Singolare, femminile ♀ #157: Circolo (semi)chiuso
Mentre dall’altra parte dell’oceano, sulla statunitense HBO, si concludeva la quarta e ultima stagione di L’amica geniale, sui nostri lidi la messa in onda dell’ultima annata ha preso il via, su Rai1. L’ha vista per noi la guest star Martina Neglia, che ci racconta il suo rapporto con la tetralogia ferrantiana e le sue reazioni alla visione, tra emozioni e perplessità.
Nelle ultime ore, senza sorprese, sia Instagram sia TikTok si sono (ri)popolati di contenuti emotivi ed entusiasti dedicati a L’amica geniale. La programmazione della quarta e ultima stagione della serie tv tratta dall’omonima tetralogia scritta da Elena Ferrante si è infatti conclusa questo lunedì negli Stati Uniti e a distanza di qualche ora di fuso orario è iniziata qui in Italia, con i primi due episodi trasmessi come di consueto in prima visione su Rai1. Partirò quindi con una premessa, unendomi al coro di voci commosse: parlare del lavoro di Elena Ferrante, e per diretta proiezione della serie tv, non è facile. La tetralogia, che ha spopolato in lungo e in largo per il mondo tanto da far parlare di sé con l’espressione Ferrante Fever, è stata consacrata recentemente anche dal “New York Times” come libro più importante del XXI secolo. C’è quindi un’importanza letteraria che, salvo la stizza di alcuni, è ormai riconosciuta, studiata, che è stata in grado di guadagnare consensi e appassionare trasversalmente tra persone (direi soprattutto donne) diverse per età, origini, luoghi di appartenenza e anche estrazione sociale.
Ho letto la prima volta L’amica geniale nel 2017, a serie già conclusa, prendendo in prestito i libri dalla madre del mio ragazzo di allora. È stato per me un incontro travolgente, di quelle letture per me davvero febbricitanti che, complici la scrittura ammaliante e allo stesso tempo chirurgica di Ferrante, mi hanno catapultata tra gli stradoni polverosi di Napoli, “del rione”, alla scoperta di un’amicizia straordinaria. Lessi i primi tre libri nell’autunno di quell’anno, con un’ansia e una foga che mi facevano dimenticare di mangiare e dormire: per me esistevano soltanto Lila e Lenù. L’unico stop che diedi a quella smaniosa curiosità fu proprio tra il terzo e il quarto, Storia della bambina perduta, per il più semplice dei motivi: dopo aver vissuto l’infanzia, la giovinezza, la prima età adulta delle due protagoniste, che in qualche modo avevano parlato e riflesso anche parte della mia vita come donna, non avevo alcuna voglia di separarmene, tagliare il filo che mi legava a loro e quindi salutarle.
Non è poi un caso che anche questa estate, quando ho riletto tutta la tetralogia in vista dell’ultima stagione della serie, l’ho fatto in parte prendendo nuovamente in prestito i libri dalla madre del mio compagno di adesso. Scoprendo, a distanza di sette anni, dettagli della storia che mi erano sfuggiti, ma anche di come è cambiato il mio sguardo nei confronti dei comportamenti e delle scelte che segnano la vita della due protagoniste. Parlare quindi di L’amica geniale, e soprattutto di quest’ultimo capitolo, non è facile perché c’è una componente di importanza personale e di rivendicata emotività che si intrecciano intorno a qualsiasi tentativo di critica oggettiva ed espressione di gusto. Dopo averle salutate su carta, la serie ha contribuito a mantenere vive, in altra forma, queste due personagge così sfaccettate e complesse e l’universo narrativo in cui si sono mosse. Guardare l’ultimo episodio vorrà dire solo una cosa: l’addio a Lila e Lenù sarà definitivo.
Se però le prime tre stagioni erano state, a mio parere, all’altezza del racconto di Ferrante; la quarta invece non riesce a rendere a pieno gli intricati sviluppi del quarto romanzo. Per quanto una trasposizione televisiva/cinematografica debba vivere una vita a sé e in qualche modo anche emanciparsi dall’opera originale, la quarta stagione – la cui regia è stata assegnata a Laura Bispuri – si è dovuta confrontare con due grandi ostacoli: da una parte, un arco temporale più esteso rispetto ai capitoli precedenti (dal 1976 fino a metà degli anni 90, per poi arrivare/ritornare al 2010) e dall’altra, connessa alla prima per ovvie necessità di crescita e invecchiamento, al rinnovamento del cast. Lenù saluta Margherita Mazzucco e passa il testimone ad Alba Rohrwacher, che già ne era stata voce-pensiero fin dal primo episodio. Lila fa lo stesso da Gaia Girace a Irene Maiorino. Appare nel cast l’instancabile Fabrizio Gifuni nei panni di Nino Sarratore.
Seppur fisiologici e ampiamente anticipati dalle ultime scene della terza stagione, i cambiamenti degli attori e delle attrici portano quindi subito a una sensazione di straniamento. Da attori eccessivamente giovani tirati fino a età inverosimili, ad altri forse troppo adulti per avere poco più trent’anni. Se Maiorino o Gifuni però hanno fatto un enorme lavoro in termini di continuità, tanto che se chiudiamo gli occhi ci pare di sentire anche la “vecchia” Lila e il “vecchio” Nino, forse la meno centrata è risultata proprio Rohrwacher, che Elena è stata fin dal primo giorno. Forse troppo algida, troppo serenamente composta per una personaggia che in quella compostezza si è sempre tenuta con affanno.
Senza entrare troppo nelle specificità della trama, Storia della bambina perduta è un romanzo lungo e turbolento: l’ampia finestra temporale raccoglie un affastellarsi di eventi. La separazione di Elena da Pietro, il trasferimento a Milano dalla cognata e la vicinanza ai circoli femministi. La passione con Nino e la decisione di tornare a Napoli con le figlie, la gravidanza e il rinnovato affiatamento con Lila. Il tradimento, non troppo inaspettato, di Sarratore, il rione che si riprende Elena e la ricaccia tra le figure ambigue che lo popolano e i suoi nascosti torbidi, per portarla però ancora più vicina a Lila, in un legame di sorellanza che le due in maturità non avevano ancora sperimentato. È sicuramente il romanzo più doloroso di tutti perché segnato dalle perdite, dalle ferite di rapporti insanabili, dal confronto con il tempo che corre e lascia sempre meno spazio alla speranza di cambiare la propria vita e quella del luogo che ci circonda. È però anche un romanzo che svela: è qui che Lila confida a Elena le sue debolezze, i suoi episodi di smarginatura, e che Elena riprende a scrivere, comprendendo ciò che può fare o non fare davvero il sogno di entrambe che per lei è diventato mestiere.
La serie accorcia, comprime, e in questo inevitabile cesellamento purtroppo depotenzia e a tratti distorce, mancando molto del respiro del libro. Storia della bambina perduta, che chiude il cerchio della saga, è il racconto scritto dal punto di vista di Elena della vita di Lila, e di conseguenza della loro amicizia, tra distanze e riavvicinamenti. Per quanto da parte di Maiorino ci sia stato uno sforzo incredibile per mantenere la postura e il temperamento della Lila che abbiamo imparato a conoscere grazie a Girace, la sceneggiatura le rema contro mantenendola – salvo rari slanci – sempre laterale. Anche nei momenti che invece sarebbero dovuti essere segnati da più affiatamento, più comunione con Elena e le sue figlie.
La serie ha inoltre gli strumenti per mostrare ciò che viene descritto, anche ciò che spesso sfugge alla comprensione di Elena, e aggiungere riferimenti culturali e visuali del tempo che abitano i personaggi. Eppure risulta macchiettistica in molte delle cose a cui vuole dare vita: certi incontri nei salotti femministi della cognata, la Napoli popolare rappresentata in scene come il matrimonio della sorella di Elena con Marcello Solara, non ultimo il personaggio di Alfonso. Alfonso Carracci (qui Renato De Simone), fratello di Stefano e compagno di banco di Elena durante le superiori, cattura subito l’attenzione di Elena per la sua somiglianza/emulazione con e di Lila. Nelle parole di Isabella Pinto in Elena Ferrante. Poetiche e politiche della soggettività: «Se, infatti, Alfonso si sottrae alla posizione del maschile egemonico, è solo relazionandosi con Lila che è capace di operare una trasformazione radicale di sé. Questo elemento produce una destabilizzazione dell’ordine narrativo in cui si era acquietata Elena […], tanto è vero che la narratrice è costretta ad ammettere tale incapacità di comprensione e immaginazione». Se è vero che Alfonso resta comunque un personaggio tragico che non ha possibilità di autodefinirsi, la serie rimuove molte delle sfumature presenti nel romanzo, rendendolo per larga parte centrale, leso da stereotipi quasi offensivi in favore di un certo sconvolgimento facile da generare negli spettatori.
A venire tagliati fuori dalla serie sono molti degli sviluppi sociali e politici dei decenni al rione. Elena pubblica un romanzo di stampo autobiografico sul rione che scatena i malumori delle persone coinvolte e soprattutto della famiglia Solara: i due fratelli sono infatti anche loro ormai adulti e non si fa fatica a definirli camorristi. Immersa in un nuovo periodo di fama, Elena fa pace con l’idea che Lila sia necessaria ad affinare il suo sguardo da scrittrice e quasi come mente e corpo unico realizzano il pezzo denuncia nei confronti degli affari malavitosi proprio della famiglia che da sempre regola le leggi sociali all’interno del rione. Se non per pochi climax narrativi, conseguenze suggerite delle produzioni letterarie e giornalistiche di Elena, molto dell’atmosfera del luogo si sfilaccia e perde di consistenza. Allo stesso modo viene rimosso quasi del tutto il personaggio di Pasquale Peluso, simbolo del fallimento di certi ideali e vittima qui di un finale concitato che trascura troppi dettagli necessari a districare i nodi di una delle più belle storie mai raccontate.
Se è vero, ancora, che una serie debba essere giudicata a sé rispetto all’opera originale, a mio parere questo risulta particolarmente difficile con opere come L’amica geniale che porta con sé un pubblico di affezionati/e che non vuole essere tradito. Un pubblico che in fondo non si vuole tradire proprio perché la serie attinge in larga parte direttamente alle parole di Ferrante: i voice-over di Elena, alcuni dialoghi precisamente riprodotti “sporcati” solo dall’accento e dal dialetto (il rapporto italiano/dialetto in Ferrante meriterebbe un discorso a sé), ma che spesso inseriti in sequenze poco fluide perdono di potenza e carica evocativa. La serie mi pare dunque un tentativo non riuscito di chiudere un cerchio.
Mentirei però se dicessi che non mi sono commossa alla prima nota della sigla di ogni singola puntata. MARTINA NEGLIA
Martina Neglia nasce a Palermo nel 1993. Si occupa di femminismi, letteratura delle donne e pratiche decoloniali. Suoi contributi sono apparsi su L’indiependente, DINAMOpress, La Balena Bianca, menelique, Altri Animali e la newsletter femminista GHINEA. Su Instagram la trovate all’account @scrematura, e ha anche una newsletter personale, Due. Come moltissime altre donne, ama la rivolta.
Alle trasposizioni cinematografiche e televisive della letteratura di Elena Ferrante abbiamo dedicato anche la newsletter n. 78, firmata da Caterina Bogno. Su Film Tv abbiamo naturalmente recensito tutte le precedenti stagioni della serie, oltre ad averne spesso intervistato autori e registi. Vi riproponiamo qui, per “chiudere il cerchio”, la recensione della prima stagione, pubblicata sul n. 2/2019.
L’amica geniale - Stagione 1
A fare la differenza, vi spiegheranno gli appassionati lettori di Elena Ferrante, non sono tanto la trama, l’ambiente, i temi, ma la voce che li modella e li rende vivi: una scrittura al contempo intima e universale, in bilico tra la semplicità necessaria all’intrattenimento e una profondità, un’intuizione affatto banali. Così, nell’adattare il più grande successo letterario italiano dell’ultimo decennio per lo schermo - quello piccolo, nonostante i primi due episodi siano stati presentati alla Mostra del cinema di Venezia 2018 e poi distribuiti in sala, con notevole riscontro di pubblico -, anche Saverio Costanzo e la sua squadra si concentrano sul modo: scegliendo uno strano equilibrio tra neorealismo e stilizzazione, soprattutto nell’affascinante/spiazzante impianto scenografico (il rione interamente ricostruito, volutamente essenziale, quasi come un allestimento teatrale); nei costumi dalle fogge e dalle tinte attentamente calibrate; nel casting fatto di volti espressivi ma di recitazione a volte distaccata a volte artificiosa; nella fotografia allacciata alla crescita delle protagoniste e all’allargarsi del loro mondo, che (non) corrisponde all’evoluzione dell’Italia del Dopoguerra e del Boom (le bicromie dell’infanzia grigia di povertà, i colori luminosi della parentesi a Ischia, l’affollarsi di oggetti di scena mano a mano che il benessere e il consumismo prendono piede). Il contesto produttivo e ricettivo di L’amica geniale è importante e inedito: da una parte l’americana HBO - da fine anni 90 casa e simbolo di tv prestigiosa, ma anche, in quanto canale pay, di nicchia -, di qua dall’oceano la Rai - la più generalista delle generaliste, che, in ognuna delle quattro serate di messa in onda, ha registrato circa sette milioni di spettatori e uno share attorno al 30% - e TIMVISION - ambiziosa piattaforma streaming nostrana, dove è possibile vedere gli episodi in versione integrale, dal momento che Rai1 ha sforbiciato alcune scene “preservando” un fantomatico “pudore” e infischiandosene del senso. A fare la differenza, nel tragitto dalle pagine alle immagini in movimento, è allora pure il cosa, soprattutto sui nostri lidi, e in ragione dell’ottica da serie-evento, di appuntamento collettivo. È cioè quello che non si è mai visto e sentito, in prima serata su Rai1: da dettagli solo apparentemente laterali come il sangue mestruale, alla gran parte dei dialoghi in dialetto stretto che impone il sottotitolo, per arrivare a cuore e scheletro del racconto, l’amicizia complessa e complicata tra due donne, Lenù e Lila - figure opposte e complementari anche nei rispettivi ruoli narrativi -, che si (ri)conoscono bambine e stringono un indissolubile legame, insieme competitivo e solidale, salvifico e doloroso, in sfida costante con un sistema culturale e sociale fatto per imprigionarle e annichilirle. Una relazione che sposa appieno la serialità adulta, cresce con le puntate e sulla distanza, si fida del suo pubblico fino a chiedergli attenzione, partecipazione, pazienza, e pronta, perché no, a deluderlo con i suoi difetti (tra cui va citata l’incomprensibile voce narrante di Alba Rohrwacher). Non perfetta, forse, ma “grande”: finalmente. ALICE CUCCHETTI
A proposito di letteratura, è uscito ieri anche in italiano l’atteso nuovo romanzo di Sally Rooney, Intermezzo. Coglie l’occasione Gabriella Dal Lago per fare il punto, su Lucy. Sulla cultura, sullo spazio e il posizionamento delle donne nel mondo della scrittura.
Nell’ultima puntata di Comodino, il podcast letterario del Post, Ludovica Lugli e Giulia Pilotti invece intervistano la scrittrice Rachel Cusk.
La recente campagna elettorale presidenziale negli Stati Uniti è stata anche una guerra tra i generi? Tra le molte (e spesso affrettate) analisi della sconfitta, vi suggeriamo di recuperare quest’illuminante pezzo di Jia Tolentino sul “New Yorker”. [in inglese]