Singolare, femminile ♀ #158: Storia di un ragazzo
Sul podio dei migliori incassi di questi giorni c’è Il ragazzo dai pantaloni rosa, secondo lungometraggio di fiction di Margherita Ferri, che porta al cinema la storia del giovane Andrea Spezzacatena, vittima dell’omofobia: abbiamo parlato con la regista di come il suo film pratica ed esercita uno sguardo empatico.
3,5 milioni di euro. È il sorprendente incasso, aggiornato al 19 novembre, di Il ragazzo dai pantaloni rosa, al secondo posto al box office italiano subito sotto Il gladiatore II. Uscito in sala il 7 novembre, il film che ripercorre la vita di Andrea Spezzacatena - quindicenne vittima di bullismo omofobico suicidatosi nel 2012 – era stato presentato in anteprima ad Alice nella città alla Festa di Roma in una proiezione guastata da irricevibili insulti omofobi gridati da alcuni giovani spettatori in galleria; proprio da quell’episodio è nata l’iniziativa Uniti oltre il bullismo, promossa da Alice nella Città insieme ad Associazione Unita, che mira a promuovere l’educazione sentimentale e la comprensione delle differenze accompagnando il giovane pubblico in sala alla visione del film.
Ora, Il ragazzo dai pantaloni rosa si prende la sua rivincita, facendosi largo al botteghino e raggiungendo un ampio pubblico con il suo «invito all’empatia», come suggerisce la regista Margherita Ferri. Classe 1984, Ferri predilige storie - di fiction ma anche documentarie - di formazione, mettendo in scena con grande sensibilità giovani e giovanissimi in cerca del loro posto nel mondo, identità in fieri. Lo avevo fatto nell’esordio Zen - Sul ghiaccio sottile (2018; su MUBI), coming of age dal piccolo budget e dall’animo punk che tratta la disforia di genere, e ora, al suo secondo lungo di finzione, maneggia con cura una vicenda delicata. Ne abbiamo parlato con la regista.
Il film è ispirato al libro Andrea oltre i pantaloni rosa di Teresa Manes, la madre del ragazzo, ma soprattutto si basa su una storia tristemente vera: come ti sei approcciata a questa materia incandescente?
Si tratta di una materia difficile da maneggiare, perché comunque il finale tragico della storia è inevitabile, avremmo tanto voluto cambiarlo. Il film è costruito come un tributo alla vita di Andrea Spezzacatena e, nonostante l’esito drammatico, la sua storia può aiutare qualcuno oggi a parlare o a iniziare un dialogo sul tema del bullismo, e in particolare di quello omofobico, che purtroppo è ancora molto presente, soprattutto sui social. Il soggetto di Il ragazzo dai pantaloni rosa, scritto da Roberto Proia, anche sceneggiatore, si ispira al libro di Teresa, che è stata infatti contattata e ci ha raccontato tantissime cose, ma se ne discosta anche: quello era il punto di vista della madre, mentre il film assume la prospettiva di Andrea.
La tua esperienza nel documentario ti ha aiutata in questo progetto?
Ho fatto tanti documentari nella mia carriera, l’ultimo proprio quest’anno, un film commissionato dalla regione Emilia-Romagna su alcuni sopravvissuti a reati gravi, come il tentato femminicidio, quindi sempre su temi molto delicati. Per Il ragazzo dai pantaloni rosa la produzione voleva realizzare un film di finzione, ma credo che il mio background di documentarista sia stato molto importante: per me è fondamentale il rispetto di chi sceglie di raccontare la propria storia e metterla nelle tue mani, come per esempio Teresa, che era presente durante la scrittura, ha visto il film e ha dato una sorta di sua approvazione a tutto il processo.
Oltre a raccontare un fatto reale, il film è anche un coming of age, si avvicina al teen movie, soprattutto nella prima parte.
Il coming of age è molto nelle mie corde, è quello che mi piace fare, mi ci trovo, è un linguaggio che mi appartiene, e amo molto lavorare con attori giovani e entusiasti. Quindi sì, Il ragazzo dai pantaloni rosa racconta la vita di Andrea, non tanto la sua morte, più che altro perché volevamo fare un film che fosse per tutti, che parlasse di bullismo omofobico e che potesse arrivare a diverse generazioni, ai genitori come ai ragazzi. Secondo me non c’era bisogno di mostrare la morte né di indugiare sulla tragedia. Invece raccontare la vita di Andrea aiuta il pubblico ad adottare il punto di vista di chi subisce bullismo, di chi ha una percezione diversa di scherzi, battute, prese in giro che accadono a scuola - ma anche nella vita, i bulli ci sono pure in politica, abbiamo veri e propri bulli eletti, per cui sono dinamiche che si riscontrano a tutti i livelli. Il film, comunque, ha pochi momenti di violenza, porta a mettersi nei panni di un ragazzo che viene preso di mira per motivi assurdi, e può aiutare anche i bulli a riflettere sul peso delle proprie azioni, sul peso delle proprie parole.
Racconti spesso l’identità di genere dalla prospettiva degli adolescenti, penso a Zen ma anche al tuo corto doc Odio il rosa!, su una bambina a cui piacciono “le cose da maschi”…
Credo che, quando si è adolescenti, le domande sulla propria identità - chi sono, chi mi piace, come mi vedono gli altri, qual è il mio posto nel mondo - siano universali, è una fase in cui costruiamo la persona che diventeremo da adulti, a prescindere da quale sarà l’approdo di ognuno, che poi può anche cambiare. Per esempio, la protagonista di Odio il rosa! ora è una ragazzina che suona la batteria ma è molto femminile, e per me è interessante raccontare storie in cui i personaggi sono liberi. Anche Andrea era libero da sovrastrutture sociali rispetto al genere e alle espressioni di genere, a come un maschio o una femmina dovrebbe apparire, lui però è stato messo alla gogna per questa sua libertà. Dall’altra parte c’è il bullo, Christian, che è bello, forte, fa sport, incarna tutte le aspettative sui maschi ma in realtà è ingabbiato. In questa vicenda, Andrea non riesce a reggere il peso della violenza, che si scatena su di lui perché semplicemente non rispetta le norme sociali, e lo fa tra l’altro in maniera molto tenera e naïf. Non riesce a chiedere aiuto, nonostante fosse una persona molto vitale - proprio come il film -, aveva la tendenza a non condividere il proprio dolore. Per questo Il ragazzo dai pantaloni rosa è un invito all’empatia ma anche alla condivisione.
Gli attori - adulti, come Claudia Pandolfi, ma soprattutto giovani: Samuele Carrino, Sara Ciocca, Andrea Arru - sono ottimi: come hai scelto il cast?
Claudia era la prima scelta per interpretare Teresa, abbiamo avuto la fortuna che fosse libera perché le era saltato un film. Lei si è buttata anima e corpo sul progetto, lo ha sentito molto vicino. Per gli altri ruoli abbiamo fatto dei provini e devo dire che sono molto contenta degli attori. Sara Ciocca (che interpreta Sara, l’amica di Andrea) ha fatto già tantissimi film, è una professionista. Samuele Carrino (Andrea) è giovanissimo, compie 15 anni tra poco, aveva già fatto qualche film ed è molto espressivo, gli basta un battito di ciglia per raccontare, è sempre dentro la scena. Con lui abbiamo lavorato molto bene su ogni beat della storia, e soprattutto sulle motivazioni del suo personaggio e su quelle del personaggio di Andrea Arru, che interpreta Christian, per esplorare la relazione tra loro due e capire da dove nasce questa violenza.
Parlando dell’accoglienza del pubblico, il film sta andando molto bene al box office, anche se ci sono state polemiche dopo la proiezione in anteprima alla Festa di Roma, durante la quale si sono sentite uscite omofobe da parte di alcuni studenti presenti in sala, segno forse che un lavoro come il tuo è ancora molto necessario…
Guarda, è stato un episodio meno eclatante rispetto a quanto poi se ne è parlato, in sala c’erano alcune classi un po’ rumorose, ma nonostante i commenti noi siamo entrati a fine proiezione e la maggior parte degli studenti era davvero commossa, si stavano abbracciando, c’era una bella atmosfera. Comunque sono molto contenta del risultato, oltre i 3 milioni e mezzo questa mattina! Non è del tutto inaspettata questa reazione ma sicuramente è diversa dal solito. Io vengo da Zen, che era distribuito in dieci copie e aveva guadagnato poco, era un’esperienza molto più piccola, con temi simili ma con una portata differente. Mi fa molto piacere che Il ragazzo dai pantaloni rosa abbia ricevuto apprezzamento da persone di età diverse, a me arrivano centinaia di messaggi al giorno, tante persone raccontano la loro storia, mi dicono che si sono rivisti nel film. Credo sia un film che sta colpendo il pubblico.
Avevi in mente qualche titolo o regista durante il lavoro?
I miei maggiori riferimenti sono il cinema indipendente americano queer, Gus Van Sant, Xavier Dolan, Gregg Araki, Sean Baker, e il cinema europeo di Céline Sciamma, Andrea Arnold, Lukas Moodysson, tutti registi che parlano di adolescenza, giovinezza, formazione, ma che lavorano proprio sul linguaggio del cinema. Sono contenta che il film, specie nella terza parte, sia molto libero nella forma, per me è stato molto interessante lavorare visivamente sulla storia.
Mi pare che oggi ci sia, al cinema ma soprattutto in tv, una rappresentazione più inclusiva, più attenta, penso a serie che hanno avuto successo internazionale da Sex Education a Heartstopper, e poi a livello italiano Prisma e SKAM Italia. Cosa ne pensi?
Il panorama mediatico sulle rappresentazioni LGBT+, rispetto a quando ho fatto Zen sei anni fa, è cambiato radicalmente, principalmente per l’arrivo in tutto il mondo di produzioni originali di piattaforme come Netflix, Prime Video, Disney+, che hanno un’attenzione particolare per il racconto delle minoranze e della comunità LGBT. In Italia il territorio era molto impervio, non c’era la cultura di raccontare un punto di vista diverso. Quindi sicuramente è cambiato, anche se credo che al momento l’interesse si sia un pelo spento: alcuni casi in Italia si sono fermati al livello del “tokenismo” per cui bisogna aderire forzatamente alle richieste e quindi magari inserire un personaggio omosessuale senza raccontare davvero una comunità o un punto di vista. Credo che l’autenticità e la varietà del racconto si basino sul dare l’opportunità a registi e registe, sceneggiatori e sceneggiatrici, produttori e produttrici della comunità di esprimersi. Non serve dire “dovete raccontare un personaggio omosessuale”, piuttosto c’è bisogno di chiamare persone che hanno già quello sguardo specifico, come me o altri professionisti del settore. Questo, secondo me, è un passo ancora da compiere. Per esempio, SKAM e Prisma sono dirette quasi interamente da un regista maschio etero, ed è emblematico che in Italia le uniche serie che trattano questi temi abbiamo uno sguardo che non viene dalla comunità, che non vuole dire automaticamente che è giusto o sbagliato, brutto o bello, però secondo me il passo successivo su cui porre l’attenzione è proprio questo: la pari opportunità. GIULIA BONA
Un altro intelligente intreccio tra coming of age e racconto di sensibilizzazione sull’omofobia è la succitata serie britannica Heartstopper, giunta alla terza stagione su Netflix: vi riproponiamo la recensione della prima annata, da Film Tv n. 19/2022.
Heartstopper - Stagione 1
La vita di Charlie - vittima di bullismo a scuola dopo aver rivelato la sua omosessualità - è sconvolta quando il popolare Nick gli offre di unirsi alla squadra di rugby: Charlie è attratto da lui, ma pensa di non avere nessuna possibilità. Tratta dall’omonimo graphic novel di Alice Oseman (Mondadori), la serie mappa un mondo teen - gli adulti sono solo apparizioni speciali (di qui la manciata di minuti della guest star Olivia Colman) - che si rapporta naturalmente a quello della serie Love, Victor, altro felice esempio di racconto adolescenziale su coming out e identità in costruzione. Ma Heartstopper va oltre perché, pur rivendicando la sua origine fumettistica - richiamata dai toni pastello e da una garbata animazione che, con disegni sovraimpressi, rivela i pensieri reconditi dei personaggi o enfatizza i picchi emozionali -, riesce a sublimarla in forza di una scrittura eminentemente veristica: personaggi autentici (al bando anche le bellezze da poster) e nessun sottotesto militante a far da didascalia obbligata. Al discorso attivista, squisitamente americano, Heartstopper oppone una marca ruvidamente british preferendo, all’idealismo educativo della succitata serie Disney, una più plausibile presa di coscienza delle asperità e delle sfide che la realtà propone, partendo, come fa, da una prospettiva pragmatica, fragilmente umana. In questo senso il tenero tormento dei due protagonisti non ha nulla di artificialmente dimostrativo, ma una complessità e un’articolazione argomentativa che schiva letture semplicistiche o schematismi comportamentali “correttamente” rassicuranti. Una perla. LUCA PACILIO
Comincia oggi, 20 novembre, il festival Cinema e donne di Firenze, primo festival pensato per dare spazio alla cinematografia delle donne e giunto alla 45ª edizione: in programma film di registe da 19 paesi, l’omaggio a Margarethe Von Trotta, una “carte blanche” firmata da Céline Sciamma e in concorso opere prime e seconde selezionate dai grandi festival internazionali (in giuria anche la co-autrice di Singolare femminile Ilaria Feole). www.iwfffirenze.it
Il 25 novembre si celebra la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, istituita dall’Assemblea delle Nazioni Unite nel 1999: sabato 23 novembre Non una di meno organizza manifestazioni nazionali a Roma e a Palermo invitando a scendere in piazza con lo slogan Disarmiamo il patriarcato.
La piattaforma di streaming europea arte.tv ha creato per l’occasione una collezione di documentari ad hoc, che spaziano dal femminicidio alla condizione femminile nelle carceri fino al diritto all’aborto, dal titolo Violenza sulle donne: una piaga mondiale, disponibili gratuitamente e con sottotitoli in italiano sul sito arte.tv/it.
Steve McQueen e Coralie Fargeat sono tra i nomi che hanno deciso di disertare il polacco Camerimage Film Festival, dedicato alla direzione della fotografia, in seguito all’articolo firmato dal direttore del festival Marek Zydowicz su “Cinematography World”, dove affermava che ampliare la percentuale di donne dietro la macchina da presa avrebbe finito per includere nella selezione film «di qualità mediocre». Fargeat ha anche ritirato il suo The Substance dal programma del festival.