Singolare, femminile ♀ #162: La storia siamo noi
Inaugura il nuovo anno cinematografico, il 1° gennaio, Maria, ritratto della divina Callas firmato da Pablo Larraín e incarnato da un’Angelina Jolie già data per favorita agli Oscar. La guest Marzia Gandolfi coglie l’occasione per fare il punto sulla trilogia di biopic al femminile del regista cileno, e sulle loro clamorose interpreti: prima di Jolie, Natalie Portman e Kristen Stewart.
C’erano una volta una first lady, una principessa e una casta diva…
C’erano una volta tre attrici che dimostrarono di essere più autrici dei loro film del loro autore.
È evidente che non possiamo prescindere da Pablo Larraín, che gioca sempre con le apparenze e gli accessori della rievocazione storica per portarci altrove. Perché Jackie, Spencer e Maria non sono (propriamente) biopic, ma qualche giorno speso nella vita delle sue eroine, una porzione di realtà a cui autore e attrici si appoggiano per meglio trascenderla. E con Maria si conclude una delle più belle saghe cinematografiche del decennio. Una riflessione magistrale sull’immagine e sul biopic convenzionale. Praticamente, un anti-biopic allergico ai cromosomi cronologici. Per Jackie, Spencer e Maria, Larraín sceglie una finestra temporale precisa da cui tirare i fili della sua narrazione frammentata. Sostituisce il piombo del biopic integrale e illustrativo con la vitalità bruciante di eroine ficcate in momento storico preciso e acuto. Un trittico suggestivo che ridefinisce il modo in cui guardiamo al passato e domanda di osservare la complessità di queste figure del XX secolo, al di là della percezione popolare, dei media e delle persone a loro più vicine. Legate da privilegi, traumi, relazioni interpersonali complesse - due delle tre furono compagne di Onassis - e un pubblico adorante, ma capriccioso, Diana e Maria condividono anche Anna Bolena, la seconda moglie di Enrico VIII decapitata per adulterio, incesto e tradimento, sebbene la veridicità di queste affermazioni sia tutta da verificare: se Diana trova un libro sulla Bolena, lasciato nella sua camera come un avvertimento, Maria la interpreta sul palcoscenico, è la sua voce nella tragica opera di Donizetti. Entità in Spencer, personaggio in Maria, con Anna Bolena, autentica donna del Rinascimento con una forte visione politica e spirituale, Larraín raccorda le loro tragedie e approfondisce il suo dialogo con la storia e la violenza di genere nella Storia.
In concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2024, Maria chiude luttuosamente la sua trilogia di biografie femminili, iniziata nel 2016 con Jackie e proseguita con Spencer. In mezzo, tra Jackie e Spencer, l’autore gira Ema, storia di una donna in tutti i suoi stati: madre e amante, dolce e febbrile, depressa e sovraeccitata. Ballerina sposata con un celebre coreografo e afflitta da una mancata vocazione genitoriale - incapace di occuparsi del suo bambino, è stata costretta a rinunciarci – Ema è tutto quello contro cui la morale patriarcale punta il dito. Ma Larraín non la giudica più di quanto cerchi di renderla simpatica. Le restituisce la libertà e le lascia vivere una nuova esistenza poliamorosa in una miscela perfetta di energia punk e candore infantile. Da Jackie a Maria, passando per Ema e Diana, l’autore affronta una “donna di”, un idolo sacrificato sull’altare del potere e del protocollo di turno. Il risultato sono storie di deriva interiore, ricerca di sé ed emancipazione, tra immagine pubblica e abisso intimo, rigidità imposta dal decoro e tempesta interiore. Le protagoniste sono l’unico punto di riferimento del regista, che ritrae l’alienazione e la rivolta, affidandosi più alla forza della composizione delle sue attrici che al dialogo. Natalie Portman, Mariana di Girolamo (al suo primo ruolo da protagonista), Kristen Stewart e Angelina Jolie giustificano da sole il viaggio. Nei film i dialoghi sono volutamente ridondanti, un modo per significare che l’ovvio è stato detto, perché l’essenziale sono loro, sono i loro corpi che si incaricano di enunciarlo. Se i volti impassibili e i loro occhi insondabili evocano una tela da riempire per lo spettatore, il corpo diventa il loro vero strumento di comunicazione, il loro megafono.
Come indicano chiaramente i titoli, si tratta di un approccio al modo in cui il cinema può assumere un personaggio, che in tre casi (quattro con Neruda) è anche un personaggio famoso, alimentando una riflessione comune, e in questo caso particolarmente fertile, sullo stesso tema. Jackie, Spencer, Maria non sono i ritratti di Jacqueline Bouvier, Diana Spencer o Maria Callas ma una mise en abyme del rapporto tra collettivo e individuale, simbolo e soggetto concreto. Questo refrain non si limita alla questione del biopic, anche se lo include. Di fatto Larraín, pur dando l’impressione di eluderlo attraverso il romantico, l’horror o l’onirico, si attiene alla vita quotidiana di Jacqueline, ai giorni successivi all’assassinio di John Fitzgerald Kennedy o agli ultimi respiri di Maria Callas, ma poi trova qualcosa di molto diverso. In tutti i casi (Jackie, Spencer, Maria), non filma frontalmente la vita del suo personaggio. La principessa viene ritratta attraverso lo specchio infranto della sua relazione coniugale, la first lady viene evocata attraverso un’intervista immaginaria rilasciata poche settimane dopo la morte tragica del consorte, la diva è appesa a un sipario strappato, alla dipendenza, ai problemi di “cuore” e alla grande solitudine. Nessuno è un ritratto, ma un’immagine che si riconfigura continuamente nel vortice che segue la sparatoria a Dallas, la vigilia di Natale del 1991 o la settimana precedente al decesso a Parigi nel 1977. Jackie, Spencer, Maria sono una cavalcata a fianco di tre donne che non rientrano in nessuna delle definizioni preconfezionate che sono state loro applicate. Nell’impresa, l’intervento delle attrici è imprescindibile.
Jacqueline, moglie e poi vedova di Kennedy, è una donna e un’icona, come una bandiera è la manifestazione visiva di una comunità storica. Ma è anche una personalità così complessa da non poter essere riassunta né da una funzione né da un’emozione. Nell’esposizione l’autore non segue traiettorie binarie o contrappunti semplificativi e ordinari. Con il prezioso contributo di Natalie Portman, Kristen Stewart e Angelina Jolie mette in atto una sorta di moto browniano, in cui tutti i protagonisti (le eroine in primis, ma anche il resto del cast) cambiano costantemente luogo e direzione. Non c’è nulla di gratuito in questo balletto di atti, decisioni e posture che circondano la signora Kennedy o la divina Callas, ma la realtà stessa di un potere che si gioca sempre su più livelli, nel più concreto e in nome di astrazioni, nell’immediato e negli echi di una lunga storia, o nella prospettiva di un futuro lontano. Nelle lacrime, nella paura, nel sangue e anche altrove, nel potere, un potere che esiste solo incarnato da uomini e donne soggetti a sentimenti, progetti e ansie, in relazione a comunità soggiogate a loro volta da affetti. Con questa trilogia, co-produzioni internazionali piantate in Usa e costruite su personalità mondialmente celebri, l’autore allarga il suo campo di osservazione e le sue possibilità di visibilità. Ma inaugura soprattutto una maniera creativa di spostare l’angolo di osservazione, di declinare al femminile, di sfidare gli approcci convenzionali a una situazione politica, a una famiglia reale o a un souvenir di gloria, d’ovazione, d’amore. Pablo Larraín non pretende di fornire verità ultime e definitive su Jackie, Diana e Maria. Il suo approccio, diversamente da troppe produzioni biografiche, consiste più nel cercare che nello spiegare. La sfumatura è fondamentale. I suoi film rimangono aperti, generosi, ispirati e ispiranti. E anche rischiosi quando inscrivono nella loro stessa forma l’insostenibile leggerezza del mondo secondo Ema.
Jackie
Tutto il mondo conosce quelle immagini: una donna in uno Chanel rosa schizzato di sangue che striscia sconvolta sul cofano di una Lincoln presidenziale; una donna in nero, sfocata dal velo, che guida una marcia funebre a Washington, davanti a decine di capi di Stato e a un milione di persone anonime.
Jackie Kennedy, la vedova più illustre degli Stati Uniti, è impressa sulla nostra retina e nel nostro immaginario collettivo. Pablo Larraín lo sa bene. La sua prima incursione americana, Jackie, è una co-produzione hollywoodiana con una superstar (Natalie Portman nel ruolo di protagonista), un soggetto definito (il funerale di John Fitzgerald Kennedy) e un esercito di tecnici (nei titoli di testa figuravano diciannove parrucchieri), il regista cileno sceglie le ore successive all’assassinio di Kennedy, il 22 novembre 1963, momento decisivo che segna il passaggio per Jackie da moglie del Presidente a icona. Nell’occhio del ciclone e al punto zero del lutto, e di un grande trauma storico, si trova Natalie Portman, come non l’abbiamo mai vista. Del resto i migliori film dell’attrice sono quelli che ci dicono che non è chi pensiamo che sia. Sposa in nero o in rosa, si sdoppia generando fantasie basate sul suo riflesso: un puro fantasma hollywoodiano attraversato dalla Mitteleuropa (il suo vero cognome è Hershlag). Bellezza d’altri tempi o di qualsiasi tempo si impegna a interpretare la maniera in cui la gente la vede e poi sovverte le aspettative, lanciandosi a capofitto verso un “ideale di sé” quasi irraggiungibile.
Magnetica e toccante, non si avvicina mai al suo personaggio, così familiare e così celebre, come un’imitatrice. Eppure c’è tutto, l’acconciatura, i vestiti, il triplo filo di perle bianche, la grazia un po’ altera e l’indefinibile profumo di Francia di Madame Bouvier. Ma, come sostiene l’autore, «nessuno saprà mai chi era veramente Jackie Kennedy». E l’attrice ha la forza e il talento di abbracciare questo enigma tragico e glamour, di dare alla sua interpretazione qualcosa di intimo e qualcosa di opaco. Più che la cronaca di una morte, è la reazione di Jackie ad affascinare l’autore. L’immagine pubblica che la consorte presidenziale aveva pazientemente costruito col marito, una sorte di specchio mediatico rassicurante e magico, si infrange nel sangue ma Jackie lo ripara con formidabile efficienza, controllando freddamente la storia che è disposta a raccontare ai media e orchestrando per il marito “un vero spettacolo”, un funerale solenne come quello di Lincoln. Quanto ai dubbi e alla “verità” emozionale, Jackie-Portman li affida a Dio (John Hurt nel ruolo di un prete) e ai corridoi di una Casa Bianca infestata dai suoi presidenti morti. Se per Larraín la storia è soprattutto una questione di storytelling, dunque di finzione, per Jacqueline e Natalie lo stile è un affare politico. Incredibilmente minuta, irrealmente bella, Natalie Portman evoca una bambola in miniatura, metà porcellana e metà chiffon, una miscela di gioia e disciplina che conosce come il suo personaggio l’arte della rappresentazione.
Spencer
Cosa dire di nuovo su Lady D., la principessa tragica immortalata da biografie di ogni genere, un biopic sbagliato (Diana – La storia segreta di Lady D. di Hirschbiegel) e due stagioni di The Crown? Quale voce singolare potremmo mai intendere in questo assordante concerto che celebra una giovane donna sola contro tutti e la sua brutale e ineluttabile scomparsa? Larraín si è certamente interrogato mille volte sulla questione e la sua risposta manda in frantumi tutte le domande. Come in Jackie, il regista sceglie un’istanza narrativa circostanziale - tre giorni che corrispondono all’implosione della relazione di Diana con Carlo - per raccontare la “sua” Spencer come una fiaba gotica consacrata al calvario della principessa. Larraín aveva già cortocircuitato i codici del biopic storico con Jackie, ma qui si spinge oltre, introducendo nel suo dramma una palette oscura, quasi soprannaturale. Strane apparizioni, ambientazioni minacciose, tensione psicologica e gocce di sangue. Dal debutto la Corona è la minaccia, il mostro che a colpi di freddezza e restrizioni potrebbe divorare Diana. Anche qui da una parte c’è il gesto del regista - supportato dalle luci sublimi di Claire Mathon (già direttrice della fotografia di Ritratto della giovane in fiamme) e dalle musiche struggenti di Jonny Greenwood, che fa sentire fisicamente il soffocamento mentale dell’eroina rinchiusa nella sua messa in scena -, dall’altro lato, la performance di Kristen Stewart che in un ruolo di composizione fa saltare tutte le cuciture delle sue interpretazioni abituali, osando il gioco eccessivo, interamente abitata dal dolore e dalla rabbia del suo personaggio. Libera e impressionante la riscopriamo riscoprendo il suo personaggio.
Evidentemente c’è qualcosa in più da dire su Lady Spencer dentro un castello dove nessuno vuole (o può) sentirla urlare, figuriamoci vomitare. Film sui fantasmi e sulla vertigine identitaria, Spencer vaga con Diana tra le macerie della sua infanzia, come la Bella Addormentata colta in una notte malvagia o improvvisamente trafitta dal sole dentro un vestito giallo canarino e davanti a un obiettivo immaginario. Ideale per questa versione tragico-pop, Kristen Stewart compone come un puzzle, incarnando a turno la principessa inorridita, la modella regale della sua finzione ufficiale o la donna alla ricerca della propria realtà, che finisce per emanciparsi. Di Diana, personaggio molto popolare e deliberatamente segreto, è la manifestazione luminosa e il suo rovescio oscuro. Se Spencer è l’anti-The Crown, l’interpretazione di Kirsten Stewart è anni luce lontana da quella naturale di Emma Corrin. L’attrice sa bene che lo spettatore conosce a memoria le espressioni di Diana e ci gioca abilmente, la interpreta in modo quasi caricaturale: eccessivamente manierata, con occhi da cerbiatta, testa inclinata e accento pesante. La performance, volutamente affettata, ci ricorda che anche la principessa giocava un ruolo quando era in pubblico. Larraín spinge la sua attrice verso l’overacting, verso la marionetta di gelida bellezza, tormentata e scontrosa in un matrimonio tragicamente infelice. Come la serie di Peter Morgan, Spencer è un racconto sulla follia dell’apparato e delle apparenze ma diversamente da The Crown offre alla sua eroina una traiettoria positiva. Dopo le prove e le tribolazioni, la principessa riesce finalmente a fuggire dal castello. Stranamente, sapere cosa le accadrà alla fine non influisce in alcun modo sulla nostra soddisfazione di saperla libera e sul sollievo che deriva dal vederla gustare un hamburger coi suoi figli sulle rive del Tamigi, sgravata dalla sventura che seguirà.
Maria
In soli tre film, Pablo Larraín ha stravolto i codici del biopic tradizionale, sviluppando una propria formula: una donna in difficoltà, ma anche un’unità di tempo e di luogo, uno stile freddo ma visivamente sorprendente e una narrazione soggettiva. Si tratta di convenzioni ormai popolari, utilizzate di recente in biopic come Blonde di Andrew Dominik (dedicato a Marilyn Monroe) e Maestro di Bradley Cooper (consacrato a Leonard Bernstein). Dopo aver ricamato sull’elaborazione del mito di Kennedy da parte della sua vedova, dopo aver fantasticato sul Natale di Lady D. a Sandringham, l’autore spunta nel suo teatro “fantastorico" un’altra icona ferita dalla vita e dagli uomini, la folgorante artista che ha riscritto il tragico e il sacro nel melodramma lirico. Maria, che si apre sul corpo morto della Callas e poi torna indietro di una settimana, è certamente l’opera più cupa e triste della trilogia femminile di Pablo Larraín. È il settembre 1977 e Maria Callas, 53 anni, non canta da molto tempo. Quella che il film rivela non è la soprano all’apice delle sue capacità, ma una donna murata nella solitudine, dolorosamente consapevole che i suoi giorni di gloria sono ormai alle spalle. Fisicamente indebolita, dipendente da pillole e dall’adulazione, Maria trascorre la maggior parte del tempo in un appartamento sontuoso di drappi, di vestigia e di costumi, più vicino a un mausoleo che a un focolare in cui vivere. Quando si degna di svegliarsi, è alternativamente affettuosa e capricciosa con le uniche due persone che ancora condividono la sua intimità: la sua cameriera (Alba Rohrwacher) e il suo valletto (Pierfrancesco Favino). E anche nella fragilità, la cantante rimane una vera diva: «Non ho fame. Vado al ristorante per essere adorata».
Se i biopic tradizionali sono sovente acclamati per l’interpretazione mimetica e l’accuratezza della narrazione, con Maria, come in Spencer e Jackie, Larraín si preoccupa soltanto di scavare nella psiche di una donna colta in un momento di svolta della sua vita. Dopo Kristen Stewart in Spencer, la decisione di affidare ad Angelina Jolie il ruolo della famosa cantante greca sorprende ed è sorprendente. Anche questa volta a contare non è la somiglianza ma il potenziale emotivo veicolato dalla star e dalla sua immagine. Che si tratti della sua battaglia contro il cancro o della violenza di cui accusa Brad Pitt, le prove private dell’attrice si sono sempre giocate in pubblico. Chiederle di interpretare una donna di carattere, che rivela una grande vulnerabilità dietro la facciata infallibile, è una scelta ispirata. Senza ricorrere all’imitazione, Angelina Jolie non si risparmia, padroneggiando il playback, i capricci dispotici, l’abbandono alle sostanze chimiche e alla nostalgia struggente. Abita il ruolo di Maria, la grande rivale dell’ex First Lady degli Stati Uniti (l’armatore greco Aristotele Onassis sposò la vedova del Presidente nell’ottobre 1968, scaricando l’artista lirica senza pietà), come una seconda pelle. Tormentata sotto l’apparenza quieta, “la Callas” si sovviene di “Maria”, “la Jolie” di “Angelina”. Le dive occupano tutto lo spazio nel mondo con il loro lavoro, con la voce o con la presenza. Prodezze sceniche, mantengono il pieno controllo della propria esistenza, del proprio status e anche della propria carriera, senza lasciarsi influenzare (troppo) dagli uomini che le circondano. Ipnotica e vaga come Maria Callas, l’attrice è la “diva assoluta” che si costruisce davanti agli occhi dello spettatore, che non fa distinzione tra arte e commercio, privato e pubblico. Come Maria partecipa allo stesso teatro totale. Tra forza interiore e lavoro ostinato, coltivano gli accenti gravi per il loro potere drammatico sulla folla, incarnando a tal punto la bellezza da non avere più bisogno di ricrearla in scena.
Ema
Tony Manero, Neruda, Jackie, Ema, Spencer, Maria: nomi e cognomi abbondano nella filmografia di Pablo Larraín. Un lavoro di ritrattista che si potrebbe quasi riassumere in una galleria di volti improvvisamente scossi dai colpi del destino. Dopo aver sfidato le convenzioni del film biografico, ricorre alla finzione senza perdere nulla del suo appetito iconoclasta: attualizzazione, effetti di distanza, rotture di tono, linee narrative che corrono in tutte le direzioni, a volte contraddicendosi tra loro. Con Ema, l’autore cambia dimensione e torna in patria seguendo la lotta quotidiana di una giovane ballerina nel suo desiderio di diventare madre, un desiderio a forma di rabbia interiore, che dovrà affrontare tutte le ostilità del suo ambiente. Sottoposto a un regime di continuità caotica, il film si immerge fino al collo nella testa della sua eroina, sintonizzandosi con la sua personalità versatile - di volta in volta individualista e affiliante, concupiscente e conflittuale. Per lo spettatore, è un’esperienza travagliata, un sogno a occhi aperti, che trova i suoi vettori sensibili nella sinuosa rete urbana di Valparaíso, nella musica scintillante di Nicolas Jaar o nelle irruzioni coreografiche del reggaeton (danza urbana e collettiva), che scandiscono un destino che non ha altro scopo che quello di godere di ogni momento. Per quanto intime, le crisi delle sue protagoniste hanno sempre la forza di riconfigurare la realtà come desiderano, a suon di incubi, fantasie o allucinazioni profetiche. Qui, il desiderio materno di Ema risponde a un impulso d’amore quanto di apocalisse: la gestazione è un evento simbolico capace di far saltare tutto (norme sociali, strutture di dominio, routine emotive), imponendo sul mondo la legge di una volontà individuale. Invece di riconnettere le donne agli imperativi della natura e della società, la maternità diventa un atto terroristico, un potere sconvolgente con conseguenze potenzialmente rivoluzionarie. Per Mariana di Girolamo danzare è comunicare. Bionda platino, viso androgino, grazia altera, febbrile e placida, è più disponibile ai suoi desideri che ai suoi doveri, al suo desiderio che alla preoccupazione per gli altri. Ema è la regina della provocazione, un’artista dell’improvvisazione, una donna che segue ferocemente solo il suo istinto.
Come un astro incandescente appare nella prima sequenza, ha l’energia di un lancia-fiamme che può bruciarvi e ferirvi. La sua è danza salvatrice, il suo è un corpo per protestare contro un sistema politico che non è fatto a misura di donna. Con Ema l’autore si confronta per la prima volta col Cile contemporaneo, riconfermando un femminile più grande della vita: donne che vogliono scegliere il loro destino e amare liberamente, essere madri o dive celesti, rivendicare gli spazi politici e il sogno incontrollato, il puro desiderio e il piacere dell’esultanza. Ema è un film segreto, volutamente modesto, senza star ma ancora una volta con un grande soggetto “femminile singolare”. Un film di pose impetuose e presa carnale, di passione emancipatrice e fuoco onirico che brucia le carcasse del vecchio mondo. A restare in fondo occhi ardenti di una stella danzante sono le ‘sorelle d’armi’ che fecero l’impresa e il Novecento. MARZIA GANDOLFI
Dal n. 8/2017 di Film Tv vi riproponiamo la recensione di Jackie, il primo biopic al femminile di Pablo Larraín.
Jackie
Un film sui morti, come ne fa spesso Pablo Larraín. Un film sull’ostinata edificazione di un mito, nato in fretta in un’aria di nuove frontiere e bruscamente interrotto dall’assassinio di JFK dopo nemmeno tre anni di presidenza. Un mito che, in realtà, ha retto all’urto dei decenni e delle contraddizioni proprio a causa di quella morte traumatica e pubblica (risparmiando al presidente, per esempio, lo stillicidio sanguinoso del Vietnam), e che si è definitivamente consolidato cinque anni dopo con l’altra morte, quella del fratello più giovane Bobby. Il mito di Camelot, della bella gente giovane che è arrivata nella sala del trono con il suo gusto, la sua cultura e i suoi ideali, ma che non ha avuto il tempo di concludere niente. È questo, soprattutto, che tormenta Bobby (un Peter Sarsgaard dal volto nervoso, già segnato dal destino che lo aspetta). «È tutto qui?» si chiede ogni sera prima di dormire il prete, lucidissimo e “laico”, con cui parla Jackie. Poi, la mattina, quando ti alzi, la prospettiva cambia e capisci che non devi farti domande. Ma Jackie sa che non è tutto lì, che i segni possono essere lasciati, o addirittura “costruiti” (il cavallo con la gualdrappa scura dietro al feretro di JFK, che non andava a cavallo ma in automobile): costretta, in quanto donna, a cesellare la propria immagine giorno per giorno, sposata con il primo presidente che fece tesoro del suo fascino comunicativo (fu in tv che Kennedy, con il ciuffo, il sorriso e gli occhi chiari, sbaragliò il ringhioso, cupo Nixon), ossessionata dalle radici, dall’eredità americana, Jackie, nei tre giorni che passano tra l’attentato di Dallas e il funerale, lavora testarda sulla consacrazione del mito. Nessuno ricorda più James Garfield e William McKinley (entrambi presidenti assassinati), ma tutti sanno chi era Abramo Lincoln. Che comunque, dice l’autista, ha vinto la Guerra di secessione e ha abolito la schiavitù. Ma per Kennedy non ce n’è stato il tempo. Restano allora le macchie di sangue ostinatamente esibite sul tailleur rosa, i figli Caroline e JohnJohn con i cappottini azzurri, la vedova velata che marcia dietro alla bara, il funerale con 103 capi di stato e tutta la gente ai lati del viale, la sepoltura non nella tomba di famiglia ma ad Arlington, cimitero dei caduti in guerra. Il rito pubblico della morte che la consegna per sempre alla Storia. Gran film, Jackie, spiazzante e labirintico come il personaggio che rappresenta: la macchina da presa pare voler entrare nella sua testa, per riascoltare quello sparo e rivedere certi giorni. Ma Larraín sa che delle vite si possono solo cogliere bagliori e tracce. Rinchiude allora Jackie in un nulla temporale schiacciante (solo quei tre giorni, con i flash del passato che s’intrecciano all’intervista concessa al giornalista, in un andirivieni che non molla mai la presa sull’intensa Natalie Portman) e tra pareti che non sono quelle protettive di casa. Jackie non ha casa, non ha nulla, ha solo quel giorno a Dallas, il paese dei pazzi, e quella morte. Come noi. EMANUELA MARTINI
Continuiamo a seguire con gioia il percorso internazionale di Vermiglio di Maura Delpero (vedi newsletter n. 150), ora entrato nella shortlist per l’Oscar al film in lingua straniera (bisogna attendere il 17 gennaio per scoprire se entrerà in cinquina); tra le altre shortlist annunciate, segnaliamo la presenza di Daughters di Natalie Rae e Angela Patton tra i documentari, insieme a Dahomey di Mati Diop (vedi newsletter n. 160), anche in lizza come miglior film straniero.
In Francia è iniziato il processo legato alle accuse che hanno dato il via, nel 2019, al #MeToo francese: quello contro il regista Christophe Ruggia, accusato dall’attrice Adèle Haenel di averla molestata e aggredita sessualmente all’epoca delle riprese e della promozione del film Les diables, quando Haenel aveva tra i 12 e i 14 anni. Ne riparleremo.
Come ogni anno, “Variety” sta pubblicando i video delle sue conversazioni Actors on Actors, incontri tra divi protagonisti di film chiave del 2024. Tra i dialoghi al femminile da non perdere, quello tra Angelina Jolie e Cynthia Erivo, tra Nicole Kidman e Zendaya e tra Pamela Anderson e Mikey Madison.
Singolare, femminile vi augura buone Feste! La newsletter va in pausa natalizia, ci ritroviamo l’8 gennaio. Buona fine & buon principio!