomito, lacrime e flatulenze – quanto di più lontano dall’immagine di sex symbol accuratamente costruita in pellicola come ideale da ammirare e bramare. È sempre lei, Élise, e conseguentemente la regista Merlant, la protagonista di una sequenza in cui viene visitata da un ginecologo: semisdraiata sul lettino, le gambe spalancate e appoggiate sui supporti in metallo, offre alla camera e a noi spettatori la propria vulva, senza sensazionalismi di sorta ma con la naturalezza di un’esperienza comunissima per la maggior parte delle donne eppure pressoché mai rappresentata al cinema, almeno in questi termini. Anche in questo caso, viene spontaneo ripensare alle scene – per quanto, lo ripetiamo, diversissime nel tono e nel contesto – dell’aborto in Ritratto della giovane in fiamme, e della discussione che ne segue sulla necessità di rendere visibile, rappresentandolo e facendone opera d’arte, anche questo tipo di esperienza femminile.
Ma tra tutti i richiami cinefili – nell’intervista che Merlant ha rilasciato a Ilaria Feole per Film Tv, e che vi ripubblichiamo qui sotto, se ne citano altri, da Tarantino a Bong, da Miike a Chytilová a Chabrol –, quello ad Alfred Hitchcock ci sembra il filo più presente e resistente, e interessante da sbrogliare. Proprio perché, nel suo porsi esplicitamente come decostruzione e sovvertimento del male gaze, Le donne al balcone è un film sullo sguardo – e il ruolo e il potere dello sguardo, la riflessione su punto di vista e voyeurismo, sono mattoni fondanti del cinema hitchcockiano (senza contare che La donna che visse due volte può essere letto come – inconsapevole? – dissertazione sul male gaze). Soprattutto di La finestra sul cortile, dicevamo, Le donne al balcone si propone come remake (neanche troppo) nascosto e come controcanto. Come nel Greenwich Village di James Stewart e Grace Kelly, anche nella Marsiglia di Nicole, Ruby ed Élise è un’estate torrida e irrespirabile. Non ha una gamba ingessata Nicole (Sanda Codreanu), una delle tre protagoniste nonché, per certi versi, punto di vista privilegiato e a un tratto “voce narrante”, ma è comunque bloccata: aspirante scrittrice, non sa cosa scrivere – anche perché, confessa, vorrebbe costruire un racconto incentrato sul desiderio, anziché sugli arcinoti binari di conflitto e risoluzione.
Se Jeffries/James Stewart spiava i vicini per noia, Nicole lo fa per ispirazione: l’affascinante Magnani (!) interpretato da Lucas Bravo si offre dalla finestra di fronte quasi sempre semisvestito, e la ragazza lo usa contemporaneamente come oggetto di desiderio e come musa (un termine per cui, significativamente, non esiste corrispettivo maschile). La coinquilina di Nicole, Ruby (Souheila Yacoub), è in questo senso uno sdoppiamento di Magnani: fa la camgirl e dunque si mette consapevolmente in scena come oggetto per la lussuria altrui, esibendosi alla webcam per un pubblico di “guardoni” paganti. Nicole, Ruby ed Élise ci si presentano come degli archetipi ben precisi – la “nerd” timida, la libertina impulsiva, la primadonna/femme fatale un po’ svagata – e nel corso del film prendono corpo come personaggi sempre meno incasellabili e più contraddittori (nel caso di Élise, si diceva, la mutazione è evidente anche nel suo spogliarsi del costume di scena e della parrucca, per arrivare al liberatorio finale in topless). Il balcone del loro appartamento è uno spazio sicuro e insieme di confine, una frontiera in cui possono dar vita a una microsocietà femminile (ancora una volta, viene in mente la parentesi felice in cui trascorrono i propri giorni la pittrice Marianne, l’aristocratica Héloïse e la domestica Sophie in Ritratto della giovane in fiamme) affacciandosi sul mondo, studiandolo, provocandolo.
Il loro spazio domestico è in antitesi con quello della vicina del piano di sopra, Denise, che nell’incipit del film vediamo reagire con violenza a quella che intuiamo subito essere una lunga esistenza di soprusi inflitta dal marito. Anche la sua storia è un ribaltamento del delitto di La finestra sul cortile, che era a tutti gli effetti un femminicidio: Lars Thorwald nel film di Hitchcock uccideva la moglie malata per liberarsi del fardello di doversene occupare e per fuggire con l’amante, Denise uccide il marito per liberarsi di un’esistenza di abusi (è un peccato che la sua storia sia una di quelle che, nell’eccesso di carne messa al fuoco da Le donne al balcone, patisce il poco spazio dedicatole). Il pericolo, per il trio di protagoniste, si innesca – proprio come poi succedeva nel finale di La finestra sul cortile – quando si annulla la distanza tra chi guarda e chi viene guardato: Jeffries si trova alla mercé dell’assassino, le ragazze a quella di uno stupratore seriale, due personaggi che nello sfogare la propria violenza è quasi come se si ribellassero anche alla passività del ruolo di “oggetti da spiare”.
Attenzione spoiler
E Merlant continua a richiamare ironicamente Hitchcock, anche nell’evolversi della trama “thriller”: quando Magnani muore nella colluttazione che segue l’aggressione a Ruby, cadendo dal soppalco e finendo significativamente impalato (e perdendo, altrettanto significativamente, un pezzo di pene), le ragazze decidono di adottare il “metodo Lars Thorwald”, l’assassino di La finestra sul cortile, ovvero disfarsi del cadavere smembrandolo, trasportandone i pezzi dentro grosse valigie e gettandole in mare. C’è perfino, anche qui, un cane che va a ficcanasare dove non dovrebbe, anche se per fortuna in questo caso arriva alla fine del film vivo e vegeto. Come dicevamo, nel film di Hitchcock non si vedono mai né l’omicidio né il corpo della vittima; in Le donne al balcone il modo in cui si sceglie di raccontare lo stupro è duplice, in entrambi i casi per scelta militante. Quello subito da Ruby non è mai mostrato, ma prima è reso evidente dai gesti e dal contesto, e poi raccontato dalla sopravvissuta stessa (in una live online a cui, però non assiste nessuno): Ruby è la “vittima imperfetta” per eccellenza, una ragazza spigliata e disinibita, che fa la lavoratrice sessuale, che è rimasta da sola con il proprio aggressore dopo una serata alcolica in cui ha flirtato a lungo con lui. Non mettere in scena la violenza che subisce è un modo di sottolineare la necessità di credere alle sue parole (cosa che le amiche fanno immediatamente, senza battere ciglio), senza distinguo né dubbi. Più avanti nel film, però, è Élise a subire uno stupro, da parte del compagno, e in questo caso la scena è ripresa, con freddezza analitica, nella sua interezza: di nuovo, si torna alla necessità di rendere visibile qualcosa su cui generalmente si tace, un tipo di violenza – lo stupro coniugale – estremamente diffusa, eppure per molti ancora non considerata nemmeno tale (e, ci viene da pensare, in questa decisione si può leggere forse anche un gesto di “protezione” per le colleghe da parte di Merlant, che in quanto regista sceglie di esporsi in prima persona nelle sequenze più esplicite). Nell’ultima parte del film, infine, Le donne al balcone scivola anche nei territori della storia di fantasmi, rischiando indubbiamente un eccesso ingovernabile di temi e toni; ma parlare con i morti pare l’unica alternativa concessa per ottenere quello che pubblicamente quasi mai le donne ricevono da parte dei propri oppressori: un’ammissione di colpevolezza, un’assunzione di responsabilità.
Fine spoiler
Il film di Merlant è certamente un’opera diseguale e chiassosa, consapevolmente urlata, decisa ad abbracciare la propria furia politica e i propri eccessi formali. Si può legittimamente restarne storditi, oppure lasciarsi trasportare dalla sua audacia un po’ folle, dal suo spirito punk. Resta, tra le altre cose, estremamente interessante – almeno per chi scrive – il lavoro fatto per mezzo della cinefilia: in un modo non distante da quello adottato da Coralie Fargeat in The Substance, anche rivisitare il cinema dei grandi maestri, citarlo alla lettera, sfacciatamente, e altrettanto sfacciatamente ribaltarlo è un modo di forzare il male gaze onnipresente, per la quasi totalità della sua Storia, nel cinema mainstream. Di venire a patti con, riappropriarsi e complicare cinematografie cruciali, che hanno edificato il modo in cui non solo guardiamo, ma anche amiamo il cinema. Hitchcock è un caso entusiasmante e affascinante, proprio per le contraddizioni nell’approccio al femminile che già risiedono nel suo cinema: il suo è uno sguardo – per sua stessa ammissione – feticista, talvolta apertamente misogino (e sono noti, dietro le quinte, i suoi comportamenti ingiustificabili nei confronti delle “sue” attrici), e insieme capace di costruire eroine sfaccettate e complesse, e pure di regalare loro una agency inedita per il periodo e per il genere. Proprio in La finestra sul cortile, per esempio, l’immobilità del protagonista Jeffries/Stewart opera un ribaltamento del canone, per cui sono i due personaggi femminili – la Stella di Thelma Ritter e la Lisa di Grace Kelly – a dover agire, scavalcando avventurosamente lo spazio che separa il punto di vista e l’oggetto dell’investigazione, muovendosi nel mondo mentre l’eroe maschio è costretto, passivo e inerme, nello spazio domestico tradizionalmente femminile. ALICE CUCCHETTI
Sul n. 11/2025 di Film Tv Ilaria Feole ha intervistato Noémie Merlant proprio a proposito di Le donne al balcone. Vi riproponiamo quella chiacchierata.
Le inquiline del terzo piano
In sala dal 20/3/2025, Le donne al balcone è la seconda prova dell’attrice francese Noémie Merlant dietro la macchina da presa: una commedia nera, una dichiarazione femminista, un thriller condominiale zeppo di riferimenti cinefili. Ne abbiamo parlato con la sua autrice e co-protagonista.
Col tuo film sembri voler affermare che un manifesto femminista non deve rinunciare alla gioia.
Alla gioia, all’assurdo, all’umorismo: penso che lo humour sia un’arma molto potente che permette di far capire tante cose, oltre che di dare a se stesse l’autorizzazione di esistere, e di continuare a vivere, anche quando siamo vittime, anche quando la vita è dura.
Si parla tanto dell’ipotesi di un female gaze al cinema, da contrapporre al dominante male gaze, lo sguardo maschile: senti di aver trovato una tua versione di questo sguardo di donna, sulle donne (e sugli uomini)?
Da qualche anno, e dal #MeToo in poi, cerco di allontanarmi dal male gaze, dallo sguardo patriarcale: uno sguardo che abbiamo anche noi donne, a forza di essere immerse nella società patriarcale. Mi ci è voluto tempo per disfarmene e per comprenderne i meccanismi nella rappresentazione del corpo femminile: volevo capire come mostrarlo in modo diverso, ma continuando a mostrarlo, perché l’obiettivo non deve essere di nasconderlo, di non rivelare più la verità dell’intimità e dei corpi. Il problema non è far vedere i corpi femminili, ma lo sguardo che si posa su di loro.
A proposito di questo, si percepisce grande complicità e fiducia fra te e le tue co-protagoniste Souheila Yacoub e Sanda Codreanu nel mettersi a nudo (non solo in senso letterale): come avete lavorato insieme?
La storia del film nasce in gran parte proprio dalla mia amicizia con Sanda: mi ha aiutata arricchendo i dialoghi del suo personaggio, e quando abbiamo trovato Souheila al casting è stato chiaro che era la persona giusta, già in connessione col suo ruolo. In seguito abbiamo fatto molte prove, anche insieme a una intimacy coach per coreografare le scene di intimità e di nudo: lo scopo era essere tutti a conoscenza di cosa sarebbe successo, per evitare situazioni di disagio, abbiamo provato molto i movimenti del corpo. Lo stesso vale per i dialoghi, perché la commedia è soprattutto questione di ritmo, e bisognava anche imparare a osare di entrare nel grottesco e nell’assurdo; il mio film è un po’ come un fumetto, si svolge in un mondo completamente surrealista, diverso dal mondo reale dove purtroppo abbondano femminicidi, stupri e violenze sulle donne.
Il tuo è un film ultra cinefilo: ci si trovano omaggi a Hitchcock, Almodóvar, Chabrol…
Potrei citare tantissime ispirazioni. Almodóvar certamente, per i colori e per il mix di generi: commedia, grottesco, thriller. Volver è un punto di riferimento. Ma anche i film asiatici, horror o thriller; Ichi the killer, o i film di Bong Joon-ho. E poi Le margheritine di Vera Chytilová, e Tarantino, e un film cinico e dark come Le Père Noël est une ordure… In Francia non è tanto abituale mischiare i generi, per questo ho guardato più all’estero; per me ibridare era importante perché mi permetteva di fondere forma e contenuto. Volevo ritrarre delle donne libere, ed è proprio il mischiare i generi, il non dover rispettare forme classiche, che permette loro di essere libere. In questo modo hanno il diritto di far saltare le regole, di rivendicare lo spazio dove essere se stesse.
Parlando di spazi: il condominio, il balcone e le scale hanno ruoli cruciali nel film, ma anche la location di Marsiglia, quasi una complice delle protagoniste.
Marsiglia è una città dove ho vissuto e di cui mi sono innamorata. La vedo un po’ come una donna, un po’ malconcia ma piena di vita, che subisce troppo ma al contempo sa dare tantissimo. È insieme una testimone, una complice, un rifugio per le protagoniste. Per quanto riguarda il condominio, abbiamo trovato davvero un luogo perfetto a Marsiglia con quella corte e quei balconi, nella ripresa iniziale mi sono divertita a citare La finestra sul cortile, ma invertendo il movimento e tornando dentro l’appartamento delle donne vittime, anziché restare all’esterno. Il balcone era cruciale perché è uno spazio sicuro per le protagoniste: lì hanno dietro di sé il loro appartamento, la loro intimità, mentre davanti c’è la strada, uno spazio pubblico, qualcosa che appartiene convenzionalmente più agli uomini e che può essere opprimente e pericoloso per le donne. Volevo che si sentisse la consapevolezza di questi spazi, che dal chiudersi dentro l’appartamento potessero finalmente passare all’esterno, e andarsene in topless per strada in piena notte, una cosa impossibile per una donna, sembra una scena di fantascienza.
Alla sceneggiatura ha collaborato Céline Sciamma, per la quale sei stata protagonista di Ritratto della giovane in fiamme.
Avevo già scritto più versioni del copione ma mi sentivo smarrita; Céline mi ha offerto il suo aiuto per fare delle scelte precise e trovare la mia strada. Ci siamo rimpallate il testo per mesi, lei ritoccava le scene che avevo già scritto, le ha davvero trasformate ed elevate, alcune cose le ha create da zero. Ci siamo molto divertite con questo ping pong. ILARIA FEOLE
Dal 2 all’8 aprile alla Cineteca Arlecchino di Milano si svolgerà la rassegna Rigore e fascino: Il cinema di Chantal Akerman, composta di otto film e tre corti della grande cineasta belga, e aperta da una masterclass di Wouter Hessels. Sempre il 2 aprile, con la proiezione di Vampira umanista cerca suicida consenziente (di cui vi abbiamo parlato qui), si apre al cinema La Compagnia di Firenze la seconda edizione di Mostruoso femminile, rassegna dedicata all’autorialità femminile nell’horror contemporaneo.
A un anno e mezzo dalla sua presentazione alla Festa del cinema di Roma, il successo di C’è ancora domani di Paola Cortellesi continua a rinnovarsi: lo scorso 8 marzo il film è uscito in Cina dove è balzato immediatamente al quarto posto dei film più visti. L’attrice lo ha accompagnato partecipando a diverse proiezioni stampa.
Mentre seguiamo le agghiaccianti notizie che continuano a giungerci dalla Palestina, vogliamo segnalare l’appassionato discorso che la comedian ebrea Hannah Einbinder – protagonista della nostra amata serie Hacks – ha tenuto ricevendo il premio Human Rights Visibility Award, invocando un immediato cessate il fuoco e chiedendo la fine dei bombardamenti di Israele su Gaza. [in inglese]