Singolare, femminile ♀ #168: In cerca di Amy
All’indomani dell’uscita della sua ultima fatica su Netflix, Kinda Pregnant, tracciamo un profilo della comica statunitense Amy Schumer, provocatoria e trasgressiva, ma anche emblema dei limiti dell’industria nei confronti della rappresentazione del femminile.
Esiste una dimensione parallela, in qualche anfratto del multiverso, in cui Barbie l’ha interpretato Amy Schumer, ed è probabilmente un film molto diverso da quello della coppia Greta Gerwig-Margot Robbie. Nell’ormai remoto 2016, quando il progetto era ancora nelle mani di Sony, la comica statunitense era all’apice del suo successo ed era stata scelta per incarnare la bambola nel film dedicato, oltre che per riscriverne la sceneggiatura, che all’epoca, nel lungo e travagliato percorso del film che sarebbe poi diventato un successo globale, era ancora affidata alla penna di Diablo Cody (l’autrice di Juno e Jennifer’s Body). Schumer abbandonò il progetto poco dopo, adducendo come motivazione ufficiale delle incompatibilità logistiche, e solo successivamente ha ammesso che si trattò piuttosto di divergenze artistiche, sintetizzate dall’attrice nell’aneddoto riguardante il regalo ricevuto dalla produzione: un paio di scarpe Manolo Blahnik, simbolo di una femminilità stereotipata e riduttiva che le sembrò da subito indice di una direzione artistica molto lontana da quella a cui avrebbe voluto improntare il film; una direzione, almeno in teoria, femminista come quella scelta poi da Gerwig e Baumbach (ironicamente, anni dopo, sarà proprio il gesto di rigettare le decolleté col tacco 12 quello che nel Barbie di Gerwig segna il momento “stile Matrix” in cui si abbandona l’utopia di Barbieland).
Difficile immaginare come sarebbe stato il Barbie di Amy: più sfacciato, più volgare, meno facilmente vendibile a un pubblico di famiglie? Probabilmente avrebbe avuto in comune con il film del 2023 una capatina della bambola a grandezza naturale dal ginecologo, come avviene nel finale del film di Gerwig, ma sicuramente più esplicita: la comica newyorkese ha edificato gran parte del suo repertorio proprio sulla demistificazione programmatica del “mistero” femminile, sullo smantellamento aggressivo dei tabù relativi al funzionamento del corpo della donna (alcuni suoi sketch si svolgono proprio sul lettino del ginecologo) tramite un linguaggio scurrile ed esplicito, facendo di sesso, gravidanza, eccitazione, ciclo mestruale, e in generale della stessa esistenza e fisiologia della vagina l’asse portante dei suoi sketch. Al punto da diventare un meta-argomento: nel suo show su Comedy Central Inside Amy Schumer si prende gioco di se stessa (e del suo pubblico) mettendo in scena la lettera di una fantomatica fan che l’accusa di essere «ossessionata dalla sua fica» e nel memorabile episodio sul Last Fuckable Day (ovvero l’ultimo giorno in cui un’attrice è considerata sessualmente appetibile), le guest star Patricia Arquette, Tina Fey e Julia Louis-Dreyfus la accolgono con «ehi, non sei quella tizia che parla tutto il tempo della sua fica in tv?». L’insistenza sull’aspetto, la funzionalità, l’invecchiamento e la manutenzione dell’organo sessuale femminile è stato il cavallo di battaglia di Amy Schumer, e l’enfasi estenuante con cui ha riproposto quel repertorio di battute era parte del suo gioco: in un mondo patriarcale e fallocentrico come quello dello showbusiness, costringere il pubblico a sentirsi parlare di vagina – lo stesso pubblico che magari non è in grado di stabilire la differenza tra vulva e vagina –, a digerire l’idea che quella vagina abbia una sua specifica fisiologia, diventa un gesto di resistenza, se non di rivoluzione.
Schumer ha sempre lavorato sugli aspetti convenzionalmente “respingenti” del femminile, costringendo i suoi spettatori a confrontarsi con cosa ci sia di effettivamente respingente nel sentir parlare di come una donna funziona, di come desidera, di come si masturba o di come partorisce; l’attrito innescato dai suoi sketch (spesso così “facile”, così accessibilmente volgare e bassoventrale, sia sul palcoscenico sia sullo schermo) è un modo per intaccare e smontare le troppe narrazioni patinate, edulcorate e opprimenti dell’universo femminile che dominano l’audiovisivo mainstream come i social network.
Agli aspetti meno poetici e più anatomicamente dettagliati della gravidanza, per esempio, ha dedicato un suo spettacolo di stand-up comedy, Growing, in confronto al quale il suo nuovo film, da pochi giorni su Netflix, appare decisamente una versione all’acqua di rose: Kinda Pregnant – da Amy prodotto (con la Happy Madison di Adam Sandler, di cui porta inequivocabili marchi) e co-sceneggiato, insieme a Julie Paiva - è una commedia in cui interpreta un’insegnante sulla quarantina, da sempre in spasimante attesa del momento in cui diventare moglie&madre, che dopo la rottura col suo partner finisce per simulare una gravidanza, con tanto di finto pancione, pur di sentirsi accolta dalla comunità di donne incinte che la circondano. Una commedia degli equivoci che mette in campo tutto il repertorio più slapstick e catastrofico di Schumer (che poco prima aveva finalmente esplorato zone più sfumate e mature della sua gamma da comedian, soprattutto con la serie da lei creata, prodotta e interpretata, Life & Beth, su Disney+, durata due stagioni e molto diversa nel registro agrodolce dai suoi exploit precedenti), attivamente impegnata in più di una sequenza a trovare oggetti con cui simulare il pancione (tra cui un palloncino e, ve lo giuriamo, un grosso pollo arrosto), in una sequela di frammenti comici basati su flatulenze, sesso cringe e goffaggine esasperata, che la trasformano in un incrocio tra Benny Hill e un personaggio di South Park.
Piaccia o no – il film è stato accolto assai freddamente, e non ci sentiamo di biasimare pubblico e critica, nonostante alcune interazioni tra Schumer e il co-protagonista Will Forte siano effettivamente irresistibili, grazie al buon mestiere di entrambi – anche questo fa parte dell’impatto di Amy nell’immaginario collettivo: la libertà di essere una comica volgare, caricaturale, propensa a gag scatologici e a esagerazioni grottesche di personaggi femminili sboccati e arrapati, è qualcosa che una donna non aveva rivendicato per sé molto spesso. Tutto il contrario: la stand-up comedy al femminile, come abbiamo esplorato nel numero 95 della newsletter, è molto legata a una tradizione di eleganza e femminilità convenzionale sul palco, spesso in ironico attrito coi contenuti sconci dei monologhi (La fantastica signora Maisel e la Deborah di Hacks, entrambe fittizie, discendono proprio da quell’eredità). Schumer manda all’aria le collane di perle, il fisico da diva e le acconciature da signora borghese, per dar vita a un personaggio sguaiato e grottesco, l’equivalente al femminile di una caterva di comici maschi dediti al demenziale e al grado zero dell’ironia (qualcosa di simile, ma senza il sottotesto di autodeterminazione femminista, l’ha portato avanti negli stessi anni Melissa McCarthy, complice anche nel suo caso una fisicità lontana dai canoni standard di bellezza sullo schermo, e la geniale Kate McKinnon, dalla comicità però assai più lunare che bassoventrale, oltre che dichiaratamente lesbica, laddove la comicità di Schumer è quintessenzialmente eterosessuale). Titoli come il significativo Fottute!, al fianco di Goldie Hawn, mettono in campo il corpo attoriale di Schumer come un cartoonesco, allupato meccanismo a orologeria pronto a dare il peggio di sé coprendosi di ridicolo e cacciandosi in situazioni disgustose, costantemente sopra le righe: se non avete mai pensato che la libertà artistica di una comica donna nel terzo millennio potesse passare dal recitare una scena in cui espelle un verme solitario realizzato in computer grafica, vedendo Fottute! dovrete ricredervi.
A metà degli anni 10 Amy Schumer era effettivamente la comica più in vista del panorama statunitense, con copertine di giornali, un bestseller in libreria (The Girl with the Lower Back Tattoo), uno spettacolo di Broadway (Meteor Shower, scritto da Steve Martin, che le è valso una nomination ai Tony Award) e il salto al primo ruolo da protagonista su grande schermo, con Un disastro di ragazza, diretto da Judd Apatow. Nel 2015 Annie Leibovitz la ritrae vestita solo di slip trasparenti e scarpe per il calendario Pirelli, in tutta la sua non ritoccata gloria di corpo femminile normale, e Schumer posta la foto sul suo Instagram con la didascalia: «Bella, volgare, forte, magra, grassa, carina, brutta, sexy, disgustosa, perfetta, donna». Un manifesto di tutto quello che una donna può essere (Barbie/Margot Robbie sarebbe stata d’accordo, probabilmente), ed è interessante – oltre che vagamente mortificante – notare come sia toccato a una donna bianca, bionda, attraente e probabilmente giusto una decina di kg al di sopra degli assurdi parametri fisici richiesti alle attrici assumersi il ruolo di paladina della body positivity e dell’accettazione dei corpi non conformi al canone estetico. Di questo paradosso Schumer è sempre stata acutamente consapevole: la normalità del suo corpo, esibito e ipersessualizzato tra piccolo e grande schermo (un dato che la accomuna per certi versi al percorso giovanile di Lena Dunham, e Schumer è infatti comparsa anche nella serie Girls), è un dato che stride con i canoni di bellezza con cui ogni donna è costretta a confrontarsi. Farsi percepire come “bruttina”, “grassa”, indesiderabile o comunque non all’altezza dello standard estetico contemporaneo è stata la chiave per smascherare in primis l’ipocrisia e il pregiudizio del pubblico, e Schumer ne ha fatto un vero e proprio manifesto nel non indimenticabile Come ti divento bella, dove il suo personaggio batte la testa e si vede di colpo con un fisico mozzafiato, pur essendo assolutamente identica a prima. Il concetto è chiaro, e ancora una volta in sintonia col messaggio pedagogico di Barbie: essere sicure di sé è molto più importante che portare una taglia 40 o non avere la cellulite. In modo affine, anche quest’ultimo Kinda Pregnant dissemina tra un gag demenziale e l’altro messaggi non banali sulla depressione pre e post partum, sulla solitudine di una neo mamma, sul carico emotivo e psicologico che la genitorialità comporta; se Schumer si assume come sempre il ruolo di mina vagante e scheggia impazzita, sono i personaggi di contorno a portare avanti discorsi dai contenuti più ponderosi.
Fin qua abbiamo parlato della carica eversiva di Amy e dell’impatto che ha avuto sul genere comico degli ultimi 10 anni; un fatto liberatorio e probabilmente di ispirazione per una generazione di comedian. Ma è giunto il momento di approcciare il vero elefante nella stanza, il vero paradosso incarnato dalla comica e ribadito anche dalla morale di Kinda Pregnant: il conservatorismo di fondo che i suoi film trasmettono. Per essere la più sboccata e “trasgressiva” delle comiche su piazza, Schumer incarna coi suoi personaggi i valori più tradizionalisti e, talvolta, reazionari immaginabili: immancabilmente in cerca del coronamento dell’amore romantico ed eteronormato, del matrimonio e della maternità, i suoi alter ego finiscono per essere “redenti” dalla stabilità della coppia perfino quando partono da premesse radicali come la negazione della monogamia (Un disastro di ragazza). Kinda Pregnant, pur con qualche frecciatina a un certo atteggiamento da setta religiosa assunto dalle donne incinte quando fanno rete, è in effetti un inno alla naturale inclinazione femminile alla maternità che non trova alcun bilanciamento in scelte divergenti dal diventare madre. L’incipit è ancor più paradossale se pensiamo al passato provocatorio e salace di Schumer: il motivo per cui chiude la relazione col fidanzato, da cui ovviamente attendeva una proposta di matrimonio, è che lui le propone un threesome con un’altra donna, atteggiamento promiscuo che viene ripetutamente sbeffeggiato e demonizzato nel corso del film. Che siano l’età, l’esperienza della maternità, o semplicemente un buon fiuto per cavalcare lo spirito dei tempi, non ci è dato sapere, e chissà se, rileggendo a posteriori tutto il repertorio di Schumer, troveremmo già nella sua figura triviale e lasciva il veicolo per un femminile di segno del tutto opposto. La domanda però sorge spontanea, a prescindere dalla carriera di Amy: l’industria audiovisiva mainstream sarà mai in grado di fare spazio a personaggi femminili davvero di rottura? Di mettere al centro della narrazione donne che non debbano “rientrare nei ranghi” dopo aver mostrato la loro carica eversiva? Di dare visibilità al mostruoso, al respingente e al diverso, senza attutirne l’impatto per lo spettatore apponendoci una morale edificante a bilanciare? Restiamo in attesa. ILARIA FEOLE
La più recente creatura di Amy Schumer è la serie Life & Beth, disponibile su Disney+, da lei sceneggiata, interpretata e, per qualche episodio, anche diretta. Vi riproponiamo la recensione della prima annata, da Film Tv n. 24/2022.
Life & Beth
Life & Beth assomiglia molto alla sua eponima protagonista, la quale a sua volta è (presumibilmente) un riflesso più o meno romanzato di Amy Schumer, creatrice, produttrice, regista, sceneggiatrice e interprete principale della serie: è una dramedy (molto più drama che comedy) irrisolta, ma che matura con l’incedere degli episodi, egocentrica e condiscendente. La serie di Schumer è il doppio romanzo di formazione di Beth, quarantenne trapiantata a New York da Long Island - luogo ormai consacrato come stereotipo dei margini dell’impero - che, nel momento in cui deve affrontare un lutto inaspettato e per il quale non è attrezzata emotivamente, comincia a mettere in discussione tutta la propria esistenza, a partire dal lavoro come rappresentante di vini e dal rapporto con il fidanzato cialtrone. Beth torna a Long Island, riflette sulla sua adolescenza, riallaccia rapporti, conosce Michael Cera in versione burbero contadino brutalmente onesto, e soprattutto cerca catarsi per poter ricominciare a rincorrere quella famigerata felicità di cui parlano i film. La prima metà di Life & Beth ammicca fin troppo al Woody Allen di Manhattan - e, di rimbalzo, agli sforzi seriali di Louis C.K. (Louie) e Aziz Ansari (Master of None) -, mentre la seconda guarda a Judd Apatow (senza imitarne la prolissità) per fare finalmente respirare una storia di crescita e guarigione personale tanto furba quanto tenera e realizzata con competenza. Schumer spunta tutti i tassativi corretti, lavorando con ambizione ma senza fare il passo più lungo della gamba: la serie è canonica, a tratti risaputa, ma popolata di personaggi tratteggiati con affetto. NICOLA CUPPERI
Sabato 15 alle 19 alla libreria Antigone di Milano Alice Cucchetti presenta con l'autrice Siria Frate il saggio Cinema femminile plurale - Le donne che hanno fatto la storia della settima arte: da Ida Lupino e Dorothy Arzner a Chantal Akerman, un percorso sul rapporto tra donne e industria cinematografica.
Secondo l'ultimo rapporto dell'USC Annenberg Inclusion Initiative, che valuta genere, etnia ed età degli attori principali e co-protagonisti di ogni film tra i 1.800 campioni di incasso dal 2007 al 2024, nel 2024 per la prima volta in assoluto le donne sullo schermo hanno raggiunto la parità: nei 100 film di maggior incasso del 2024, 54 avevano un personaggio femminile come protagonista o co-protagonista (nel 2023 erano solo 30 su 100).
Parte oggi, 12 febbraio, e prosegue fino a giugno la rassegna Cambia uomo cambia che il cinema La Compagnia di Firenze dedica alla sensibilizzazione contro la violenza sulle donne. Tra i titoli in programma, Familia di Francesco Costabile, Un sapore di ruggine e ossa di Jacques Audiard e Povere creature di Yorgos Lanthimos.