Singolare, femminile ♀ #147: Il talento di mrs. Ripley
La Mostra del cinema di Venezia numero 81 apre le porte oggi, e inaugura superbamente consegnando il Leone d’oro alla carriera a Sigourney Weaver. Corpo alieno e replicante, volto di un cinema sempre nuovo e rinnovato, dagli anni 80 a oggi. La omaggia per noi Marzia Gandolfi, in questo primo numero della nuova stagione di Singolare, femminile.
Gli uomini urlano molto sullo schermo. Urlano quando sono arrabbiati, quando danno ordini, quando si battono, quando si menano e si fanno male a vicenda. Viceversa, quando hanno paura sono generalmente silenziosi. Una questione di virilità sensibile o magari di consapevolezza: potrebbero mai eguagliare le urla paralizzanti delle migliaia di eroine e di comparse tormentate in un numero incalcolabile di film? In un movimento inverso, esiste una categoria di eroine silenziose che non si concedono facilmente al piacere vagamente sadico dello spettatore amante di sensazioni forti. E, guarda caso, sono quelle che hanno più chance di arrivare intere ai titoli di coda. La vita di un’eroina dipende dalla sua capacità di tacere e il primo personaggio sul registro silente che ricordiamo è naturalmente Ellen Ripley, interpretata per quattro volte da Sigourney Weaver nella saga di Alien. Quando nel 1979 uscì l’ineguagliabile primo atto diretto da Ridley Scott, col terrore sordo ispirato dalla quasi invisibilità del mostro, fu l’impressionante compostezza della tenente Ripley, che rifiutava di farsi sopraffare dal panico, a strutturare l’intera storia.
Perché Alien non è un film su ciò che si vede, ma, in modo hitchcockiano, è un film su quello che non si vede. Un nemico, certo, ma con una singolare sfumatura, un nemico interno, addirittura interiorizzato. Il terrore dell’Altro e il terrore del parto (non è forse meglio affrontare l’alieno che riceverne la progenie?), il diritto all’aborto e a disporre liberamente del proprio corpo faranno poi le note orrorifiche e metaforiche del film. Alien adotta un approccio spettacolare al terrore della maternità, che viene ridotta a una forma ripugnante di animalità. In questa storia, il disgusto della gestazione assume una dimensione mitologica senza pari. L’alieno che minaccia l’umanità cova la prole nel torace degli ospiti, causandone la morte, mentre Sigourney Weaver, unico baluardo contro di lui, rifiuta qualsiasi maternità. Ripley-Weaver si affranca dalla gerarchia patriarcale, non si tratterà mai per lei di assumere il ruolo materno imposto dagli uomini, e apre la via a figure femminili eroiche che non hanno alcun bisogno di un uomo che le soccorra. Pioniera forgiata dal cinema d’azione, l’attrice newyorkese “concepirà” una pletora di eroine dalla potenza inaudita, una covata di final girl che fa avanzare l’azione invece di andare a rimorchio (Matrix, Hunger Games, Gravity, Lucy, Mad Max: Fury Road…). Anche per loro gridare non servirebbe a molto.
Ma cominciamo dall’inizio. Buio spaziale.
Prima di andare alla deriva nello spazio e in un ipersonno invincibile, Sigourney Weaver è apparsa nella commedia “in prima persona” di Woody Allen (Io e Annie). Appena riconoscibile, la sua presenza dura qualche secondo, è decisamente lei a troneggiare sullo schermo e al fianco di Alvy Singer. A 28 anni l’attrice entra nel mondo del cinema da una porta distinta da quella che avrebbe determinato la sua notorietà. Dopo un ruolo di supporto in un oscuro thriller scomparso dalla circolazione (Madman) e dopo diverse pièce Off Broadway, Ridley Scott la scrittura nel ruolo di protagonista di Alien. La trama resterà sempre la stessa: un alieno proveniente dallo spazio buio penetra una nave umana e si mette a eliminare o a catturare tutto ciò che si muove, per nutrirsi e riprodursi. Nel corso dell’azione, Ripley prende il comando della lotta contro l’alieno. È lei a finire il lavoro. Nel primo film, è l’unica sopravvissuta con un gatto rosso, nel secondo salva una bambina e trova il tempo di combattere un’altra battaglia contro una compagnia di ricerca che vuole tenere in vita gli alieni e catturarli a scopo militare.
Ne seguiranno altri due, di Alien con Sigourney Weaver, ma al principio della tetralogia la sua Ripley non è filmata come l’eroina. Nei primi 30 minuti del film, tutti i ruoli sono trattati allo stesso modo, ognuno ha la sua mansione, il suo carattere. Il capitano è leggermente preminente, come si addice alla sua posizione. Lui e gli altri fanno quello che devono fare. Ripley è la seconda in comando, primo colpo di scena. L’atmosfera è concentrata e professionale. I problemi e i conflitti vengono gestiti. Nessun ruolo è intimamente significativo, i sette astronauti sono “privi di peso”. Ma una missione naufragata segna l’atto di nascita dell’eroina. La sequenza è veloce, poco più di un respiro. In un istante, due criteri – assunzione del ruolo e interiorizzazione – sviluppano il suo personaggio rafforzandolo fino alla fine del film. Ripley si trova improvvisamente in prima linea. Il comandante ha lasciato la nave e le viene affidata la responsabilità dell’equipaggio rimasto all’interno. Questa nuova funzione le impone di prendere decisioni per gli altri e soprattutto di non aprire la camera di compensazione al gruppo contaminato. Ripley nasce con un conflitto interiore. Opponendosi all’ordine diretto, sperimenta una tempesta recondita. Sigourney Weaver esteriorizza questo momento di intensa interiorizzazione. Il puzzle emotivo e riflessivo viene tradotto in segni. Ripreso in primissimo piano, il suo volto è percorso da increspature, lo sguardo è saturato dalla crisi e il dubbio marcato dalla forte attività degli occhi che oscillano fino a fermarsi e trovare una ferma risposta negativa alla richiesta di “aprire” del suo superiore. Questi aspetti formali e psico-pragmatici appartengono esclusivamente a Ripley, nessun altro personaggio del film ne ha diritto. Sono un tratto distintivo dell’eroina, segnalano una rottura, una differenza radicale. L’eroina cresce con la tecnica della sua attrice, che la rende eminentemente visibile e udibile. Come la sua protagonista, si è esercitata così tanto in seconda linea da incarnare con destrezza la superiorità di Ripley in una combinazione di esperienza di vita e di savoir-faire.
In questa fase del film, il salto è semiotico, non è affatto una dimostrazione di forza fisica e di coraggio. Non siamo ancora nel grande spettacolo del film d’azione hollywoodiano. Con Ripley, lo spettatore entra prima in un sistema di significato e in una specifica configurazione psicologica. L’eroina esce allo scoperto recitando in un ruolo per lei nuovo, che assume distinguendosi dagli altri, in un’improvvisa esplosione di introspezione che sconquassa lo schermo e devia per sempre l’assetto della capsula cinema. Susan Alexandra Weaver è un’accelerazione improvvisa. “Sigourney”, in Terra e nello spazio infinito, non è solo una figura emblematica degli anni 80, che ha cambiato le carte in tavola di un genere cresciuto a testosterone, ma un’artista che non ha mai smesso di fuggire le etichette e l’iconizzazione totale del decennio reaganiano, che ha segnato la sua nascita. Diversamente da quello che scrisse stupidamente la stampa, Sigourney Weaver, 43 anni e rasata all’epoca del capitolo tre, non è virilizzata, è una silhouette di linee perfette, la femminilità ridotta alla sua espressione più acuta e semplice. Ma non è tutto. A che età un’attrice rischia l’invisibilità? A cinquant’anni, è risaputo. Sigourney ha 48 anni quando si rimette in gioco e incarna Ripley per la quarta volta in Alien: La clonazione, dove è un clone di se stessa, della bestia che l’ha ingravidata, una madre, una figlia, un’umana e un’extraterrestre tutte insieme. Ripley è la donna che replica se stessa, la donna al quadrato, la donna al cubo, la bella e la bestia allo stesso tempo. È un personaggio raro, l’unico ad essere tornato come nessun altro prima, reinventato successivamente da James Cameron, David Fincher e Jean-Pierre Jeunet.
Ma il plusvalore è la sua interprete, in tuta kaki zippata, tessuto spesso che resiste a un’entità di bava acida, a bordo della Nostromo e in un mondo di uomini. Sigourney Weaver non rientra nello stile di femminilità che il maschio terrestre attribuisce alla donna dalla notte dei tempi. Persino in biancheria minimale nel sonno artificiale, impedisce qualsiasi voyeurismo. La sua nudità dice soprattutto della vulnerabilità umana di fronte al mostro venuto dallo spazio. Quando in slip, non-mise che si impone subito come un must, trionfa una prima volta sulla creatura, Ripley-Weaver ha tutte le caratteristiche di un combattente valoroso, è uno shock visivo. Sigourney Weaver, 1 metro e 82 centimetri, quasi la taglia di un Na’vi, prende la cloche di Katharine Hepburn e di una Jane Fonda che è riuscita a scrollarsi di dosso le ciglia finte di Barbarella.
Ma fa meglio di Jane Fonda, maturata col Vietnam e con la strigliata di Jean-Luc Godard (Letter to Jane), e si lancia verso l’autonomia di una futura Eva, affatto conforme alle immagini del glamour hollywoodiano. Ripley è ben oltre il femminile e il maschile e tiene a bada sia le donne sia gli uomini sia le madri. È una sopravvissuta traspirante e indipendente mai ridotta a una dimensione sentimentale o a uno sguardo maschile, è sexy quasi per se stessa. Dei quattro Alien girati da Sigourney Weaver, solo uno suggerisce una relazione tra Ripley e un uomo (il capitolo 3 diretto da David Fincher), un’ipotesi che dura un lampo, l’amante viene rapidamente liquidato dalla bestia. Le grandi storie d’amore sono rare nella carriera dell’attrice, che è rimasta a corto di commedie romantiche. In Una donna in carriera è così odiosa che Harrison Ford ripiega su Melanie Griffith, in Gorilla nella nebbia rinuncia al fidanzato per restare coi suoi primati in pericolo.
Unica sopravvissuta al darwinismo applicato al cast, la scienza resterà per lei una seconda pelle, zoologa per Michael Apted (Gorilla nella nebbia) e dottoressa di un vertiginoso programma di proiezione dello spirito umano nel corpo di un Avatar per James Cameron. La selezione naturale di Alien avrebbe potuto concludersi in un solo film ma Hollywood ne ha fatto una legge. Se il povero John Hurt ha donato la vita alla scienza e vita a un alieno, il film di Scott ha prodotto una star, l’unica sopravvissuta alla carneficina, il potenziale pilastro di un’intera saga e la dimostrazione, attraverso l’immaginario cinematografico, del reale cambiamento del posto della donna nella società americana a partire dagli anni 70. Contestualmente alle forme grottesche e ostili delle molteplici incarnazioni della femminilità predatrice, il suo corpo snello piace perché normale (nel senso di contenuto, controllato). Laddove l’alieno è solo un enorme buco senza fondo, Ripley è un involucro integrale e bellissimo, che nasconde accuratamente le viscere e pone tacitamente una domanda: cosa rende un personaggio maschile o femminile?
Sigourney Weaver è il volto e la matrice a cui i personaggi successivi – Noomi Rapace in Prometheus, Katherine Waterston in Alien: Covenant (2017) e Cailee Spaeny in Alien: Romulus – faranno riferimento, opportunisticamente o meno. Quest’aura marziale, quasi tecnica, segnerà la sua intera carriera. Sovente è una presenza evocativa negli intrighi spaziali, fino a dare corpo alla voce del computer di bordo in WALL•E. Nonostante la diversità dei ruoli giocati e l’incontro con Roman Polanski (La morte e la fanciulla), che le offre un’esperienza non meno terribile dell’incontro con l’alieno, gli altri personaggi restano forse meno memorabili ma lanciano una sfida a Hollywood, dove bisogna essere divertenti, sexy e affettati. E lei dimostrerà di poter fare tutto in un unico ruolo – quello della boss yuppie, efficacemente esilarante, formidabile e di classe – assicurandosi la sua longevità nell’industria. Per il regista polacco, Weaver interpreta una donna convinta di aver identificato il suo aguzzino attraverso la voce e l’odore.
Il film è permeato dai temi polanskiani e il confronto inverso tra Sigourney Weaver e Ben Kingsley, vittima e carnefice, è guidato dall’interpretazione energica dell’attrice. È lei a condurre ora la danza mortale. Predatrice di calibro fallico, riprende le redini dopo il terrore, lasciando da parte la bestialità divina per una resa dei conti che riguarda solo gli uomini e le loro azioni. James Cameron con Avatar aggiunge invece alla sua evocazione dei miti narrativi occidentali il mondo immaginario che circonda l’attrice. Il ruolo originario di Ellen Ripley, anello di congiunzione tra l’uomo e l’alieno, riecheggia in Avatar. Se i temi di Cameron sono più convenzionali di quelli che governano Alien, la presenza di Sigourney Weaver interroga il divenire degli esseri creati dal cinema, i legami fondamentali che esistono tra le entità, siano essere reali, immaginarie o tra le due.
L’attualità di Sigourney Weaver, fotografata da Helmut Newton, cantata da John Grant e omaggiata dalla collezione in jersey, viscosa e poliestere riciclato di Antonin Tron, contiene serie, saghe, universi (Marvel) e un Leone d’oro alla prossima Mostra del Cinema di Venezia, per suggellare il suo contributo speciale, costruito sul patrimonio teatrale, la sua autorità, la sua solidità, la sua potenza di fuoco ai vertici del box office mondiale. Per celebrare quella sua capacità di mantenere vivo il desiderio, facendosi dimenticare per poi ritornare ancora e ancora, con un ritmo lento e irregolare, che ha finito per plasmare una vita professionale che va in tutte le direzioni: attrice, modella, attivista e inalterabile scienziata spaziale. Incarnazione vivente della migliore copy line della storia del marketing cinematografico: «Nello spazio nessuno può sentirti urlare» – lo inventa l’attrice e autrice americana Barbara Gips – Sigourney Weaver ha fatto silenziosamente a pezzi lo spazio della normatività. Eternamente insuperata, ci sorprendiamo a chiederci se onorarla con un sequel, poi due, poi cinque, poi sette, non sia stato un deprecabile errore. Forse esiste una dimensione parallela in cui Alien e Mrs. Ripley reggono meravigliosamente da soli, senza spiegare nulla, perfettamente e rigorosamente insulari. MARZIA GANDOLFI
Lo scorso 14 agosto ci ha lasciate una delle attrici più straordinarie che abbiano illuminato gli schermi cinematografici, e una delle più influenti per l’arte della recitazione: Gena Rowlands. Sul numero di Film Tv in edicola, Mariuccia Ciotta le ha dedicato un editoriale, che vi riproponiamo anche qui.
Gena forever
«Non le importa dov’è la cinepresa, non le importa se viene bene nell’inquadratura, non le importa di niente, se non che le crediate». John Cassavetes si descrive così nel riflesso di Gena Rowlands, lontana dall’essere Musa, di certo corpo di ogni fotogramma nel confine tra esistenza e illusione. Fuori dal cinéma vérité evocato dai necrologi dell’attrice scomparsa il 14 agosto scorso a 94 anni, mentre non c’è una sola immagine-documento nella filmografia di Cassavetes, solo un immenso atto di forza per trasferire la vita, mentre accade, sulla pellicola. «Lei è un miracolo. È capace di qualsiasi cosa». Gena nasce attrice di teatro insieme a John all’American Academy of Dramatic Arts di New York, città anni 50 e 60 di artisti d’avanguardia, espressionisti, sperimentali, fuori mercato, jazzisti visionari, il Lower East Side della Film-makers’ Cooperative di Jonas Mekas. Ed è qui che Rowlands apparve ombra tra le Ombre (1959) nell’esordio del regista, che si svincolò presto dall’abbraccio di Mekas e se ne andò a Hollywood con l’intenzione di metterla sottosopra. Il New American Cinema era cosa loro. Né l’astrazione estrema di Stan Brakhage e di Michael Snow né la narrazione classica hollywoodiana. Forse più Chantal Akerman/Jeanne Dielman. Gena, però, non taceva la sua estraneità al mondo, e al contrario la gridava per le strade di Los Angeles, bellissima, dietro ai tre figli piccoli e in attesa di Nick/Peter Falk, l’operaio edile, bruno e materico mentre lei era bianca e bionda. Stesso contrasto antropologico tra la gallese (di origine) Gena e il greco John, sì, ma entrambi protesi verso un sistema di recitazione anti Metodo. Non più il personaggio di Stanislavskij da compenetrare fino a immedesimarsi con i suoi virtuosismi, Gena Rowlands smembrava il suo ruolo - sempre scritto da Cassavetes, sceneggiatore ferreo, e mai improvvisato - per farne una creatura nuova, l’essenza di Mabel Longhetti, “a woman under the influence” (come da titolo originale di Una moglie). Cinema fuori norma - Volti (1968), Minnie e Moskowitz (1971), Una moglie (1974), La sera della prima (1977) - che “ruba” la realtà e la fa propria, ne modifica l’apparenza per restituirla fragrante e mai vista. Compito destinato alla pazza Gena, nevrotica, bipolare, con una rotella in meno, secondo amici e parenti che nel vederla roteano il dito sulla tempia. A lei la prova dell’incompatibilità del personaggio (ricorrente) e di quel cinema con lo Spettacolo. Gena in quegli anni recita soprattutto per la tv, ha rinunciato a Broadway, tanto il suo palcoscenico è ormai sulla costa ovest dove tiene testa a John che si rifiuta, come sempre, di spiegarle la parte e le dice freddamente «fallo e basta!». E lei lo fa, non reagisce con violenza e risentimento alla famiglia invadente e crudele in Una moglie, ma sorprende il regista con il volto illuminato dall’innocenza. Non è più la pazza, ma una forma sublimata di resistenza al racconto e all’interpretazione. «Quel che aveva fatto Gena era pura poesia» dirà Cassavetes. È vero, era una grande attrice, diretta anche da Schrader, Mazursky, Allen, Terence Davies, Jarmusch, eppure la bionda dagli occhi celesti conquisterà un posto nella storia del cinema soprattutto per averla riscritta, da Minnie a Mabel alla Myrtle Gordon di La sera della prima, un’altra Eva contro Eva, sofferta fino alle lacrime, tra sbronze e fumo di lunghe sigarette bianche. Indocile ai generi e alle pose da diva anche nello stupendo Gloria - Una notte d’estate (1980), il più “commerciale”, Leone d’oro. Candidata a una pioggia di Golden Globe, Emmy e Oscar, ne vinse uno alla carriera nel 2016. Ma, scriveva Giuseppe Turroni, «sulla bravissima Gena Rowlands potrebbe scendere una pioggia di Oscar, senza che nessuno spettatore trovasse nulla da ridire». MARIUCCIA CIOTTA
Comincia oggi la Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Nel Concorso gareggiano sette registe: le sorelle Muriel e Delphine Coulin, le italiane Maura Delpero e Giulia Steigerwalt, la georgiana Dea Kulumbegashvili, l’americana Halina Reijn (con Nicole Kidman in un ruolo che si preannuncia controverso), la greca, già collaboratrice di lunga data di Yorgos Lanthimos, Athina Rachel Tsangari. Il numero di Film Tv in edicola è interamente dedicato alla Mostra, su Singolare, femminile vi diremo com’è andata per le donne dopo la conclusione. Intanto, tra le altre cose, potete leggere [in inglese] quest’intervista del “Guardian” alla presidente di giuria, la divina Isabelle Huppert.
Nel frattempo, è arrivata anche in Italia su Disney+ la terza stagione della chiacchierata serie The Bear, che quest’anno ha sorprendentemente diviso il pubblico. Unanime è però l’apprezzamento per una delle sue interpreti, Liza Colón-Zayas, l’interprete di Tina, in quest’annata protagonista di un bellissimo episodio (il sesto) diretto dalla collega di set Ayo Edebiri (Sydney). A Colón-Zayas, “Vanity Fair” ha pubblicato un bellissimo profilo [in inglese].
È passato un anno dalla scomparsa di Michela Murgia: alla scrittrice e intellettuale femminista Carolina Capria e Silvia Grasso hanno dedicato il podcast Splende e splenderà: è su Storytel, potete ascoltarlo usufruendo della prova gratuita di 14 giorni.