A qualche settimana dalla controversa cancellazione di una proiezione parigina di Ultimo tango a Parigi, facciamo il punto sul #MeToo francese, su come sta influenzando le pratiche dell'audiovisivo e sul ruolo cruciale dell'icona femminista del 2024 Gisèle Pelicot.
Circa un mese fa la Cinémathèque française di Parigi ha annullato la proiezione della versione restaurata di Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci prevista in programma per il 15 dicembre 2024. Il fatto ha avuto una risonanza limitata in Italia, e spesso se ne è parlato senza contestualizzarlo all'interno del più ampio e complesso movimento che da molti mesi sta mobilitando l'opinione pubblica francese. Partiamo da questa "censura", come è stata sovente definita, per comprendere meglio cosa sta succedendo oltralpe, e in che modo il #MeToo francese sta influenzando pratiche produttive e immaginario collettivo.
La proiezione di Ultimo tango faceva parte di una retrospettiva dedicata a Marlon Brando, e non erano previsti presentazione o dibattito a essa legati: contro l'evento sono insorti gruppi femministi come Nous toutes, icone del #MeToo come l'attrice Judith Godrèche (ci torneremo in seguito) e figure politiche come la deputata dei Verdi Sandrine Rousseau. Fare di Ultimo tango a Parigi un evento meramente cinematografico e di intrattenimento pareva loro inconcepibile, alla luce di quanto la stessa Maria Schneider, star femminile del film, ha raccontato anni dopo: ovvero che l'utilizzo del burro per l'ormai celeberrima scena della sodomia nel film era stato improvvisato sul set senza avvisarla, arrecandole un trauma che non ha mai perdonato. Bertolucci e Brando si erano accordati poche ore prima del ciak su quella variazione rispetto al copione, tenendo all'oscuro la giovanissima attrice, per ottenere da lei, questo dichiarò lo stesso regista, una reazione più autentica a quell'approccio sessuale aggressivo. In un'intervista in particolare Schneider dichiarò di essersi sentita violata da quel gesto, concordato da due professionisti molto più maturi di lei; e Bertolucci medesimo si disse pentito di non averle mai chiesto scusa per quell'inganno. È necessario, per quanto sembri assurdo doverlo fare, dissipare qui un equivoco che ancora aleggia su questa vicenda, e che è tornato in auge dopo la cancellazione della proiezione parigina: non c'è mai stato sesso reale sul set di Ultimo tango, tantomeno una reale violenza sessuale, anche se si sentono e leggono online commenti che parlano di stupro.
Maria Schneider è stata, però, indubbiamente vittima di una manipolazione psicologica irricevibile e non professionale: a un'attrice è chiesto di recitare, di simulare, di creare, non di far registrare alla macchina da presa un suo autentico disagio o un suo trauma, e la tanto vituperata professione degli intimacy coordinator, oggi sempre più diffusa sul set, serve proprio a questo: a concordare in anticipo i dettagli e le coreografie di una scena erotica, in modo da mettere il più possibile a proprio agio i professionisti coinvolti. Quella che la diciannovenne Schneider ha subito è una violenza psicologica, molto emblematica di tanti meccanismi dell'industria cinematografica e divenuta, anni dopo, un simbolo delle falle sistemiche del mondo dello spettacolo nel proteggere i diritti delle donne.
Nel 2024 al Festival di Cannes è stato presentato Maria, biopic dedicato a Schneider e firmato da Jessica Palud (ne abbiamo parlato nella newsletter n. 138), che ha rinfocolato la polemica sulla vicenda, ricostruendo minuziosamente il set di Ultimo tango ma spingendo molto sul versante del vittimismo, facendo discendere l’intera parabola autodistruttiva di Schneider dal singolo episodio del burro, e ritraendo Bertolucci e Brando come sadici villain: anche questo ha certamente contribuito alla risposta così virulenta all’evento dello scorso dicembre, programmato da una delle più prestigiose istituzioni cinematografiche al mondo. In seguito alle proteste, la Cinémathèque ha inizialmente proposto di far precedere la proiezione da un momento di "scambio col pubblico" di cui però non sono mai state precisate le modalità né i nomi di eventuali relatori o relatrici; infine ha optato per annullare del tutto l’evento, temendo ritorsioni e problemi di sicurezza.
Come abbiamo già ribadito anche sulle pagine di Film Tv, rendere non visibile un film non può né potrà mai essere la scelta giusta: parlare, dibattere, contestualizzare il film, inquadrarlo con ogni forma di dialogo possibile sarebbe stata una scelta più fruttuosa per tutti i coinvolti. Se le associazioni femministe hanno assunto una posizione che ha evocato facili e tristi paragoni con la messa al rogo, la Cinémathèque, d’altronde, non ha mai accennato nei suoi comunicati a quali fossero gli aspetti problematici del film, delegittimando di fatto le proteste: due posizioni dure e radicali, che rappresentano due poli culturali incapaci di ascoltarsi e di incontrarsi. Vogliamo provare a usare questo numero della newsletter per spiegare come mai un evento simile è accaduto proprio ora, e perché - scusate il francesismo - non è il momento giusto per far incazzare le femministe francesi.
Prima di addentrarci nella questione #MeToo, ci sembra fondamentale parlare di una figura che col cinema non ha niente a che fare, ma che ha cambiato in modo potente la percezione delle vittime di abuso, diventando l’icona femminista per eccellenza del 2024: Gisèle Pelicot, la donna che ha scelto di metterci il nome e la faccia nell'ambito del processo contro suo marito e gli oltre 50 uomini condannati per averla stuprata mentre era sedata tramite farmaci. Per anni il consorte l'ha drogata, reclutando poi online uomini che invitava a casa propria e incoraggiava ad avere rapporti non consensuali con la moglie. Gli individui coinvolti, stando ai materiali trovati sul computer di Dominique Pelicot, sono circa 90, soltanto 51 dei quali sono identificati e poi condannati. La vicenda ha comprensibilmente toccato in modo profondo l'opinione pubblica, non solo per l'orrore della violenza perpetrata, ma anche per il modo in cui Gisèle Pelicot ha scelto di affrontare il processo, rendendosi figura pubblica e visibile, perché «la vergogna deve cambiare lato» («que la honte change de camp»): non devono essere le donne violentate, ferite e traumatizzate a provare vergogna per quello che hanno subito, bensì gli individui che quella violenza l’hanno commessa.
L'onda lunga dell'impatto culturale ed emotivo del processo Pelicot ha toccato, come anticipavamo, anche il mondo dell'audiovisivo: «La vergogna deve cambiare lato», lo slogan nato proprio grazie all'impegno di Gisèle Pelicot, ha accompagnato anche le udienze di Adèle Haenel contro il regista Christophe Ruggia. Lo slogan era scritto e gridato dai suoi sostenitori fuori dall'aula, e molte celebrità francesi si sono espresse in suo supporto sui propri social, scrivendo «Adèle non sei sola». Quel processo si concluderà il 3 febbraio ed è scaturito dalle accuse che hanno di fatto acceso il #MeToo francese: Ruggia è accusato da Adèle Haenel di averla molestata e aggredita sessualmente sul set e poi durante la promozione di Les diables, il film in cui l'attrice ha esordito a soli 12 anni (il regista ne aveva 36 all'epoca). Di Haenel e della sua scelta radicale di abbandonare l'industria dell'audiovisivo mainstream vi avevamo già parlato nel n. 53 della newsletter; femminista militante come la sua ex partner e sodale artistica Céline Sciamma, insieme a lei aveva lasciato platealmente la sala durante i premi César 2020 nel momento in cui era stato celebrato Roman Polanski. Pochi mesi prima proprio Haenel aveva raccontato in un'intervista le ripetute aggressioni e manipolazioni psicologiche subite da preadolescente da parte di Ruggia; il processo è iniziato solo il 10 dicembre scorso, e se condannato Ruggia rischia cinque anni di carcere. In tribunale Haenel ha raccontato dell'isolamento che viveva in quella fase della vita, quando era solo una ragazzina e viaggiava in giro per festival e conferenze stampa insieme al regista, in una condizione resa ancora più vulnerabile dalla lontananza della famiglia e dei coetanei; ha parlato anche delle pesanti conseguenze psicofisiche degli abusi subiti, dai pensieri suicidi alla perdita brutale dell'infanzia. Ruggia ha sempre negato le accuse (affermando che si trattasse di una sorta di «vendetta» da parte dell'attrice, e adducendola ai suoi «problemi con gli uomini») e nei primi giorni del processo ha spiegato di aver «tentato di proteggerla» suggerendole di adottare uno pseudonimo per non essere associata, così giovane, a un film con scene sensuali; Haenel a quel punto è sbottata gridandogli furibonda di tacere («Ferme ta guele!») e ha abbandonato l'aula.
Questi due processi, quelli che hanno visto protagoniste Pelicot e Haenel, hanno avuto grande risonanza mediatica in Francia, e il loro impatto va tenuto in considerazione quando si ripensa alla vicenda della cancellazione di Ultimo tango: se da un lato condannare all’oblìo un film è una posizione irricevibile, dall’altro è ormai evidente che la misura è colma, e non c’è più tempo né pazienza per non tendere l’orecchio, se proprio non la mano, alle istanze femministe.
La Francia si è sempre erta a roccaforte della libertà artistica e di parola, e questa nobile tradizione ha cozzato in modo violento con l’emergere del movimento #MeToo, molto più che in altri paesi, creando contrapposizioni impensabili altrove. Quando Gerard Depardieu è stato accusato di stupro (dall'attrice Charlotte Arnould) e di molestie (dall'attrice Hélène Darras e altre 13 donne), il ministro della cultura francese Rima Abdul Malak ha proposto di revocargli la Legione d’onore, ma il presidente Macron si è fermamente opposto, affermando che l'attore è un orgoglio della Francia e non si sarebbe mai lanciato in una «caccia all’uomo». Depardieu è un’icona vivente del cinema francese, e la sua reputazione ha resistito a tutte le accuse, tentennando per la prima volta, nell’opinione pubblica, solo dopo la messa in onda sulla tv nazionale del documentario Gérard Depardieu: la chute de l’ogre (la caduta dell’orco), inchiesta sulle presunte violenze e molestie commesse dall’attore che conteneva anche stralci inediti filmati dietro le quinte che testimoniavano l’atteggiamento profondamente misogino di Depardieu sul set. Il giorno in cui il doc è stato trasmesso sul canale France 2, il 7 dicembre 2023, l’attrice francese Emmanuelle Debever si è tolta la vita a 60 anni, gettandosi nella Senna: era stata una delle prime a denunciare le molestie subite, molto tempo prima, negli anni 80, da parte dell’attore.
Su scala minore, qualcosa di simile era avvenuto nel 2019, all’epoca della Palma d’onore ad Alain Delon, altra leggenda del cinema francese noto però anche per le sue posizioni destrorse, omofobe e per il suo superficiale sdoganamento di forme di violenza contro le donne (ha affermato di averne schiaffeggiata più d’una): alcune associazioni femministe avevano chiesto che non gli venisse assegnato il premio, ma l’istanza non è stata presa in considerazione, e ancora una volta lo scontro si è trasformato in un’opposizione di estremismi che, per chi scrive, sono difficilmente sostenibili in ogni caso: né la strenua difesa, senza sfumature, senza dubbi e senza apertura al dialogo, di un uomo considerato “mito vivente”; né la richiesta di smontarne violentemente lo status e di renderlo invisibile in quanto persona non grata (le stesse polemiche si sono riproposte lo scorso agosto, alla morte dell’attore).
Secondo la casting director Sophie Lainé Diodovic, femminista e membro dell'organizzazione 50/50 (l’associazione francese che si batte per il superamento delle differenze di genere nell’industria audiovisiva), le vittime che si fanno avanti nel #MeToo francese scontano «una cultura avvezza a celebrare la libertà e la trasgressione artistica», secondo il diffuso malinteso, assai duro a morire anche in Italia, che applicare sui set delle pratiche condivise che garantiscano il rispetto e il benessere di tutti i presenti sarebbe una forma di limitazione inaccettabile, come tarpare le ali alla creatività degli autori e/o degli attori. Da un lato c’è la sacrosanta libertà di espressione artistica; dall’altro i sacrosanti diritti fondamentali delle donne (e non solo): quando entrambe le posizioni non ammettono compromessi, si arriva a scontri molto aspri, che non fanno progredire nessuna delle due istanze.
Un esempio emblematico dell’attitudine francese è quello, risalente a parecchi anni prima che il #MeToo fosse anche solo immaginato, di Jean-Claude Brisseau: nel 2005 il regista francese fu accusato e poi condannato al carcere per molestie sessuali contro tre donne (cui aveva chiesto di masturbarsi ripetutamente davanti a lui per un provino). All’epoca il mondo del cinema e del giornalismo si schierarono pressoché compatti in sua difesa, rivendicando la sacralità della libertà artistica; Brisseau ci costruì sopra il suo film successivo, Les anges exterminateurs, in cui metteva in scena la vicenda ponendosi come vittima, difendendo le sue modalità di casting, di audizione e di direzione delle attrici. La sua carriera è proseguita fino alla sua morte, nel 2019, e nel 2012 ha vinto con La fille de nulle part il Pardo d'oro a Locarno. È un buon esempio di quanto in Francia sia impensabile una cancel culture, una condanna all’oblio, nemmeno per chi è stato riconosciuto colpevole e ha giustamente scontato la propria pena: negli ipocriti Stati Uniti, dove si relega alla non visibilità anche chi non ha mai avuto una condanna (un esempio su tutti: Woody Allen) avrebbero senza dubbio molto da imparare da questa attitudine. Tuttavia, il garantismo a tutti i costi che ammanta molte delle personalità coinvolte dalle accuse del #MeToo in Francia è tristemente in grado di trasformarsi in un’arma potente per mettere a tacere le vittime, frustrate e scoraggiate dalla totale mancanza di credibilità cui vanno incontro le donne che denunciano: proteggere la libertà d’espressione non può diventare una leva per limitare la libertà di qualcun altro nel legittimare i propri diritti. Da questo scontro ideologico è complicato uscire senza farsi male e, stando alle cronache francesi, è complicato uscirne anche senza alzare i toni dello scontro in un modo che finisce per far posizionare un po’ tutti nel torto.
Certo, le cose, un po’ alla volta, stanno cambiando: l’associazione 50/50 ha ottenuto nel 2020 di aggiornare le norme di sicurezza sul lavoro in partnership con l’Associazione europea contro la violenza sulle donne, aggiungendo un workshop obbligatorio per tutti i produttori che cerchino sovvenzioni dal CNC (Centre National du Cinéma), e che sarà prossimamente esteso anche a cast & crew. Anche la presenza sul set dei succitati intimacy coordinator è sempre più caldeggiata, nonostante la ferma opposizione di alcuni registi, anche insospettabili (un esempio: Mia Hansen-Løve).
Un caso discusso è quello che ha coinvolto l’attore e regista Samuel Theis: dopo l’accusa di stupro rivoltagli da una componente della troupe sul set del suo film Je le jure, la produttrice Caroline Bonmarchand ha fatto condurre un’indagine e, a fronte della mancanza di prove concrete, ha comunque deciso di allontanare Theis dal set e di lasciargli finire le riprese dirigendo da remoto: è una scelta del tutto inedita per il cinema francese e certamente frutto di un clima in cambiamento.
Il volto più esposto e militante del #MeToo francese, divenuta un simbolo (nel bene e - per chi considera tutto ciò una “caccia alle streghe” - nel male) della lotta per la giustizia e i diritti delle vittime, è sicuramente Judith Godrèche, attrice, scrittrice e regista, oggi 52enne, che all’inizio del 2024 ha accusato di stupro e di violenza psicologica i registi Benoit Jacquot e Jacques Doillon.
Oltre a fare i nomi, Godrèche si è battuta per la creazione di una commissione d'inchiesta sulla violenza sessuale e di genere nel cinema e nel mondo della cultura - che è stata approvata dall'Assemblea nazionale lo scorso 2 maggio, salvo poi essere congelata dopo poco più di un mese, allo scioglimento delle Camere da parte di Macron all'inizio di giugno, e infine ripristinata in autunno: in dicembre è stata in piena attività, con numerose ore di udienze e testimonianze.
Al tema dell’abuso Godrèche ha dedicato anche un film da regista, il cortometraggio Moi aussi, presentato al Certain regard di Cannes 2024: 18 minuti nei quali ha coinvolto centinaia di persone tra le migliaia che le avevano scritto, rispondendo a un suo appello per condividere via mail le loro e testimonianze in quanto vittime di molestie e di violenze sessuali. Sul red carpet di Cannes è andato in scena anche un flash mob, da lei guidato, in cui molte celebrità si sono simbolicamente tappate la bocca con le mani, a rappresentare il costante tentativo dell’industria di mettere a tacere le accuse di violenza.
Proprio il silenzio, quello a cui è stata costretta e quello altrui, complice e omertoso, è una delle questioni chiave nella lotta che Godrèche porta avanti contro i registi che hanno abusato di lei quando era molto giovane. Nelle sue dichiarazioni l’attrice ha ricostruito la storia con Benoit Jacquot come una relazione di dominio, manipolatoria e ingabbiante, iniziata quando l'attrice aveva solo 14 anni e il regista 39, e durata sei anni, durante i quali i due hanno lavorato insieme a tre film (Les mendiants, La désenchantée ed Emma Zunz). Godrèche ha accusato di stupro anche Jacques Doillon, che l'ha diretta in La fille de quinze ans; sia contro Jacquot sia contro Doillon sono poi arrivate ulteriori accuse di molestie e di stupro da parte di altre attrici (nello specifico Julia Roy, Vahina Giocante, Isild Le Besco e Laurence Cordier hanno dichiarato che Jacquot approfittava della sua posizione di potere con le sue interpreti). Godrèche afferma di essersi sentita come un ostaggio, ma troppo giovane e spaventata per capire come sottrarsi alla relazione, contro il cui palese squilibrio (di età, di potere, di credibilità) né i media né amici illustri hanno mai puntato il dito. Tra questi amici c'è Serge Toubiana, ex direttore dei "Cahiers du cinéma" ed ex direttore della Cinemathèque Française, che interpellato da Godrèche davanti alla commissione parlamentare ha prima detto di non essere a conoscenza della natura intima della relazione tra l'attrice e Jacquot, per poi smentirsi confermando di averli avuti come ospiti a cena a casa sua. Godrèche l'ha accusato di aver dichiarato il falso sotto giuramento; ma, noi crediamo, il problema sta da un'altra parte.
Toubiana non ha dichiarato il falso, e se si contraddice è più probabilmente perché all'epoca, semplicemente, non si era mai posto il problema; che Jacquot avesse rapporti sessuali con la sua giovanissima attrice era accettabile e perfino banale, perché sdoganato dall'alba dei tempi dell'industria audiovisiva. Qualcosa di molto simile, sempre per restare in Francia, è avvenuto con la relazione tra Maiwenn e Luc Besson, secondo alcune fonti iniziata addirittura quando l’attrice aveva 12 anni e il regista 29 (Léon sarebbe parzialmente ispirato a questo legame, stando alle dichiarazioni di Maiwenn); la loro figlia Shanna è nata quando Maiwenn aveva solo 16 anni, ma la loro relazione non è mai stata indicata come problematica, nemmeno dalla stessa attrice, fiera oppositrice di ogni istanza #MeToo.
La questione non è, dunque, se Toubiana avesse o non avesse visto; ma che quel che vedeva non costituisse per lui un problema, a causa di quell’insieme di consuetudini, sessismi, ottusità e autoindulgenze profondamente radicate che hanno edificato l'apparato patriarcale contro cui il #MeToo si batte. Che un'attrice si debba spogliare durante un provino, che debba ripetere 45 volte la medesima sequenza erotica che la vede protagonista col regista, che le venga fatta pressione per elargire favori sessuali per non perdere il ruolo, sono tutte eventualità per lungo tempo considerate normali, addirittura strutturali al mestiere: casomai, come avvenuto anche nell'emblematico caso di Schneider, era l'attrice a finire bollata, a "vendersi" per la parte, a essere considerata “facile” per aver usato il proprio corpo per ottenere un ruolo, senza mai considerare che il sistema era costruito proprio per penalizzare chi invece non si concedeva.
Seguendo l’esempio di Gisèle Pelicot, bisognerebbe allora ribaltare la prospettiva anche nel mondo dello spettacolo: non devono essere le donne a vergognarsi di essere state vittime, a vergognarsi di dire la propria verità, a vergognarsi di aver vissuto rapporti costruiti sull’abuso, a vergognarsi di mettere dei paletti a ciò che vogliono o non vogliono fare sul set, in quanto professioniste; dovrebbe essere il sistema, l’industria, a vergognarsi di proteggere e perpetuare quei meccanismi che tengono in scacco le donne, da decenni. A vergognarsi di avere così paura di accogliere il cambiamento da arroccarsi su posizioni indifendibili, pur di preservare i privilegi dei più forti: la vergogna, anche qui, dovrebbe cambiare lato. ILARIA FEOLE
Prima del Moi aussi di Judith Godreche c’era stato l’Anche io di Maria Schrader, film che ricostruisce la nascita del #MeToo: vi riproponiamo la recensione da Film Tv n. 3/2023.
Anche io
Come è cominciato il movimento #MeToo? Con due reportage giornalistici che, nell’ottobre 2017, hanno fatto luce sui numerosi casi di molestie e abusi - e relativi insabbiamenti - operati da Harvey Weinstein: quello di Ronan Farrow sul “New Yorker” e quello di Megan Twohey e Jodi Kantor sul “New York Times” (si sono divisi il Pulitzer 2018). Sul secondo si concentra il film di Schrader, attrice e regista tedesca al suo primo lavoro anglofono: il titolo italiano traduce pedissequamente l’hashtag, mentre quello originale, She Said, ha la doppia valenza di evocare il modo in cui sovente si liquidano le accuse di violenza (si usa dire che è un caso di “she said, he said ”, ovvero “la parola di lei contro quella di lui”) e di affermare l’importanza delle testimonianze che le due giornaliste hanno strenuamente rincorso e assemblato. Per arrivare a quel she said, per far effettivamente parlare le donne molestate, ferite, traumatizzate, Twohey e Kantor (interpretate con corretta sobrietà da Carey Mulligan e Zoe Kazan) hanno lavorato per mesi, prima separatamente e poi in team, opponendo alla paura e alla reticenza delle vittime la prospettiva speranzosa di una denuncia collettiva, l’importanza del costituire un fronte comune. Il film di Schrader ricostruisce l’inchiesta con uno spirito che guarda solo in tralice alla vasta tradizione dei vari uomini del presidente, e scivola invece, più di una volta, nell’enfatica ricostruzione di testimonianze (non aiuta l’energica partecipazione di star nei panni di se stesse, come Ashley Judd) e in un generico sentimentalismo che vorrebbe restituire verità ai personaggi, ma che purtroppo finisce per annacquare la potenza e l’urgenza del movimento. ILARIA FEOLE
Un podcast dedicato alla grande Eleonora Duse: Lo specchio di Eleonora, scritto da Luca Scarlini in collaborazione con Francesca Abruzzese, racconta la leggendaria attrice (della cui morte ricorreva il centenario nel 2024, e alla quale è dedicato anche il documentario Duse the greatest di Sonia Bergamasco) e la sua eredità artistica attraverso tre ruoli chiave.
Dopo la messa in onda su Rai3, è disponibile su RaiPlay la serie Antonia, sguardo disincantato sul femminile firmato e interpretato da Chiara Martegiani e diretto da Chiara Malta. Sempre su RaiPlay arriva l’11 gennaio Sofia, opera prima della regista marocchina Meryem Benm'Barek, vincitrice a Cannes 2018 del premio Certain regard alla sceneggiatura; la storia di una giovane donna costretta a nascondere la sua gravidanza fuori dal matrimonio perché punibile col carcere.
Protagoniste della stagione dei premi, che si è aperta il 5 gennaio coi Golden Globe, Maura Delpero (regista di Vermiglio) e Mickey Madison (star di Anora) sono tra le ultime ospiti del Criterion Closet, il deposito dei Blu-ray Criterion dove le celebrità sono chiamate a scegliere i propri film preferiti raccontando le radici della loro cinefilia.