Singolare, femminile ♀ #172: Le altre donne nella stanza
In tour nelle sale italiane in queste settimane, Tempo d’attesa è il documentario con cui Claudia Brignone racconta l’esperienza della gravidanza e della maternità attraverso un forum al femminile di voci autentiche ed eterogenee: l’abbiamo intervistata.
Raccolte in cerchio in un parco, intorno all’ostetrica veterana Teresa, le donne protagoniste di Tempo d’attesa parlano e si ascoltano: per alcune di loro è la prima gravidanza, per altre la seconda o la terza; qualcuna ha inseguito la possibilità di diventare madre per anni, qualcun’altra non ci ha pensato nemmeno fino a poco tempo prima; molte hanno più di 40 anni, alcune hanno avuto un aborto spontaneo, altre un’interruzione di gravidanza. Tutte quante si confrontano, mentre scorrono i mesi e il cerchio si svolge sotto il sole, sotto la pioggia, con qualunque stagione, mettendosi in gioco con le proprie paure e le proprie gioie, con tutte le incertezze e le scoperte - non per forza positive - che la maternità porta con sé. Claudia Brignone, che col film ha vinto il Premio speciale della giuria al Torino Film Festival 2023, costruisce col suo dispositivo uno spazio sicuro, dove può muoversi liberamente un forum di voci femminili; poi, spostandosi in uno spazio ancora più intimo, segue alcune delle donne nei momenti cruciali del parto, filmando a distanza ravvicinata la fine di quel tempo d’attesa.
Abbiamo incontrato la regista per parlare del suo lavoro, che in questi giorni (e fino ad aprile) è in tour in Italia: oggi, 12 marzo, a Napoli; il 13 a Mantova, il 18 a Roma, il 24 a Torino, il 26 a Genova e Milano e a seguire in molte altre città (qui il calendario completo delle proiezioni).
Il tuo è un film collettivo e corale, ma è anche il ritratto di un personaggio straordinario come Teresa: come ti sei imbattuta in lei e come hai deciso di costruire il film intorno a lei?
Io sono diventata mamma cinque anni fa, e ho incontrato Teresa durante le ricerche che stavo facendo, perché ero molto preoccupata dell'evento del parto. Dopo aver frequentato diversi corsi pre-parto ho conosciuto Teresa, che ha un'associazione a Napoli da tantissimi anni, Terra Prena. All'epoca non pensavo che avrei fatto un film di lei, ma quando ho cominciato a frequentare gli incontri ho sentito che c'era del materiale umano molto fervido. C'era uno scambio forte tra le donne e con Teresa, che dava l'input su una serie di racconti e di riflessioni: quel che si vede dal film è solo una piccola parte, tieni conto che io ho girato circa 200 ore. Il materiale era tanto perché fin dall’inizio io ho fatto una parte di ricerca con la camera, ovvero inizio a girare, a scrivere, come se la camera fosse una penna: mi serve per capire anche come mi muovo nello spazio, che persone incontro, come la camera riesce a rappresentarle.
La tua presenza sa essere al contempo empatica e rispettosa rispetto alle donne che filmi; riesci a star loro vicina senza ingombrare, fai sentire il tuo sguardo ma lasci loro tutto lo spazio, in un equilibrio molto complesso da raggiungere. Lavori con una troupe ristretta o da sola?
Io giro da sola, per vari motivi, anche economici; il fattore economico per questi lavori ha un peso, però la questione è anche che tutto passa attraverso la relazione che hai creato con le persone. Questo richiede un tempo lungo di ascolto dell’altro. Le donne che partecipavano agli incontri non erano sempre le stesse e non c’era un programma preciso: non sai mai chi comincia a parlare e chi smette. Accade tutto lì, in quel momento. Non puoi chiedere alle persone di rifare una cosa, perché le emozioni risulterebbero finte, quindi tutto sta nel riuscire a essere connessa con quella situazione e filmarla nel modo migliore.
Il film è molto agile, dura solo 75 minuti, mi colpisce se penso alle centinaia di ore di girato che avevi a disposizione. Come hai scelto il filo che tiene insieme quei 75 minuti?
Ogni cerchio con Teresa durava circa 4 o 5 ore e io ne filmavo circa 3 e mezza. Ovviamente questi incontri potevano essere anche più lunghi, non hanno durata prestabilita: questa è una cosa bella che fa Teresa e che non è possibile in altri corsi che hanno protocolli più rigidi. Talvolta spegnevo la camera quando capivo che qualcuno non aveva desiderio di essere filmato, oppure che raccontava la cosa giusta ma non riusciva a esprimersi al meglio. La difficoltà del film è stata anche nel fatto che le donne parlavano di cose molto intime, della loro vita personale, quindi il lavoro consisteva nel trovare un equilibrio che permettesse loro di esprimersi ma non di sentirsi spiate. Per me non era interessante raccontare la storia precisa della famiglia X, ma piuttosto che la storia di quella donna potesse risuonare per gli altri, a partire da me, e diventare universale. Questo è stato un lavoro lungo, che ho fatto insieme alla montatrice Lea Dicursi, confrontandoci continuamente in varie sessioni di montaggio che mi hanno permesso di capire quali erano i personaggi che avrei voluto seguire di più.
Nel film non ci sono però solo i cerchi: hai filmato alcune donne nel privato, nelle loro case, e nei momenti del parto.
All'inizio pensavo, ingenuamente, che il film stesse solo nei cerchi perché solitamente non amo il “pedinamento” delle persone, per me è stata una cosa nuova; nei miei lavori precedenti, anzi, era il luogo a diventare quasi un protagonista. In questo caso invece mi sono sentita così vicina alle donne che ho sentito questa urgenza che mi ha permesso di dire “aspetta Claudia, fermati, non aver paura di chiedere, vedi cosa succede”. E di fatto era bello che tutte queste parole pronunciate nei cerchi potessero essere visualizzate, quindi ho chiesto se potevo andare nelle loro case, seguendo Teresa quando andava a visitarle; e poi anche per i travagli e i parti.
Col tuo doc hai costruito una vicinanza in duplice senso: in primis perché i discorsi che si fanno sono molto intimi, toccano corde molto profonde, ma poi c'è la vicinanza fisica. Vedendo le scene dei parti mi sono chiesta come hai gestito la tua presenza in quegli spazi, e come hai costruito con le donne la fiducia necessaria per occupare quello spazio.
Io faccio una cosa che in questi anni ha sempre funzionato, è un metodo che ovviamente cambia in base alle persone: di solito non faccio mai firmare le liberatorie prima. Per Tempo d’attesa spiegavo a tutte le donne (in questo caso mettendomi in cerchio con loro) perché volevo fare questo film, da cosa veniva questo mio desiderio, questo mio bisogno, perché se riesci a comunicare che veramente hai quest’urgenza anche le persone davanti a te lo capiscono, lo sentono. Le donne erano d'accordo con me rispetto al fatto che non si può sempre parlare di parti dolorosi, negativi e traumatici. Le immagini hanno il potere di normalizzare qualcosa che può sembrare distante o spaventoso, o afflitto da uno stereotipo negativo. Ma a volte noi donne dimentichiamo di avere il grande potere di mettere al mondo qualcuno: la forza che ho sentito quando ho partorito è una forza che non ho mai sentito più nella vita, e mi sono detta tutti dovrebbero avere diritto a una bella esperienza di parto. E non è detto questo coincida con l’avere un parto naturale: vuol dire sentirsi accolti, stare bene, non solo nel senso che non si è “rotto” niente, ma stare bene dentro, sentirsi riconosciute. E questa cosa può accadere con qualunque tipo di parto, in qualunque luogo la donna decida di partorire.
Quando ho capito di aver trovato nei cerchi tutte le persone e le storie che volevo raccontare, ho cominciato a capire come filmare questi parti. E quindi ho cominciato ad andare a casa durante i travagli. Ovviamente questi travagli non sempre poi finivano dove dovevano finire… Magari una donna aveva il desiderio di partorire a casa e poi finiva in ospedale; un’altra aveva desiderio di andare in ospedale e partoriva in macchina… Non puoi avere il controllo di queste cose; in un caso, ero riuscita dopo tanto tempo ad avere i permessi per filmare dentro una struttura ospedaliera, ma poi la donna in questione ha avuto un cesareo e quindi non ho potuto filmarlo, perché non mi hanno fatta entrare in sala operatoria. La cosa bella è che il medico ha capito che ci tenevo molto a filmare un parto in una struttura ospedaliera e ha finito per contattare lui stesso una ragazza per chiederle se le interessava che la filmassi. Io sono andata a incontrarla e nel giro di una settimana stavo filmando il suo parto. Sono successe cose pazzesche girando questo film, che non mi sarei mai immaginata. Certi travagli possono durare anche due giorni, e io mi ritrovavo a fare tutt’altro, tenevo la mano, facevo il lavoro della doula! Finisci per stare con loro e diventare anche parte di quel momento. E a volte il programma che hai fatto nella tua testa finisce nel nulla e cambia tutto, il documentario è anche questo.
Mi interessa quel che dicevi sul provare a sventare l'aspetto dei racconti traumatici e negativi, per mostrare che le cose possono anche andare diversamente. Mi sembra però che ci sia anche un aspetto opposto e complementare nel tuo film, ovvero la voglia di smantellare le aspettative sociali molto forti sul fatto che una donna incinta debba essere felice, che il parto sia il momento più bello della sua vita, il lieto evento. Nel film, insieme con Teresa, molte donne convergono sulla difficoltà di combaciare con quella visione edulcorata e romanzata, e in un certo senso opprimente, della gravidanza e del parto.
Io penso che a volte veramente ci muoviamo su degli stereotipi. E il documentario li deve scardinare. Abbiamo il privilegio e la possibilità di fare un lavoro che richiede un tempo lungo, che non ha scadenze e quindi non deve muoversi come la televisione, non deve raccontare tutto e subito; allora dobbiamo almeno provare a dire che esiste qualcosa di diverso. Non è tutta rose e fiori la gravidanza, non è vero: è una banalità. È un momento di trasformazione totale, un momento in cui non sei più la persona che eri prima. Il primo figlio è un salto nel vuoto. È un'impresa. A maggior ragione se si vive un parto traumatico. Gli incontri nei cerchi sono un modo per mettersi in ascolto degli altri e di noi stessi, per cogliere l'occasione che la gravidanza ti dà di guardare chi sei tu e chi vuoi essere. Una gravidanza ti mette in discussione: pregi, difetti, lati positivi e negativi, la storia che hai, è come se ti ributtasse tutto quanto in faccia. E spesso c’è l’angoscia dell'apparenza, di dover dimostrare di essere mamme perfette, di rientrare in corpi perfetti, di lavorare fino all'ultimo mese di gravidanza… Ognuno ha diritto di fare quello che sente, certo: io, personalmente, arrivata al quarto mese mi sono detta che non volevo più lavorare, chiaramente perché avevo la possibilità di farlo.
Se è vero che di racconti negativi sull’esperienza del parto se ne sentono tanti, d’altro canto in Italia scarseggia ancora una vera coscienza di quella che viene chiamata violenza ostetrica: nell’ultima parte del film se ne parla in maniera più esplicita.
Io non volevo fare un film di denuncia. Ci tenevo a mettere nel film una serie di storie che ho incontrato, e volevo mettere in luce anche il fatto che possono esistere situazioni di violenza.
Quell’ultimo cerchio in cui si parla di violenza ostetrica poteva essere molto più lungo, ma ho scelto che fosse un input sul fatto che esiste questo fenomeno. Purtroppo ci sono strutture che lavorano in un certo modo, come ce ne sono altre che lavorano in un modo egregio. Più che la denuncia a me interessava l’emozione: volevo sottolineare l'importanza della condivisione, il bisogno di rafforzarsi, la consapevolezza che si ottiene stando insieme agli altri, insieme a qualcuno che magari, come Teresa o altre donne, ha un'esperienza maggiore. Credo che la capacità delle donne di diventare più forti possa destrutturare questo stereotipo negativo sull’esperienza ostetrica, anche dare la possibilità alle donne di dire no, di capire quando una pratica o un metodo non sono la cosa giusta per loro. Cioè, ci sono una serie di cose che si possono fare, esiste anche la possibilità di un cesareo dolce, che permette alla mamma di avere il bambino subito vicino. Poi, certo, ci sono i casi delle urgenze e su quelli non si può fare nulla: questo Teresa lo dice molto bene, se una pratica medica è necessaria, allora non la percepisci come una violenza.
La condivisione è, mi pare, il punto chiave del tuo film: la possibilità di rispecchiarsi nelle altre, di partecipare di qualcosa tutte insieme, con tutte le donne nel cerchio (o nella stanza).
Io credo che la gravidanza sia un'occasione, uno dei momenti di passaggio della vita di una donna, in cui stare insieme agli altri è meglio che stare da soli. E se fossimo state lì a parlare di altro, sarebbe stato lo stesso: che sia la menopausa, o la morte, che spesso è un tabù di cui non si può parlare. ILARIA FEOLE
Per la vicinanza ai suoi soggetti e per la volontà di rendere visibile ciò che spesso, della vita di una donna, non si vede sullo schermo, Tempo d’attesa ci ha ricordato il bellissimo documentario di Claire Simon Notre corps/Our Body, disponibile su MUBI: vi riproponiamo la recensione da Film Tv n. 11/2024.
Notre corps
Perché in Ritratto della giovane in fiamme di Céline Sciamma Héloïse invita Marianne a guardare, e poi a ridisegnare, nero su bianco, l’atto di un’interruzione di gravidanza clandestina? Perché molte persone non conoscono la differenza tra i termini “vulva” e “vagina”? Perché per qualcuno è importante che gli odierni spot sugli assorbenti mostrino liquido rosso come il sangue mestruale, anziché un asettico liquido blu? E perché per qualcun altro è invece un fatto così disdicevole da scomodare l’associazione dei consumatori? La risposta a queste domande apparentemente sconnesse tra loro è sempre la stessa, ed è legata alla sistematica invisibilità del corpo femminile, o meglio: all’invisibilità di ciò che lo rende tabù, non conforme, o addirittura mostruoso, di certo non desiderabile. Essere viste, nella propria interezza, significa esistere; esistere significa (dovrebbe significare) avere diritti, e tra questi c’è anche il diritto alla salute. Quante donne avrebbero ricevuto diagnosi più tempestive se non esistesse, intorno alla salute riproduttiva femminile, uno stigma che la rende un fatto indicibile, inguardabile, e, peggio ancora, non condivisibile, da gestire il più possibile in privato, da sussurrare con discrezione? Il film di Claire Simon, presentato nel Forum della Berlinale 2023, e poi premiato come miglior documentario internazionale al Torino Film Festival 2023, è un lavoro monumentale e programmatico di smantellamento dello stigma: in quasi tre ore di immersione nel reparto di ginecologia e ostetricia di un ospedale del 20° arrondissement di Parigi, davanti alla macchina da presa della regista passano la carne, il sangue, le secrezioni, la placenta, le incisioni, le lacerazioni, il dolore, il terrore e la gioia delle donne che in quella sede affrontano momenti decisivi della propria vita. Fecondazione assistita, assunzione di ormoni, transizione, maternità, endometriosi, infertilità, aborto spontaneo e interruzione volontaria di gravidanza sono raccontati, mostrati, resi visibili, dicibili, non più osceni, attraverso casi singoli ma interconnessi, grazie a uno sguardo empatico e non esente da problematicità: criticata in patria per l’inclusione non adeguatamente contestualizzata, nel doc, del ginecologo Emile Daraï, accusato di violenze da 32 donne, Simon è dapprima presenza “neutra” - ma partecipe, vicinissima alle pazienti, alle immagini diagnostiche, alle siringhe - nel segno del grande Frederick Wiseman, ma con un twist lancinante, che ribalta la posizione dell’obiettivo, la regista stessa diviene protagonista, mettendo in discussione, davanti a un medico e alla macchina da presa, la sua visione di malattia, paura, cura. Opera appassionata di rifondazione dello sguardo sul femminile, Notre corps rende visibili, oltre alle verità della carne, anche quelle delle nostre sovrastrutture sociali, certe radicate risposte automatiche di imbarazzo, di vergogna, di sopportazione: «Credevo che il dolore facesse parte dell’essere donna», dice una paziente affetta da endometriosi, rivelando i lacci culturali in cui i corpi femminili troppo spesso restano impigliati. Un film fondamentale. ILARIA FEOLE
Si inaugura a Rimini domani, 13 marzo, e prosegue fino a sabato 15 la seconda edizione di C-Movie Festival, nel segno delle 3 C: Cinema, Corpi, Convivenze. Organizzato da KitchenFilm con la direzione artistica di Emanuela Piovano, il festival traccia percorsi nel cinema femminile attraverso proiezioni, incontri e tavole rotonde: l’apertura, il 13 marzo, è dedicata alla diva del muto Diana Karenne con la proiezione di Redenzione (Carmine Gallone, 1920); per l’occasione, Melania G. Mazzucco presenta il suo libro incentrato sulla figura dell’enigmatica attrice, Silenzio - Le sette vite di Diana Karenne (Einaudi). Tra le altre proiezioni segnaliamo The Brink of Dreams di Ayman El Amir e Nada Riyadh (protagoniste un gruppo di donne che sfidano la società egiziana dando vita a una compagnia teatrale tutta al femminile) e The Sower di Marine Francen (storia di ribellione e sorellanza nella Francia del XIX secolo); molti i momenti di dialogo, tra cui quello sull’animazione della Golden Age american (con l’esperto Luca Raffaelli e la nostra Mariuccia Ciotta) e l’incontro con Barbara Bouchet (condotto da Cristina Borsatti).
Nel mese di marzo MUBI propone una rassegna dal titolo Il nostro corpo, la nostra scelta dedicata al cinema che ha incarnato e testimoniato le battaglie femministe: tra i titoli, oltre al succitato Our Body di Claire Simon (vedi Archivio), ci sono Le professioniste del peccato di Lizzie Borden (vedi newsletter n. 156), Witches di Elizabeth Sankey (vedi newsletter n. 159) e Incompatible with Life di Eliza Capai.
È disponibile sulla piattaforma Discovery+ il documentario Io, Gisèle Pelicot di Anna Davis, che indaga il caso della violenza perpetrata dal marito e da decine di uomini su una donna divenuta icona della lotta per la giustizia, e per la fuoriuscita dallo stigma, delle vittime di stupro (ne abbiamo parlato nella newsletter n. 163), interpellando direttamente (a dispetto del titolo italiano) gli abitanti di Mazan, la cittadina dove si sono consumate le violenze, per riflettere anche sulla percezione del caso da parte dei suoi “spettatori”.