Singolare, femminile ♀ #142: Se fossi in lei
In sala dal 27 giugno, Quattro figlie è un documentario ibrido che usa il re-enactment in modo creativo, costruendo un forum al femminile per parlare di un tema complesso come la radicalizzazione islamica. Maria Sole Colombo ha incontrato la regista del film, Kaouther Ben Hania.
Tunisina, classe 1977, Kaouther Ben Hania non ha paura di giocare col fuoco. Col penultimo progetto, L’uomo che vendette la sua pelle (The Man Who Sold His Skin), partiva dalla condizione disumana dei migranti, per arrivare poi al mélo e alla spy story. Con Quattro figlie, in Concorso a Cannes 2023 (dove è stato premiato con l’Œil d’or per il miglior documentario) e ora in sala dal 27 giugno (distribuito da Arthouse in collaborazione con Unipol Biografilm Collection, in versione originale con sottotitoli italiani), si accosta a una materia ancora più rovente: delle quattro ragazze del titolo, due sono rimaste con la madre, mentre altre due sono fuggite in Libia per unirsi allo Stato islamico. Ghofrane e Rahma, “spose” di Daesh, indossano il niqab come un vessillo, uno strumento di affermazione di sé, per affrancarsi da una madre-tiranno. Com’è stato possibile? Come si arriva a una decisione tanto scellerata? L’indagine di Ben Hania è di tipo genealogico: per comprendere il male occorre risalire la catena della violenza, osservando il suo contesto di origine. Nasce così un film umbratile, ibrido nell’approccio: un documentario che è il making of di se stesso, fatto di re-enactment in cui attori professionisti, a far le veci di chi non c’è più, si confrontano coi veri protagonisti della storia. Ne abbiamo discusso con la regista.
Come ha conosciuto Olfa, la madre delle Quattro figlie? Com’è nata l’idea di fare un film su tutte loro?
A un certo punto in Tunisia la vicenda di Olfa è diventata una notizia da prima pagina, circolava su tutti i media. Era il 2016 quando ho sentito alla radio una sua intervista, parlava della sua storia e di come le sue figlie si erano unite a Daesh. Mi ha colpito subito, è una cosa che la maggior parte di noi non riesce assolutamente a comprendere. Com’è possibile che delle ragazze giovanissime, delle ragazze normali, entrino a far parte di un’organizzazione terroristica? Così, di punto in bianco? Che motivi possono avere per fare una cosa del genere? E poi il personaggio di Olfa mi è parso fin da subito molto contraddittorio, e quindi molto interessante. La storia della sua famiglia è una storia di violenza, di donne… Ho contattato il giornalista che l’aveva intervistata e mi sono fatta dare il numero di Olfa, che si è dimostrata subito interessata al progetto. Ho cominciato a girare, con l’idea di fare un documentario abbastanza tradizionale, ma dopo un po’ mi sono accorta che qualcosa non quadrava. C’era bisogno di riflettere e di trovare un approccio più adatto. Mi sono fermata, ho buttato via quasi tutto il materiale raccolto fino a quel momento, mi sono dedicata nel frattempo a un altro film, The Man Who Sold His Skin. Quando ho ripreso in mano il progetto, a mente più fresca, ho avuto l’idea di stravolgere completamente l’impianto del film, chiamando anche degli attori professionisti che interagissero con i “veri” protagonisti della storia. La scelta di ricorrere al re-enactment mi ha permesso di raccontare alcuni passaggi chiave della vicenda, avvenuti molto prima che io cominciassi a filmare.
E Olfa e le figlie minori? Come hanno accolto questo cambio di rotta?
Sono state molto docili e disponibili, si sono fidate di me. Anche perché ho condiviso con loro le mie preoccupazioni, le mie idee e le ragioni che mi hanno portato a questa scelta.
Parliamo di questi re-enactment. Pensi che questo “rivivere”, “ri-raccontare”, possa avere una qualche funzione terapeutica? Che possa aiutare a elaborare un trauma? O, viceversa, è una cosa che si può chiedere solo quando si è sicuri che il trauma sia già stato metabolizzato?
Non saprei rispondere, ma ti posso dire il mio metodo di lavoro e la mia impostazione. Ho frequentato la loro casa per molto tempo, e piano piano mi hanno raccontato molti episodi della loro storia familiare. A partire da questa mole di ricordi, che emergevano in forma sparsa, ho fatto una selezione, cercando di isolare i momenti utili a rispondere alla domanda: perché è successo quel che è successo? Ogni giorno, poi, ci focalizzavamo su un solo ricordo, e giravamo quello. Olfa e le figlie minori raccontavano la scena agli attori, li dirigevano in un certo senso, e così facendo cominciavano a recitare. E io stavo lì, filmavo, osservavo la dinamica che si veniva a creare.
Si considera una regista democratica? Bisogna avere una certa elasticità, una certa apertura all’imprevisto, per abbracciare un approccio di questo tipo.
Non sono democratica, in effetti non credo che esistano registi democratici! Siamo tutti dei maniaci del controllo! (ride, nda). Nel mio caso, però, lasciare spazio era fondamentale: bisognava controllare, sì, ma dalla giusta distanza. Faccio un esempio: Olfa e le sue figlie non sono persone scolarizzate, ma sono perfettamente in grado di esprimersi e di parlare per loro stesse. Parlano la lingua del popolo, una lingua viva. Si sanno raccontare. Se mi fossi messa a scrivere i loro dialoghi, parola per parola, avrei rovinato tutto. Non si tratta di essere democratici, ma di riporre fiducia nelle persone con cui si lavora.
Che rapporto si è creato tra i personaggi “veri” e gli attori?
Per gli attori è stata un’esperienza molto dura, erano molto al di fuori della loro comfort zone. Di solito il loro lavoro è recitare delle parti scritte su un copione, non sono abituati a confrontarsi con la forza del reale. E paradossalmente erano le ragazze, a volte, che rassicuravano gli attori, in corrispondenza delle scene più drammatiche.
Le figlie minori si sono messe a nudo di fronte alla macchina da presa, raccontando momenti di grande vulnerabilità. Pensa che questa fiducia che si è creata sarebbe stata possibile anche con un regista uomo?
Chi lo sa! Un uomo interessato a quei temi, perché no? Credo che quella confidenza non nasca solo o soprattutto dal fatto che sono una donna, ma piuttosto da una sensibilità, dal mio interesse per i personaggi, dal mio bagaglio passato. E poi ho girato con una troupe molto piccola, il che favoriva questo clima di intimità.
All’inizio del film non si sa cosa succederà alle ragazze, lo spettatore resta col fiato sospeso fino alla fine. Quattro figlie è un documentario ma ha una struttura da thriller, da questo punto di vista.
C’è la storia, e poi c’è il modo di raccontare la storia. E sono due cose molto diverse. Il thrilling per me è uno strumento per tenere agganciato lo spettatore: chi guarda sa che è successo qualcosa di brutto ma non capisce cosa. I ferri del mestiere, i meccanismi dello storytelling sono sempre gli stessi, che si tratti di finzione o di documentario. E il fatto di utilizzare questi strumenti, per me, non toglie nulla alla verità del racconto.
Il suo è un film completamente girato in interni, eppure è profondamente radicato in un contesto sociale, culturale. Parla della Tunisia, no?
Non saprei, le relazioni tossiche tra madri e figlie esistono dappertutto nel mondo. Il film ha parlato a pubblici molto diversi e lontani, e credo che questo sia successo perché il racconto tocca temi universali: il lato oscuro della maternità, la violenza che si tramanda da una generazione all’altra. Se ci pensi, la storia di Quattro figlie è la storia di Medusa, di una donna a cui succedono cose orribili e che finisce per trasformarsi in mostro. E poi c’è il tema del male, e del potere seduttivo che esercita su tutti noi. Le due figlie maggiori seguono il lupo nel bosco, come Cappuccetto rosso.
Ma questo tema della religione e della radicalizzazione, allora: lei crede che sia solo un pretesto? Un fatto psicologico, prima ancora che culturale?
La radicalizzazione è un fenomeno comune a molte latitudini e a molte epoche storiche. Negli anni 70 c’era l’estremismo di sinistra, negli anni 40 i giapponesi vivevano in un contesto di fondamentalismo totale. Le matrici possono essere diversissime, è chiaro, ma sono tutte manifestazioni della stessa tendenza. MARIA SOLE COLOMBO
Disponibile su IWONDERFULL, Sulle sue spalle è un altro doc al femminile sull’ISIS e i suoi strumenti di sottomissione, tramite il ritratto del premio Nobel per la pace Nadia Murad: vi riproponiamo l’intervista alla regista Alexandria Bombach, da Film Tv n. 49/2018.
Con la sua voce - Intervista a Alexandria Bombach
Sulle spalle di Nadia Murad ci sono il dolore, la memoria, le aspettative di giustizia e le possibilità della speranza di un popolo - quello degli yazidi -, la richiesta del riconoscimento ufficiale del genocidio in atto per mano dell’ISIS, iniziato nell’estate del 2014 nel villaggio iracheno Kocho, dove Murad venne presa in ostaggio e resa schiava sessuale prima di fuggire, riparare in Germania e cominciare un’indefessa attività divulgativa e di denuncia che l’ha portata alla nomina di ambasciatrice ONU per la dignità dei sopravvissuti alla tratta di esseri umani e al premio Nobel per la pace 2018. Troppo, per una ragazza poco più che ventenne, che sognava di aprire un salone di bellezza? Alexandria Bombach ha seguito Nadia per tre mesi nel 2016, ritraendo in Sulle sue spalle (miglior documentario al 34° Sundance Film Festival) la battaglia di un’incrollabile giovane donna che chiede che l’unico confine del mondo sia «quello dell’umanità», ma anche le difficoltà di comunicazione e di percezione della sua tragedia da parte dell’Occidente.
I giornalisti, i conduttori, i politici con cui Nadia ha a che fare spesso sembrano interessati soprattutto alla sua storia dell’orrore: le domande sono pervasive, insistono sui dettagli macabri, quasi pornograficamente. Sulle sue spalle racconta anche l’exploitation dei media? È per evitare di scivolare in quel tipo di morbosità che hai deciso di fare a meno delle immagini di repertorio?
Era la prima volta che assistevo alle modalità d’interazione fra giornalisti e sopravvissuti di guerra, e sono stata presa alla sprovvista. Il genere di domande che vengono poste a Nadia, il numero di volte in cui le viene chiesto di ripetere la sua storia, il modo in cui ci si concentra sui particolari orrorifici e la si incalza mi ha turbato, e ho iniziato a mettere seriamente in discussione lo scopo di tutto questo, il modus operandi. Penso che dal film emerga il fatto che anche a Nadia è accaduta la stessa cosa: inizia a capire che quelle persone sono piene di buone intenzioni, ma pure che quel tipo di domande non aiutano davvero la sua causa. Per questo motivo io non volevo sensazionalizzare ulteriormente il racconto, non volevo spettacolarizzarlo a mia volta. Il punto nodale di Sulle sue spalle è: perché vogliamo a tutti i costi ascoltare la descrizione della sua prigionia? Quali domande stiamo davvero ponendo ai sopravvissuti, cosa sottendono? E quali domande, invece, stiamo tacendo?
Oltre a quella del linguaggio (lei non parla inglese), una delle complicazioni, per Nadia, è la barriera culturale che si trova davanti, mentre lotta per far comprendere davvero e interamente la sua vita e la sua realtà a un mondo lontanissimo, potente e privilegiato come quello occidentale.
Sì. Anche se non volevo fare distinzioni manichee: non vediamo persone buone e persone cattive. Una grossa fetta di Sulle sue spalle esplora questi buoni intenti, lo spazio che essi occupano, i suoi confini. La maggior parte della gente che la incontra non sa come rapportarsi a Nadia, come trovare la strada per approcciarsi a lei; ed è comprensibile, è difficile per noi connetterci a un’esperienza così terribile, e io volevo che il pubblico si rendesse conto di come anche Nadia si accorga dell’impaccio e dell’imbarazzo di queste interazioni, di come lei stessa partecipi di questa fatica. Essere testimoni di questa ulteriore difficoltà è importante per riuscire a lavorarci su, per capire come rapportarsi con i superstiti di un tale trauma, come cambiare le dinamiche di relazione, e come raccontare le loro storie nel migliore e più rispettoso dei modi.
A Nadia viene spiegato come presentarsi alla sua “audience”: come porsi, come vestirsi, come vendere la sua storia perché arrivi a chi la ascolta nella maniera più efficace possibile. Nadia deve diventare un personaggio - eroina e/o vittima -, diventare la sua storia: il mondo moderno per accordare la sua empatia ha bisogno di una narrazione codificata, di una rappresentazione mediale che “funzioni”?
In effetti penso che il film racconti anche la presa di coscienza da parte di Nadia di questo fattore: capisce che le persone hanno bisogno di posizionarla in un ruolo, e a modo loro, nella loro agenda. Credo però che alla fine di Sulle sue spalle sia evidente come lei riesca a sviluppare una propria voce, a prendere il controllo sulla modalità in cui si rivolge al mondo; credo che sia stato un raggiungimento importante per lei ed è stato incredibile vedere come ci sia arrivata, come questa ragazza sia riuscita a consegnare la sua storia. Nadia ha visto il film, lo ha trovato molto potente ed è rimasta piacevolmente sorpresa proprio dalla scelta di focalizzarsi sulla concretezza del suo lavoro, più che sull’ennesima rievocazione della sua prigionia. FIABA DI MARTINO
Fino al 29 giugno, a Fiano Romano, Lo schermo è donna: la rassegna dedicati ai talenti femminili del cinema propone incontri (tra le altre: Piera Detassis, Francesca Comencini, Lunetta Savino) e proiezioni (tra cui Girasoli, opera prima di Catrinel Marlon, e Una giornata particolare, per l’omaggio a Sophia Loren).
Al via il 27 giugno il nuovo podcast di Chora Media Huda, nessuna e centomila, ritratto della Gen Z raccontato dalla viva voce di una influencer ventenne nata in Brianza da genitori marocchini, che mette in luce, senza filtri, contraddizioni e ipocrisie della società italiana nei confronti delle seconde generazioni.
In memoria di Anouk Aimée, la divina attrice francese icona del cinema degli anni 60, scomparsa a 92 anni lo scorso 18 giugno, vi consigliamo di leggere il ricordo di Giulio Sangiorgio su Film Tv n. 26/2024, ora in edicola, e il profilo firmato da Peter Bradshaw per il “Guardian” [in inglese].