Singolare, femminile ♀ #148: Reborn this way
Sbarca al Lido, accanto a Joaquin Phoenix, per presentare la sua Harley Quinn, co-protagonista di Joker: Folie à deux: è tempo di fare i conti con la carriera d’attrice di Lady Gaga, popstar unica e sempre sorprendente, che ha fatto della passione per la teatralità, lo spettacolo e le maschere territorio di sperimentazione tra artificio e autenticità.
È stata, quella del 2024, l’estate del pop femminile. Con Taylor Swift, naturalmente, che ha invaso l’Europa con la seconda parte del suo monumentale The Eras Tour, trascinando milioni di fan (anche da oltreoceano) nelle capitali del Vecchio continente, dentro e fuori gli stadi, in un fenomeno di proporzioni con pochi precedenti (e che pare aver colto del tutto impreparata la critica non solo musicale italiana, nonostante Swift macini record da almeno tre lustri). È stata la brat girl summer, geniale operazione in parti quasi uguali di rifondazione electro-pop e di marketing a opera di Charli XCX: cantante inglese, pure in giro da parecchio tempo ma mai esplosa con impatto paragonabile a quello degli scorsi mesi, il suo ultimo album brats ha scalato le classifiche e ha dilagato tra i social, e la copertina verde acido con font lofi ha preso vita propria come meme replicato nella rete, cooptato da vari brand e infine perfino dalla campagna della neocandidata alle presidenziali Usa Kamala Harris.
Per gli osservatori più attenti e per le persone “cronicamente online”, poi, è stata anche l’estate di Sabrina Carpenter, ex Disney Channel star, autrice del tormentone Espresso e di una rivisitazione iperconsapevole dell’immaginario lolitesco (con un certo gusto cinematografico: nell’ultimo video, insieme alla Jenna Ortega di Mercoledì e Beetlejuice Beetlejuice, rifà esplicitamente La morte ti fa bella di Robert Zemeckis); e di Chappell Roan, forse la più interessante e dirompente del gruppo, giovane cantautrice proveniente dal Midwest americano, che ha trovato il successo abbracciando il proprio alter ego in drag e proponendo canzoni orecchiabilissime dalle sonorità anni 80 e dai temi orgogliosamente queer.
Agli sgoccioli di questo revival di pop-ottimismo – che riesuma un vecchio dibattito sulla legittimazione del pop, divertente e “femminile”, solitamente sminuito nei confronti con il rock, “serio” e “maschile” – ritorna sulla scena un’artista che “pop-ottimista” lo è da sempre, e di cui è pressoché impossibile non riconoscere l’influenza sulle star di oggi (soprattutto sulla celebrazione della dance di Charlie XCX e sull’estetica di Chappell Roan): Lady Gaga. Ormai veterana della pop music (come la sopra citata Swift), ha pubblicato qualche settimana fa un nuovo singolo, un duetto “old school” con Bruno Mars, ma soprattutto oggi al Lido accompagna in Concorso a Venezia 81 Joker: Folie à deux, il sequel di Joker di Todd Phillips (che vinse addirittura il Leone d’oro nel 2019 (in questi giorni è arrivato su Sky e TV8 anche Gaga Chromatica Ball, il film concerto tratto dal tour del suo ultimo album, Chromatica, uscito durante la pandemia).
Come tante popstar prima di lei (Cher e Madonna sono i primi due nomi che vengono in mente, ma non certo gli unici), Lady Gaga ha intrapreso da anni una parallela carriera d’attrice. Non solo: si potrebbe dire che le due carriere, nella musica e nella recitazione, hanno sempre proseguito affiancate. Sia perché il suo esordio su schermo – ancora adolescente, come “ragazza della piscina n. 2”, e senza alcuna battuta, in un episodio di I Soprano, accreditata ancora con il vero nome Stefani Germanotta – è precedente al suo arrivo sulla scena come popstar (la prima grande hit di Gaga, ricordiamolo, è Just Dance nel 2008). Ma anche, e soprattutto, perché fin dagli esordi lo stile unico di Lady Gaga è quello di una teatralità estrema e debordante, una spettacolarità smisurata, spesso anche oltre il confortevole, e la sua carriera è costellata di alter ego (come quello maschile di Jo Calderone). Il suo – si è detto fin dal principio – è un corpo mutante e mutevole, che vive nella performance più ancora che nella musica (nonostante una voce davvero potente), e infatti (come notavamo anche su Film Tv, vedi l’articolo che riproponiamo qui sotto nella sezione “Dall’archivio”) pensare “Lady Gaga” significa quasi sempre pensare a un’esibizione, una scena, un momento impresso nell’immaginario. Dagli occhi sovradimensionati del video di Bad Romance alle ossa appuntite di Born This Way, dal corpo di sirena in Yoü and I (dove compare anche il suddetto Jo Calderone) passando per i celeberrimi red carpet in abito di vera carne o rinchiusa dentro un uovo opalescente, col volto fasciato di pizzo e/o i piedi serrati in avveniristiche zeppe-trampoli, Lady Gaga non si è mai limitata semplicemente a ricercare un outfit appariscente, ma ha trasformato ogni sua apparizione in un gesto performativo, volutamente sfidando i confini dell’accettabile, del perturbante, perfino del mostruoso.
Nella prima parte di carriera, quando la stragrande maggioranza degli artisti cerca una riconoscibilità immediata e inconfondibile, Lady Gaga ha invece adottato l’approccio apposto, “scomparendo” dentro le sue maschere oltraggiose, “cancellando” il proprio volto sotto trucco, parrucche, occhiali da sole, veli e cappelli (in questo Chappell Roan sembra al momento la sua erede più diretta). C’è stato un periodo in cui la maggioranza di noi non era sicura di saper riconoscere il vero volto di Lady Gaga, e ricordiamo anche le varie illazioni – per un po’ “cavalcate” dalla popstar stessa – sul suo genere d’appartenenza. Nella sua videografia si è talvolta auto diretta (Marry the Night), ma ha anche collaborato con le più importanti firme del campo: Melina Matsoukas, Joseph Kahn, Jonas Ackerlund. E che la sua presenza mediatica fosse un progetto a tutto tondo, deciso ad ampliarsi oltre la sola sfera musicale, l’ha certificato fin da subito l’istituzione della Haus of Gaga, factory di talenti tra moda e spettacolo che la sostiene e la accompagna fin da allora.
Parallelamente le apparizioni su schermo, in questo periodo, sono quasi tutte camei nel ruolo di se stessa, da Gossip Girl a I Simpson (in un episodio in cui diventa la “mentore” di Lisa), o come giudice guest star di reality tipo RuPaul Drag Race e So You Think You Can Dance. Nel 2013 è la conduttrice apparentemente improbabile di uno speciale di Natale dei Muppet, Lady Gaga and the Muppets Holiday Spectacular: per certi versi anticipa la svolta swing jazz dei successivi album di duetti con Tony Bennett, ma per altri l’accostamento tra Gaga e i pupazzi di Jim Henson è meno implausibile di quanto possa sembrare a prima vista. La popstar è perfettamente a proprio agio in un mondo di puro spettacolo, dove il confine anche fisico tra finzione, artificio, tecnica marionettistica è contemporaneamente esibito e nascosto, celebrato e dato per scontato.
Il passo verso il grande schermo è dietro l’angolo e inevitabile, ma ancora una volta Gaga ci si approccia con dei cameo. In cui non è esattamente se stessa, ma è indiscutibilmente Lady Gaga. In Machete: Kills, sequel del 2013 di Machete sempre diretto da Robert Rodriguez, è La Chameléon, killer significativamente in grado di assumere diverse identità; in Sin City: Una donna per cui uccidere, di nuovo per Rodriguez l’anno successivo, è la cameriera Bertha, in una scena di dialogo con Joseph Gordon-Levitt in cui Gaga evoca la propria “italianità” (sarebbe meglio, forse, dire l’“italoamericanità”) che fin dal principio rivendica con orgoglio in ogni intervista. La collaborazione con Rodriguez (che nel 2020 dirigerà anche il video di Rain on Me) non sembra casuale: Gaga sceglie un regista come lei sopra le righe, dedito all’eccesso, e due film costruiti su un immaginario da B movie e fumettistico, in cui la presenza larger than life della popstar possa inserirsi in modo “credibile”, naturale, senza risultare fuori posto. Non sono grandi film, né grandi successi: nessuno dei due riesce a ri-agguantare lo status di “cult movie” degli originali, ma la presenza di Lady Gaga, pur ridotta, non passa inosservata.
Anche – ancora di più – per il ritorno sul piccolo schermo, la superstar cerca un autore a lei affine: la collaborazione tra Lady Gaga e Ryan Murphy sembra scritta nelle stelle, “a match made in Heaven” per usare un’espressione anglofona. La sensibilità camp e l’estetica barocca di Murphy corrispondono come un guanto a quelle di Gaga, e su di lei il prolifico sceneggiatore e produttore costruisce il ruolo della Contessa, protagonista-antagonista di American Horror Story: Hotel, quinta stagione della serie antologica sugli orrori d’America. Per lei è il primo ruolo principale in assoluto, e che ruolo: la sua storia costituisce l’ossatura principale dell’intera stagione, e attorno a lei si aggrega una (relativa) compattezza che spesso sfugge alle creazioni murphyane. La Contessa è una vampira, la proprietaria e la burattinaia dell’Hotel Cortez, albergo losangelino che attira e imprigiona anime, naturalmente spesso legate al mondo di Hollywood. Ma nella backstory della Contessa Murphy tesse un geniale filo meta, che equipara il vampirismo allo showbusiness, il cinema a un virus che succhia sangue e vita per nutrire la macchina dei sogni e lo schermo. Nel ruolo della Contessa Lady Gaga trova una sintesi perfetta tra la sua poetica-estetica mostruosa e la sua evidente passione e ammirazione per la grandeur hollywoodiana. La Contessa è una meravigliosa, elegante, affascinante diva d’altri tempi, ed è anche una creatura vorace, egoista, machiavellica, che seduce, manipola, consuma.
È la prima parte da protagonista per Gaga, dicevamo, ed è un trionfo: applaudita anche dai recensori più severi, candidata a molteplici premi, porta a casa, tra gli altri, un Golden Globe come miglior attrice di una miniserie (generando anche inavvertitamente, durante la cerimonia, una gif diventata virale in cui il suo passaggio “intimorisce” perfino Leonardo DiCaprio). Con Murphy la collaborazione si rinnova l’anno seguente, con la successiva stagione di American Horror Story, intitolata Roanoke: qui Gaga è accreditata non come regular ma come guest star, ha un ruolo più ridotto e un arco più breve, benché fondamentale nella dinamica del racconto, quello della pericolosa e sensuale strega Scáthach (vera figura del folklore irlandese). L’anno successivo, nel documentario autobiografico Gaga: Five Foot Two, la star rivelerà le grandi difficoltà fisiche causatele dalla fibromialgia – una sindrome che comporta forti dolori muscolari diffusi in tutto il corpo – e che le hanno reso particolarmente ardua proprio la partecipazione a Roanoke.
Il documentario Gaga: Five Foot Two – sulla scia di svariati prodotti simili, che proliferano con la diffusione e il successo delle piattaforme streaming, e che promettono ai fan uno sguardo inedito e “intimo” nel dietro le quinte dello showbiz e nella quotidianità delle star – comincia un cambio di percorso per l’artista, un’ennesima mutazione in una direzione completamente nuova. Ovvero quella dell’autenticità: sul versante musicale, Gaga veniva dal(l’ingiusto) semi flop di Artpop e dall’inaspettata deviazione jazz e mid century pop di Cheek to Cheek con Tony Bennett. Gaga: Five Foot Two accompagna il nuovo album Joanne, un lavoro che abbandona le sonorità più esplicitamente dance, sintetiche, iperprodotte dello stile Gaga, per dirigersi nei macrogeneri del pop puro, del soft rock, dell’americana. La promessa è una completa inversione di tendenza: via gli orpelli, le maschere, il trucco, i lustrini e i fuochi d’artificio, e largo anche nei testi alla semplicità, alla sincerità, all’autobiografia (il disco è influenzato dalla morte della zia che si chiamava quasi come lei, Joanne Stefani Germanotta). Non dev’essere un caso se, subito dopo, nel 2018, arriva il debutto da protagonista su grande schermo di Lady Gaga, e che quel debutto sia A Star Is Born.
Diretto e interpretato da Bradley Cooper, A Star Is Born è la quarta versione (la quinta, se si considera anche il “progenitore” A che prezzo Hollywood? del 1932) di una storia che ciclicamente viene aggiornata per il grande schermo. Lo stesso scheletro di trama – una ragazza talentuosa viene notata da un famoso divo che la aiuta a sfondare nello showbusiness, i due si innamorano profondamente, ma la carriera di lei prende il volo mentre quella di lui declina, e tutto finisce in tragedia – viene re-inquadrato di volta in volta e con opportuni cambiamenti in una nuova fase di vita del mondo dello spettacolo. Il primo È nata una stella, del 1937, è un viaggio dietro le quinte della fabbrica dei sogni, intenzionato a costruire il mito di Hollywood proprio svelandone i retroscena. Il secondo, del 1954, diventa uno sgargiante musical con Judy Garland, che vi riflette metaconsapevolmente parte della propria tormentata biografia. Il film del 1976, con Barbra Streisand, effettua lo slittamento del contesto dal mondo del cinema a quello della musica, e si sintonizza sulla controcultura dei Seventies e su uno stile più vicino alla New Hollywood. E poi c’è l’ultimo, l’A Star Is Born 2018, che conserva l’ambientazione musicale, e sposta un po’ di più il focus sul protagonista maschile, rispetto ai precedenti, e sui suoi problemi d’alcolismo e dipendenza.
Per interpretare la Ally (senza cognome) di A Star Is Born Lady Gaga deve spogliarsi di ogni maschera, anche letteralmente (dopo questo film nessuno dirà più di non conoscere il volto di Lady Gaga, grazie anche all’insistenza diegetica sul suo profilo irregolare, che è anche chiaramente un riferimento, un indizio di continuità, con la divina Barbra Streisand). Il film ci chiede di assistere alla costruzione del successo di Ally, all’edificazione della sua immagine da parte dell’industria discografica (un’immagine che nel film risulta blanda e generica, lontana dalla specificità inconfondibile di quella della vera Gaga), e dunque inizialmente deve mostrarcela più “al naturale” possibile. È una sorta di trucco al rovescio, e funziona alla perfezione: qualsiasi cosa si pensi del film, è difficile non ammirare l’interpretazione di Gaga, e proprio la sua “naturalezza”, sia nelle parti cantate – com’era prevedibile – sia soprattutto in quelle recitate. Significativamente, con questo primo ruolo Lady Gaga punta immediatamente all’Oscar, e non ne fa mistero: lo rendono evidente il tipo di film scelto, ma anche e soprattutto la campagna mediatica che l’accompagna, le frequenti apparizioni in coppia con Bradley Cooper (e i gossip, smentiti ma non del tutto silenziati, su una possibile relazione tra i due). La sensibilità unica per il senso dello spettacolo, apparentemente innata in Stefani Joanne Angelina Germanotta da New York, si esplicita anche nella sua agilissima comprensione dei meccanismi dello showbiz, e nella capacità di adeguarsi a essi senza perdere la propria specificità.
Con A Star Is Born Lady Gaga in effetti un Oscar lo vince, anche se non quello, che chiaramente cercava, come miglior attrice: è sua la statuetta per la miglior canzone, Shallow, e lei e Cooper si producono anche in un’esibizione da brividi sul palco dell’Academy (non una novità, per lei: vanno ricordati almeno l’omaggio a Tutti insieme appassionatamente davanti a una commossa Julie Andrews, e l’anno scorso la versione live “minimale” di Hold My Hand, da Top Gun: Maverick). Per il tentativo numero due, con House of Gucci di Ridley Scott, la diva sterza ancora e adotta un ennesimo nuovo approccio, quello che diversi colleghi maschi hanno messo e mettono in atto in casi simili, ma che per le attrici si vede più raramente (e non è un caso): si affida al Metodo. O meglio, all’idea che ormai del Metodo ci si è fatti: Gaga si cala nei panni di Patrizia Reggiani, arrampicatrice sociale-femme fatale-Lady Macbeth-vedova nera della famiglia Gucci, e ci resta, a quanto dicono le cronache e lei stessa, per tutta la durata delle riprese.
House of Gucci è un film che adotta scelte inspiegabili, probabilmente ancor più assurde per un pubblico italiano, come quella di far parlare ogni personaggio principale in inglese con un calcatissimo accento italiano. Lady Gaga lo sposa appieno, e riproduce con fedeltà la parlata di Reggiani (di cui su YouTube si trovano diverse interviste rilasciate in inglese alla stampa statunitense), e ancora una volta la sua interpretazione si rivela la cosa migliore del film, riuscendo nell’impresa quasi impossibile di azzeccare il tono tra grottesco e melodrammatico. Qualcosa che non riesce a veterani ben più esperti e blasonati di lei come Al Pacino e Jeremy Irons, trascinati in un rovinoso overacting (la performance di Jared Leto meriterebbe un discorso a parte, ma qui ci limitiamo a dire: BOOF).
Questa volta la campagna per l’Oscar non parte nemmeno, House of Gucci si rivela un film “sbagliato” anche sotto questo aspetto, anche se questo non impedisce a Gaga di regalarci, tra un’intervista e un red carpet, qualche indizio su quanto gustosa la sua corsa sarebbe potuta essere. L’artista, subito dopo, si rivolge nuovamente alla musica, e con un ritorno alle origini: l’album Chromatica e il successivo, sospirato tour (il disco esce a inizio pandemia, e prima di vedere gli spettacoli dal vivo bisognerà aspettare un paio d’anni) sono una chiusura del cerchio nella carriera della popstar, riallacciandosi alle radici dance, alle spericolate intersezioni tra arte contemporanea e moda, unite da un filo cyberpunk, e alla spettacolarità mozzafiato dei primi The Fame Monster e Born This Way.
Anche il successivo ruolo cinematografico scelto da Lady Gaga sembra una chiusura del cerchio: è quello di Harley Quinn nell’atteso sequel di Joker: Folie à deux. Mentre scriviamo non abbiamo ancora visto il film, che è in gara al Lido e la cui prima mondiale si svolge stasera, ma almeno sulla carta il personaggio è più che mai “gaghiano”: nato nella serie animata (sì, solo successivamente è stato accolto nella continuity dell’universo di Batman), è come tanti omologhi fumettistici già di partenza doppio, scisso. Nella mitologia “ufficiale” nasce come Harleen Quinzel, psichiatra che conosce il Joker e se ne innamora, abdicando al proprio alter ego folle e criminale Harley Quinn. Ne abbiamo già visto su grande schermo la versione di Margot Robbie (ottima soprattutto in The Suicide Squad di James Gunn e nel film a lei dedicato Birds of Prey), e sospettiamo che quella che ne fornirà Gaga nel film di Todd Phillips sia molto diversa, sia nella narrazione sia nel registro stilistico. Annunciato come un musical (nel trailer la vediamo canticchiare Get Happy, un classico di Judy Garland), Joker: Folie à deux riporta anche la popstar vicino ai temi della spettacolarità e dello spettacolo, della decostruzione di Hollywood e delle illusioni dello showbusiness.
E il personaggio di Harley Quinn, almeno in potenza, sembra offrire a Lady Gaga l’opportunità di giustapporre in un solo spazio scenico entrambe le sue anime d’attrice: la verosimiglianza senza veli né trucchi, il volto “autentico”, spogliato di ogni maschera; e la teatralità debordante, la vena di follia anarchica, la passione per lo spettacolo senza freni di un’icona pop irrinunciabile. ALICE CUCCHETTI
Su Film Tv n. 40/2018, in occasione dell’uscita di A Star Is Born, dedicavamo uno speciale a Cinema & Musica, e ripercorrevamo la carriera da icona pop di Lady Gaga. Vi riproponiamo quell’articolo.
Gagaismi
Cose da guardare per provare a capire Lady Gaga e, insieme a lei, gli ultimi dieci anni di cultura pop (precisi precisi: Just Dance, il singolo d’esordio che la catapultò da sconosciuta a star globale, usciva nell’aprile 2008): l’esibizione di Paparazzi agli MTV Video Music Awards del 2009, quella in cui, dopo un assolo al pianoforte, Gaga cominciò a sanguinare copiosamente dal petto; l’arrivo alla stessa cerimonia, l’anno successivo, inguainata nel celeberrimo abito di vera carne bovina (con scarponi, borsa e cappello coordinati), o, se volete fare i raffinati, il red carpet dei Grammy 2011, che percorse chiusa all’interno di una portantina a forma di uovo opalescente; lo straordinario medley di Tutti insieme appassionatamente agli Oscar 2015, esecuzione impeccabile, di bianco vestita, in un profluvio di violini e con abbraccio/benedizione finale di Julie Andrews in persona; lo show a metà Super Bowl 2017, che inizia con un mix tra God Bless America e This Land Is Your Land, uno stormo di droni luminosi a comporre la bandiera americana nel cielo di Houston e l’artista in body di brillanti che si tuffa appesa a un cavo dal tetto dello stadio al centro del campo; il suo ingresso alla nona stagione del talent show RuPaul’s Drag Race, dove si finge concorrente e lascia per parecchi minuti il dubbio a chiunque («Mio dio, è la miglior versione di Lady Gaga mai vista!» si sente qualcuno bisbigliare in sottofondo). Perché di Miss Stefani Joanne Angelina Germanotta si possono compilare discografie, videografie e filmografie, ma la sua essenza si trova altrove, e cioè nella performance: «Nasciamo nudi, il resto è travestimento» è il motto di RuPaul, appunto, che Gaga applica in maniera multiforme e compulsiva, ri-nascendo sempre esattamente com’è («born this way») più volte nel corso del medesimo spettacolo, disco, periodo, apparizione, contesto. Accostarla a Madonna, David Bowie, Freddie Mercury, Michael Jackson, Cher e Elton John è corretto, voluto e inevitabile; elencare tra le sue influenze Andy Warhol, Alexander McQueen, Leigh Bowery, Donatella Versace, Klaus Nomi, Marina Abramovic, Jeff Koons, Yoko Ono e via con una lista pressoché infinita di nomi più o meno avanguardistici a cavallo tra arte, happening e moda significa inseguire una scia di briciole citazioniste accuratamente seminata da Gaga stessa. Interrogarsi su quanto possa essere spontanea la sua recente fase “autentica”, inaugurata con l’album Joanne - liriche autobiografiche, lancio promozionale negli stessi piccoli club di New York dove si esibiva quando non era nessuno, make-up minimale, elemento fashion ricorrente solo un cappello rosa a tesa larga - e con il doc Gaga: Five Foot Two - su Netflix, dove mostra i lancinanti dolori che le causa una fibromialgia - e che ora punta direttamente all’Oscar con A Star Is Born, è una logica conseguenza. Ma riconoscere che, appropriandosi e rielaborando tutto - perfino ciò che nessun altro potrebbe anche solo azzardarsi ad avvicinare: la disabilità in Paparazzi, la triade cattolicesimo-nazismo-sesso sadomaso in Alejandro, solo per fare due esempi - Lady Gaga sia sempre se stessa, unica e inimitabile, inconfondibile, è necessario per rintracciare la sua specificità, la sua verità e, se volete, il suo genio. Che si rivela in uno spirito genuinamente queer, fluido per davvero, oltre che eccentrico, che accetta e accoglie lo strambo, l’alieno, il “mostruoso” secondo varie declinazioni (dalle protesi facciali appuntite del video di Born This Way agli inquietanti occhi sovradimensionati di Bad Romance, dalle architetture impossibili delle scarpe da 30 cm alle parrucche scolpite e agli abiti tentacolari), rivendica la centralità di artificio e mistero nell’edificare una dea pop, sovrappone la perfetta riconoscibilità all’anonimato (quante volte avete sentito dire «non so che faccia abbia Lady Gaga»?), celebra il doppio potere della maschera (e della moda) come simultanea espressione e nascondimento di sé, e la possibilità di attraversare i generi e definitivamente superarli (i suoi alter ego vanno dal maschile Jo Calderone alla divina Mother Monster, e sono solitamente anti-erotici, a differenza di quel che è regola per la maggioranza del pop). Con le sue ambizioni altissime fin dal debutto (la costituzione della sua Haus of Gaga, sfacciatamente ricalcata sulla Factory warholiana) e sempre a rischio tonfo (sfiorato con l’album Artpop, che forse un giorno qualcuno rivaluterà), tende a contraddire gioiosamente il buonsenso dell’industria musicale (dopo un disco da crooner con Tony Bennett, si prepara ora ad avere uno show fisso a Las Vegas, come i divi “in pensione”): sa d’altronde che i grandi brani sono tali sia sotto strati d’arrangiamento sia solo piano e (potente) voce. Cercate e ascoltatevi una versione acustica di Bad Romance, e poi provate a darle torto. ALICE CUCCHETTI
Continua fino al 7 settembre la Mostra di Venezia, e se siete al Lido vi suggeriamo di dare un’occhiata nella hall dell’Hotel Excelsior alla mostra Dive & madrine, organizzata dall’Istituto Luce con scatti fotografici di attrici fondamentali per il cinema italiano. Sempre al Lido, lo scorso 31 agosto è stato assegnato a una regista, Anne-Sophie Bailly, il premio Film Impresa, per il film Mon inséparable, mentre l’annuale premio SIAE al talento creativo, consegnato durante le Giornate degli autori, è andato a Federica Di Giacomo, in questi giorni in sala con il film dedicato alle relazioni poliamorose Coppia aperta quasi spalancata, da Fo e Rame (sempre alle Giornate degli autori sono stati presentati – da Patti Smith! – i nuovi corti del progetto Miu Miu Women’s Tale, quest’anno firmati da Laura Citarella e da Chui Mui Tan; del progetto avevamo parlato in questa newsletter).
A proposito di dive: è uscito per Meltemi editore La diva madre di Maria Elena D’Amelio, una storia culturale del divismo femminile attraverso il tema della maternità all’interno della produzione cinematografica italiana tra gli anni 50 e gli anni 70.
Quest’estate il podcast di “Internazionale” Il mondo ha pubblicato delle lunghe conversazioni sui viaggi, in più puntate. Vi segnaliamo quella tra le femministe Silvia Federici e Maria Nadotti, quella tra Claudio Rossi Marcelli e Jasmine Trinca e quella tra Porpora Marcasciano e Djarah Kan.