Singolare, femminile ♀ #159: Vita da strega
Sfoderate il cappello a punta e inforcate la scopa, oppure agitate una bacchetta rosa e veleggiate a bordo di una bolla di sapone: in sala c’è Wicked, prima parte di un dittico tratto da un celebre musical di Broadway. Proviamo a raccontarvi il fenomeno, la sua influenza, il suo ruolo nel contribuire all’iconografia stregonesca, tra Il mago di Oz del 1939 e il videosaggio Witches da poco su MUBI.
«Sei una strega buona o una strega cattiva?». Lo domanda una rosea Glinda alla spaesatissima Dorothy appena atterrata nel regno di Oz dopo un movimentato viaggio in tornado. Dorothy protesta, dopotutto lei è una bambina, e «tutte le streghe sono vecchie e brutte». «Oh, no, solo le streghe cattive sono brutte!» la rassicura Glinda con un sorriso, poco prima che sulla scena appaia, in una nuvola di fumo, una rappresentazione tanto perfetta di strega cattiva da diventare quasi subito archetipica. La Strega cattiva dell’Ovest – Wicked Witch of the West, in originale, con un’allitterazione che dà insieme brivido e gusto – nel film Il mago di Oz del 1939 ha naso adunco, mento aguzzo, mani artigliate, è vestita di nero dai piedi al cappello appuntito, agita una vecchia scopa che alla bisogna può diventare volante, e soprattutto ha la pelle verde, come una lucertola, un rospo, un serpente. Nel libro da cui il film è tratto, Il meraviglioso mago di Oz di L. Frank Baum, pubblicato per la prima volta nel 1900, della carnagione verde non si fa menzione – ma, del resto, in quelle pagine la Strega cattiva dell’Ovest non è nemmeno una villain così importante, e nei romanzi successivi, essendo stata immediatamente eliminata da Dorothy, non se ne ricorderà più nessuno (in compenso, però, ha un solo occhio, che tutto vede).
Sebbene il mondo letterario di Oz riscuota un grande successo, si componga di molti volumi, e dopo la morte del suo autore prenda quasi vita propria grazie ad altri romanzi più o meno “apocrifi”, il film Il mago di Oz del 1939 (alla cui regia si alternarono ben quattro cineasti: Richard Thorpe, George Cukor, Victor Fleming e King Vidor – per non parlare dei 18 sceneggiatori!) è… «un cavallo di un altro colore», per usare un’espressione idiomatica che nel mondo di Baum diventa letterale. Come spiega anche Ilaria Feole su Film Tv n. 47 (vedi sotto), il fantasmagorico musical della MGM è diventato una colonna portante dell’immaginario collettivo, profondamente radicato nella coscienza multigenerazionale degli spettatori, e infinitamente citato, rivisitato, remixato, riprodotto. La Strega cattiva dell’Ovest splendidamente interpretata da Margaret Hamilton è, consacrata da classifiche di settore e dalle urla terrorizzate di bambine e bambini, una delle più importanti villain della storia dell’intrattenimento – per l’American Film Institute è al quarto posto nella top ten dei cattivi da cinema, preceduta solo da Darth Vader, Hannibal Lecter e Norman Bates –, ed è per tutti, pressoché indiscutibilmente, verde.
Parte da questa sua caratteristica la riscrittura di Il mago di Oz operata dallo scrittore Gregory Maguire in Wicked – Vita e opere della perfida strega dell’ovest, romanzo pubblicato nel 1995: un racconto, prequel e poi parallelo alle ultra note vicende di Dorothy, che assume la prospettiva proprio della temibile villain. Non certo il primo esempio di riscrittura “revisionista” di un romanzo noto (è stato accostato per esempio a Grendel di John Gardner, storia di Beowulf dal punto di vista del mostro, ma anche a Il grande mare dei Sargassi di Jean Rhys, la cui protagonista è la Bertha Mason di Jane Eyre, e di cui vi avevamo parlato in questo numero della newsletter), il suo discreto successo ha però incentivato decisamente quel particolare sottofilone della narrativa fantasy che prende come base e poi ribalta fiabe popolari e classici letterari. Lo stesso scrittore – precedentemente romanziere per l’infanzia: Wicked è il suo primo romanzo per adulti – ha contribuito grandemente al sottogenere con i suoi lavori successivi: oltre ai sequel ambientati sempre a Oz, ci sono Confessions of an Ugly Stepsister (da Cenerentola), Lost (da Canto di Natale), Mirror, Mirror (da Biancaneve), After Alice (da Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie) e molti altri.
Ma, così come Il mago di Oz della MGM ha soppiantato nell’immaginario i dettagli del romanzo di Baum, a dare un’enorme popolarità a Wicked è stata la sua versione in musical, a sua volta drasticamente reimmaginata rispetto al romanzo di partenza. È uno di quei casi in cui esiste un enorme gap tra paesi anglofoni e resto del mondo: il musical Wicked, musiche e testi di Stephen Schwartz e libretto di Winnie Holzman, è in scena a Broadway, a New York, dal 2003 e al West End di Londra dal 2006, è il secondo musical più remunerativo di sempre dopo Il re leone (ha superato anche Il fantasma dell’opera!), è spesso in tour per gli Usa e il Regno Unito, è estremamente conosciuto, e amatissimo soprattutto da varie generazioni di teenager e di giovani adulti. Se il romanzo di Maguire – che voleva indagare le ragioni e il significato di ciò che viene definito “male”, ed era stato ispirato sia da una critica all’imperialismo Usa post Guerra del Golfo, sia da un terribile fatto di cronaca in cui un bambino aveva ucciso un coetaneo – affrontava temi oscuri e prevedeva trame adulte e violente, a riscrivere la storia per il palcoscenico di Broadway è Winnie Holzman, già creatrice della seminale My So-Called Life, considerata una delle prime serie teen in grado di mettersi sinceramente nei panni degli adolescenti protagonisti.
E infatti Holzman estrae ed espande da Wicked la relazione tra la protagonista Elphaba (la futura Strega cattiva dell’Ovest: il nome viene inventato da Maguire a partire dalle iniziali LFB di L. Frank Baum) e la sua compagna di stanza all’università, Galinda (destinata a diventare Glinda the Good, la Strega buona del Nord). Istantaneamente le due incarnano due modelli di femminilità antitetici, già a lungo esplorati dal cinema e dalla serialità teen, e in cui è facile identificarsi: Elphaba è la “reietta”, la freak dalla pelle verde che si veste sempre di nero, bullizzata e derisa dai compagni, ma determinata e coraggiosa, sempre pronta a sfidare l’autorità per difendere ciò in cui crede (nello specifico: i diritti degli Animali parlanti discriminati e perseguitati); Galinda è la bellissima “principessina” sempre avvolta in abiti vaporosi, la reginetta popolare con codazzo di ammiratori e adepti al seguito, interessata più all’apparenza che alla sostanza. Nell’adattamento cinematografico arrivato in sala in questi giorni, che a differenza del musical teatrale ha ricevuto il permesso di usare liberamente anche le reference visive al film del 1939, il contrasto tra Elphaba e Galinda/Glinda è sottolineato incessantemente dai rispettivi colori, verde-nero per la prima e rosa per la seconda. Ma, dopo aver isolato e consolidato gli stereotipi, l’ulteriore mossa acuta di Holzman è stata quella di giocare a contraddirli, alternando di continuo l’adesione e il ribaltamento delle aspettative.
Quella tra Elphaba e Glinda (che cambia nome nel corso del primo atto del musical, con un gesto che riassume perfettamente la sua personalità insieme ingenua e superficiale – o, ha notato qualcuno, la sua essenza white feminist) è tanto un’amicizia quanto una rivalità (in questi giorni Ariana Grande, che interpreta Glinda nel film, ha sostenuto che il personaggio probabilmente prova anche dell’attrazione sentimental-sessuale repressa per Elphaba, e non ha torto: non solo è una teoria che circola da sempre tra i fan del musical, ma tutto lo show si presta naturalmente e volutamente anche a letture queer). Il primo atto dello spettacolo – che corrisponde esattamente a Wicked: Parte 1, il film di Jon M. Chu appena approdato in sala dopo una lunghissima gestazione – è quello generalmente più amato dagli spettatori, ed è quasi interamente incentrato sugli anni universitari delle protagoniste (sì, Glinda diventa a tutti gli effetti una co-protagonista, a differenza del romanzo) e sulla loro antipatia reciproca che si trasforma inaspettatamente in grande amicizia, replicando in forma (più o meno) platonica la dinamica “enemies to lovers”, di grande successo nelle narrazioni young adult.
Considerato che in Italia il fenomeno Wicked è probabilmente sconosciuto ai più, per provare a spiegarne l’imponenza nel mondo anglofono è utile riflettere sull’influenza che ha esercitato nell’ultimo ventennio sulla cultura pop. È certamente tra i principali responsabili della mini invasione di film e serie ispirati a fiabe classiche cui abbiamo assistito tra anni Duemila e anni 10, da Mirror Mirror a Biancaneve e il cacciatore a Cappuccetto rosso sangue, dalle varie rivisitazioni “ricombinatorie” come la serie Once Upon a Time (nella cui terza stagione, tra l’altro, compare come villain proprio la Strega cattiva dell’Ovest) alle parodie smitizzanti in stile Come d’incanto. La decisione della Disney di confezionare – oltre all’adattamento cinematografico del musical di Stephen Sondheim Into the Woods, tra i precursori di Wicked – il film Il grande e potente Oz, sfortunato blockbuster di Sam Raimi con James Franco, Michelle Williams, Rachel Weisz e Mila Kunis (nei panni della Strega cattiva dell’Ovest) era prima di tutto un tentativo di capitalizzare sul successo di Wicked (oltre che di sfruttare i diritti d’autore sul mondo di Oz, esperimento che, almeno a livello commerciale, la Casa di Topolino fallisce sin dai tempi del cult Nel fantastico mondo di Oz di Walter Murch). E Wicked è pure anticipatore e ispiratore del filone dedicato alle origin story dei villain, che da Maleficent – un film profondamente influenzato e determinato dal successo del musical di Schwartz e Holzman – arriva fino a Crudelia, ma anche a Joker, o a Ratchet. Nella saga di tv movie Disney The Descendants, di discreto successo nel target teen di riferimento, si ritrovano concentrate entrambe le tendenze.
Più di ogni altro titolo, però, è probabilmente Frozen il maggiore erede – o “semi plagio”? C’è chi lo sostiene – di Wicked. Il lungometraggio animato con il maggiore incasso di sempre – almeno fino a quando è stato battuto dal suo stesso sequel, Frozen II – non solo è una rilettura di una villain da fiaba, la Regina delle Nevi dell’eponimo racconto di Hans Christian Andersen, dal suo punto di vista; di Wicked riprende anche e soprattutto la centralità nel rapporto tra le due protagoniste (qui sorelle, invece che amiche), che incarnano caratteri e personalità agli antipodi, anche se meno immediatamente identificabili con stereotipi femminili: Elsa è seria, altera, elegante e triste, costantemente impegnata a custodire il proprio segreto e a reprimere il proprio potere; Anna è allegra e goffa, contemporaneamente eroina e comic relief (in Wicked è a Glinda che è affidata la linea comica). Ma le similitudini non sono finite: c’è la rivelazione che un personaggio inizialmente presentato come positivo è in realtà il vero villain della storia; e poi, più di tutto, c’è Idina Menzel, l’attrice che ha originato il ruolo di Elphaba a Broadway, a dare la voce a Elsa di Frozen, e a intonare Let It Go, brano tormentone e inno d’empowerment in tutta evidenza ricalcato sulla celebre Defying Gravity di Wicked. Si tratta, in entrambi i casi, del climax narrativo ed emotivo in cui la “strega” decide di non reprimere più i propri poteri, di abbandonare le maglie del conformismo, di scegliere la libertà anche a costo della solitudine, di trasformare la propria freakness in forza senza eguali. È un ribaltamento semplice, perfino elementare, eppure di rara efficacia, e di grandissimo impatto (basterebbe considerare quanto è stato, e quanto viene tuttora, riutilizzato e riciclato, anche dalla stessa Disney), ovviamente adottato anche come inno LGBTQ+.
Le dimensioni del fenomeno Wicked servono dunque a spiegare perché, nell’adattare lo show di Broadway per il grande schermo, si sia scelto un approccio molto più vicino a quello del cinema blockbuster contemporaneo che a una più tradizionale trasposizione musical (il genere ha smesso di essere davvero trattato come un kolossal dopo i celebri flop di titoli come Hello Dolly negli anni 60: da allora il musical al cinema è sempre percepito come un investimento rischioso, e le strategie per aggirare i suoi presunti punti deboli possono passare dall’insistenza sul “realismo” – i numeri “diegetici” alla Bob Fosse, le “voci dal vivo” di Les Miserables – o da campagne di marketing truffaldine che sfrontatamente nascondono i momenti musicali, vedi i recenti casi di Wonka, Mean Girls, Il colore viola). Il film da Wicked è stato spezzato in due parti (la seconda uscirà tra un anno esatto), una scelta temeraria anche perché (quasi tutti i fan sfegatati del musical lo ammetteranno) il secondo atto è riconosciuto come più debole del primo, ma con un suo senso narrativo ed emotivo – è vero quel che ha detto Stephen Schwartz: seguire immediatamente il climax di Defying Gravity è pressoché impossibile. Wicked il film segue purtroppo la scuola del blockbuster contemporaneo anche nelle scelte estetiche, in una grandiosità che alle – bellissime, e spesso anche inventive – scenografie affianca tanta computer grafica (una decisione anche comprensibile per mettere in scena gli Animali parlanti, che tanta rilevanza hanno nella storia) e soprattutto una fotografia uniforme e piatta (conseguenza dell’abuso di green screen?) spezzata solo dall’insistenza su lens flare e controluce più dannosi che originali.
Ma resta interessante, almeno per chi scrive, che questo tipo di film, con questa storia, per questo pubblico – un musical fantasy, con una prospettiva ostentatamente femminile e sottotesti politici chiari per quanto semplici ed edulcorati, rivolto prima di tutto a giovani donne e alla comunità queer (un po’ come Barbie un anno fa) e solo in seconda battuta a tutti gli altri – riceva lo stesso trattamento solitamente riservato ai supereroi e alle consolidate saghe action e sci-fi. Raccogliendo oltreoceano, almeno a giudicare dagli incassi del primo weekend e dall’insistente chiacchiericcio social, un successo da record, almeno in parte trasversale, oltre a un certo apprezzamento critico e alle prime voci di una corsa agli Oscar (si rumoreggia soprattutto di una nomination per Ariana Grande come attrice non protagonista, per quanto la prova di Cynthia Erivo nei panni di Elphaba sia altrettanto spettacolare).
Anche perché, almeno sottotraccia, una certa differenza con i suoi epigoni “fiabesco-revisionisti”, Wicked ancora la conserva. Quasi sempre, quando Hollywood in questi anni ha deciso di ri-raccontare la storia di un celebre villain dal suo punto di vista, ha finito per concentrarsi (ne parlavamo nella già citata newsletter su Crudelia) su un trauma annidato nel passato del personaggio, o su un disagio legato al suo aspetto o alla sua salute mentale, su un rifiuto sociale e un bullismo generalizzato, motivi che portano il villain in questione a diventare tale come unico gesto di ribellione e di rivalsa. Anche in Wicked ci si interroga su quali siano le ragioni che conducano alla malvagità, ma il sottotesto politico della vicenda sposta l’attenzione sulle norme e il controllo sociali, e sull’influenza della propaganda. Non si tratta qui di raccontare la storia di come Elphaba diventi cattiva, e neanche di rivelarci che, sotto sotto, è buona ma incompresa (un risvolto che spesso mina la riuscita e la credibilità di alcune villain origin story): l’epiteto “Strega cattiva dell’Ovest” è qualcosa che le viene imposto dai veri antagonisti, da chi detiene il potere e non vuole perderlo, distorcendo i fatti, propagando bugie e alimentando lo stigma sociale attorno al diverso, al non conforme, sfruttando la sua pelle verde per punirla del rifiuto di giocare secondo le regole, e per controllarne il potere.
È qui che – pur nei limiti di un’opera che, fin dalla sua versione a Broadway, è soprattutto un grande spettacolo per famiglie – la scelta di focalizzarsi sul rapporto tra Elphaba e Glinda, e di smantellare difficoltosamente la loro iniziale rivalità, assume un ulteriore significato che ci sentiamo di poter chiamare “femminista”. Non tanto (o meglio non solo) perché è un’implicita ode alla sorellanza, ma perché rivela l’evidenza che entrambe le etichette, la “Strega cattiva dell’Ovest” e la “Strega buona del Nord”, sono appunto tali, “etichette”, e dunque maschere, e facilmente anche prigioni.
È uscito in questi giorni su MUBI Witches di Elizabeth Sankey, documentario sperimentale che sovrappone il videosaggio cinematografico alla confessione personale. Sankey, filmmaker e videosaggista britannica (da segnalare il suo precedente lavoro sulle rom com Romantic Comedy) ha attraversato una scioccante depressione post partum dopo la nascita del figlio, e ha passato diverso tempo chiusa in una struttura riabilitativa dedicata, dove ha conosciuto altre donne affette da malattie psicologiche perinatali. La condivisione delle reciproche esperienze – depressione e apatia, insonnia cronica, pensieri e ossessioni violente, istinti suicidi e in alcuni non infrequenti casi anche visioni demoniache e psicosi “soprannaturali” – le ha fatto riscontrare sempre più punti di contatto tra l’esperienza post partum e il folklore e la rappresentazione popolare della strega, arrivando a trovare similitudini illuminanti nelle confessioni di donne condannate per stregoneria nei decenni della caccia alle streghe.
«Chi vorrebbe essere una strega cattiva?» s’interroga Sankey all’inizio del film, dopo aver confessato la sua fascinazione fin dall’infanzia per la figura della strega, e il desiderio segreto di governare la magia – bianca, naturalmente! Nessuna vuole essere una «ugly old witch». Alla fine di Witches – dopo aver indagato tra le altre cose anche il modo in cui le conoscenze mediche empiriche tramandate tradizionalmente per via femminile siano state riconfigurate come maligni indizi di stregoneria in un’ennesima forma di controllo sociale patriarcale – giunge a un’altra piccola rivelazione: anche la Strega buona è prigioniera della propria maschera, di canoni di bellezza e di impossibili standard di giovinezza, della propria aderenza al conformismo, alle regole dell’accettabilità condivisa da seguire attentamente per evitare lo stigma, il rifiuto, l’isolamento. D’altronde, a interpretare la Strega cattiva dell’Ovest in Il mago di Oz sarebbe dovuta essere un’altra attrice, Gale Sondergaard: inizialmente era prevista per il personaggio un’immagine più elegante e glamour, molto somigliante a quella della Regina cattiva di Biancaneve (pre travestimento per spacciare alla figliastra la mela avvelenata). Quando i produttori decisero di cambiare stile e abbracciare pienamente l’iconografia della vecchia strega arcigna e terrificante, Sondergaard si rifiutò di sottoporsi all’imbruttimento necessario con protesi e trucco, temendo per la propria carriera; fu sostituita da Margaret Hamilton, fino ad allora caratterista (sempre rifiutata ai provini da protagonista a causa proprio del suo aspetto non convenzionale), che s’immerse anima e corpo nel personaggio, rimanendone segnata a vita – letteralmente, considerate anche le ustioni procurate dagli effetti speciali infuocati a contatto con il suo make-up verde (una strega “bruciata” che sopravvive al rogo!).
Dopo Il mago di Oz, Margaret Hamilton ebbe una discreta carriera tra grande schermo, tv e palcoscenico, ma naturalmente il ruolo della Strega cattiva dell’Ovest le rimase “addosso”: spesso chiamata a incontri con il giovane pubblico o a fare da guest star in special o serie televisive, riscontrava negli spettatori un breve istante di sincero terrore quando decideva di prorompere nella sua famosa risata malvagia, ma ci teneva anche a spiegare – come in una celebre apparizione nel seguitissimo programma per bambini di Fred Rodgers – che quello della Strega era un costume, che la pelle verde e il mento appuntito erano trucchi, che sotto la maschera c’era una donna come tutte le altre. Un po’ come le madri intervistate da Elizabeth Sankey in Witches, o perfino le appartenenti all’improvvisata congrega della pasticciata serie Marvel Agatha All Along – che, non a caso, nell’episodio migliore si ritrovano mascherate da celebri streghe pop, con la protagonista Agatha Harkness inevitabilmente a impersonare la Wicked Witch of the West. «È basata su di me, lo sai?» dice sorniona, con una strizzatina d’occhio, anche oltre la quarta parete. Ecco, sì, forse il punto è questo: tutte le streghe, in fondo, sono basate su di noi. Vogliamo sfidarla, questa gravità? ALICE CUCCHETTI
In occasione dell’uscita di Wicked, sul n. 47/2024 di Film Tv, Ilaria Feole indagava l’enorme peso nell’immaginario collettivo di Il mago di Oz, in questo articolo che vi riproponiamo.
In fondo al mago
Nel 2019 uno studio condotto dal Northwestern Institute on Complex Systems ha vagliato la rilevanza culturale di 15.425 film di produzione statunitense sulla base di un criterio preciso: non la ricezione critica, i premi ricevuti o gli incassi, bensì la quantità e la frequenza delle citazioni di quell’opera all’interno di altri prodotti audiovisivi. Al primo posto, davanti a Star Wars e Psyco, si è così piazzato Il mago di Oz del 1939, che a distanza di 80 anni (oggi, 85) risulta la più influente opera cinematografica di sempre. Se parliamo di citazionismo, pare logico: solo circoscrivendo alla singola frase «I have a feeling we’re not in Kansas anymore» («mi sa che non siamo più in Kansas», come Dorothy argutamente spiega al cagnetto Toto dopo il tornado), si arriva a centinaia di film ed episodi di serie tv che la ripropongono in bocca ai più disparati personaggi (per farvi un’idea, c’è questo montaggio: www.youtube.com/watch?v=QE_OLPEN5vU&t=100s). Ma, certamente, non è solo questo: l’abbagliante Technicolor, le creature perturbanti, i brani che si conficcano nella corteccia cerebrale e le vibrazioni lisergiche del musical di Fleming ne fanno un’esperienza audiovisiva capace di resistere al tempo, trovando la sua collocazione in ogni epoca, che si tratti di guardarlo a volume azzerato abbinandolo a The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd, della sempiterna infatuazione di David Lynch per quell’immaginario («non passa un solo giorno senza che io pensi a Il mago di Oz»), esplorata dal doc Lynch/Oz di Alexandre O. Philippe, o delle citazioni visive di cui è costellato uno slasher contemporaneo come Pearl di Ti West. Eppure, la pervasività dell’opera di L. Frank Baum non è stata così immediata: nonostante il successo editoriale di Il meraviglioso mago di Oz, uscito allo scoccare del XX secolo, la stessa fortuna non arrise alle trasposizioni dell’epoca del muto (almeno sette, ben prima del celeberrimo musical MGM), alcune delle quali prodotte da Baum medesimo, che è stato anche uomo di spettacolo, divorato da una non sempre corrisposta passione per il palcoscenico. Molti dei 13 sequel del suo romanzo furono pensati proprio per un successivo adattamento teatrale e/o cinematografico, e le ambizioni di Baum erano quelle di un visionario troppo avanti sui tempi, un febbrile Walt Disney ante litteram votato alla bancarotta: non solo tentò invano (con la sua Oz Film Manufacturing Company) di creare un mercato per il cinema per bambini, all’epoca pressoché inesistente, ma progettava anche un parco a tema, o meglio; un’intera isola al largo delle coste californiane da trasformare in un Regno di Oz di cui sarebbe stato il governatore. Quando Baum morì, nel 1919 (le sue ultime parole: «Ora possiamo attraversare le sabbie mobili insieme», riferendosi al deserto che circondava il reame immaginario dei suoi libri), Oz era ormai considerato veleno per il box office, e il suo inarrestabile e sfortunato creatore non poteva immaginare che, vent’anni dopo, una trasposizione del suo lavoro sarebbe diventata «il film più influente della storia del cinema». La sua parabola è anche una delle infinite possibili letture della sua opera: la Città di Smeraldo come illusoria fabbrica dei sogni, una Hollywood prima di Hollywood lastricata d’oro e governata da un illusionista ambizioso, un venditore di fumo che incanta le platee proiettando un’immagine ingigantita di sé (una versione favolosa, in fondo, dell’autonarrazione in termini mitici che gli Stati Uniti hanno nel DNA). Ma anche un omuncolo dalla spropositata grandeur che tiene in scacco un intero paese: la creatura di Baum presagiva non solo gli incantatori di serpenti dello showbusiness (Goodbye Yellow Brick Road cantava Elton John, nel concept album sulla perdita dell’innocenza e il bisogno di tornare alle radici, lontano dalle sirene dello spettacolo), ma anche, a ben vedere, le dittature di quel Novecento che vedeva la luce contemporaneamente al suo romanzo (una suggestione portata a compimento dalla compagnia teatrale Fanny & Alexander nello spettacolo HIM). Sul fronte politico, d’altronde, Baum rimase ambiguo; al contempo a favore del genocidio dei nativi americani (nessun posto è bello come casa, anche se l’hai sottratta col massacro?) e sostenitore del suffragio femminile, scrisse numerosi personaggi di giovani eroine d’azione. Per lo sguardo di Il mago di Oz sul femminile vi consigliamo però di abbinare a Wicked (in sala dal 21 novembre, è la prima metà della trasposizione dell’omonimo musical di Broadway ambientato a Oz prima dell’arrivo di Dorothy) la visione di Witches, il doc di Elizabeth Sankey su MUBI dal 22 novembre, che incasella la rivalità fra le streghe buone & belle e quelle brutte & cattive di Oz come uno dei tanti rinforzi narrativi all’idea di un modo “giusto” e uno “sbagliato” di essere donna; faceva bene Dorothy a darsela a gambe (e scarpette) levate. ILARIA FEOLE
Continua il successo di The Substance, nonostante in molti paesi sia già disponibile anche in versione digitale; in Italia il film di Coralie Fargeat ha superato i 2 milioni e 300 mila euro d’incasso (la casa distributrice I Wonder Pictures ha pubblicamente lamentato l’ingiustificata riduzione delle sale in cui il film viene proiettato a causa di strategie distributive). Ne approfittiamo per segnalarvi due nuove recensioni, scritte da due collaboratrici e amiche di Singolare, femminile: questa, su IGN, di Cristina Resa, e questa, su Lo Specchio Scuro, di Martina Neglia.
La violenza ostetrica e ginecologica è un fenomeno poco mappato ma che negli ultimi anni emerge sempre più spesso dai racconti delle donne che l’hanno subita. Da qualche settimana è in corso il podcast A gambe larghe, curato da Domitilla Pirro e Benedetta Petroni, che prova a circoscrivere e spiegare di cosa si tratta, attraverso ricordi e testimonianze.
È in programma da oggi e fino al 1° dicembre la 22esima edizione del Florence Queer Festival, al cinema La Compagnia di Firenze. Trovate il programma qui. Segnaliamo inoltre che ieri a Roma Margherita Vicario ha ricevuto il Premio Sentieri Selvaggi alla migliore opera prima della stagione 2023/2024 per il suo Gloria!