Singolare, femminile ♀ #139: The Queen of Comedy
Conoscete Hacks, la premiatissima serie con Jean Smart nei lucenti panni di Deborah Vance, stand-up comedian di lungo corso costretta a collaborare con una giovane sceneggiatrice? Beh, dovreste: su Netflix è appena arrivata la seconda stagione, in Usa si è conclusa la terza. Ve ne parliamo nella newsletter di oggi, sfatando qualche mito sulle donne nello showbiz.
Nell’ultima puntata della terza stagione di Hacks, andata in onda negli Stati Uniti lo scorso giovedì, la protagonista Deborah Vance, incarnata dalla strepitosa Jean Smart, dialoga con un anziano produttore televisivo («uomini come lui vivono centinaia e centinaia di anni!» aveva detto poco prima alla sua sceneggiatrice Ava) sui motivi per cui, negli anni 80, il suo late show era naufragato e non era più stato messo in onda. «Ho sempre pensato che se fossi stata più brava, più divertente, se fossi stata indiscutibile, non me l’avrebbero tolto» dice lei. «Oh, ci sono sempre mille ragioni per cui un programma fallisce» risponde lui. «Per una donna, sono mille e una».
Per spiegare chi è Deborah Vance a chi non ha mai visto Hacks, forse basta dire che potrebbe plausibilmente essere una versione di Midge Maisel, se La fantastica signora Maisel avesse deciso di raccontare la vita della sua protagonista nella terza età. Per chi non avesse mai visto La fantastica signora Maisel… beh, rimediate quanto prima! – ma, nel frattempo: Deborah Vance è una stand-up comedian settantenne, diventata celebre tra gli anni 70 e gli 80, raggiungendo un livello di fama imperitura. Quando la conosciamo, all’inizio della serie, vive da oltre un decennio a Las Vegas, dove ogni sera si esibisce nel suo collaudato show, nel teatro di un hotel casinò; abita in una villa enorme, è oscenamente ricca, alimenta il proprio impero economico tra televendite su QVC e comparsate varie lautamente pagate. Eppure, è in declino: il proprietario dell’hotel vuole sostituirla con un giovane idolo del web, e così il manager Jimmy la appaia con Ava Daniels (impersonata dalla quasi esordiente Hannah Einbinder, nella realtà una vera stand-up comedian), sceneggiatrice venticinquenne in crisi dopo essere stata “cancellata” a causa di un tweet sfortunato. La serie è soprattutto il racconto della difficile costruzione del loro rapporto (un po’ come La fantastica signora Maisel era quella della relazione tra Midge e la sua manager Susie Myerson) e dell’influenza che esercitano l’una sull’altra.
Hacks è cominciata nel 2021 su HBO Max, negli Stati Uniti, con immediato successo di critica. Agli Emmy dello stesso anno Jean Smart ha vinto il premio per la miglior attrice in una comedy, e gli autori Lucia Aniello, Paul W. Downs e Jen Statsky quello per la sceneggiatura (Aniello anche quello per la regia). L’anno successivo la serie ha vinto il Golden Globe per la miglior commedia, e Smart ha portato a casa uno globo d’oro personale, e poi un nuovo Emmy. Eppure in Italia per vedere Hacks abbiamo dovuto aspettare l’inizio di quest’anno, quando lo show è apparso inaspettatamente su Netflix – inaspettatamente perché, nella maggior parte dei casi, gli show HBO, specialmente quelli di maggior successo, hanno un approdo diretto su Sky e NOW. Da pochissimi giorni, su Netflix è arrivata anche la seconda annata, mentre, come si diceva, negli Stati Uniti si è conclusa la terza (la produzione ha saltato un anno, prima per un intervento chirurgico cui ha dovuto sottoporsi Smart, e poi per il doppio sciopero di sceneggiatori e attori dell’anno scorso).
Probabilmente le ragioni del “ritardo” stanno in questioni di diritti a noi oscure, oppure, chissà, i network italiani hanno reputato troppo “americana”, o troppo di “nicchia”, una serie le cui dinamiche ruotano attorno a diverse specificità dell’intrattenimento a stelle e strisce (se la stand-up comedy è ormai sdoganata anche da noi, molto meno lo è l’appeal dei Late Show e degli show di Las Vegas). Eppure, com’è facile capire dal breve riassunto della premessa narrativa, Hacks è anche la messa in scena di uno scontro/confronto generazionale, quello anche da noi chiacchieratissimo tra boomer e millennial/Gen Z, e perdipiù su un terreno considerato “caldo” come quello della comicità, ormai quasi quotidianamente attraversato da polemiche più o meno pretestuose su “politicamente corretto” e compagnia. Com’è facile immaginare, Deborah Vance dice e fa cose spesso imperdonabili, sia dall’alto del suo privilegio di mega star, sia come conseguenza di un passato formativo in cui costruire la comicità su stereotipi anche offensivi era la norma. Com’è altrettanto facile prevedere, Ava naviga con naturalezza la politica e l’attivismo contemporanei, tra consapevolezza e performatività, e non manca di far notare a Deborah errori e inappropriatezze.
Hacks si tiene però alla larga da stereotipi e facili macchiette, e naviga queste questioni con intelligenza – e, cosa ancor più importante, con esilarante ironia. Per quanto esplicitamente progressista, ed evidentemente allineato alle posizioni di Ava, lo show non manca di sottolinearne le contraddizioni, le sfumature ridicole, e soprattutto lo snobismo, gli automatismi un po’ ottusi, talvolta la poca presa sulla realtà. Ava, all’inizio, disprezza Las Vegas, il suo intrattenimento “dozzinale” destinato alle vacanze della middle America; e la miliardaria Deborah, per molti aspetti, conosce e sa parlare alle persone comuni molto meglio della “socialista” Ava. Le questioni politiche (per quanto, naturalmente, trattate con la leggerezza della commedia) diventano uno dei terreni prima di incontro e poi di “educazione reciproca” di Ava e Deborah, e, per riallacciarci ancora una volta al parallelismo con La fantastica signora Maisel, sarà proprio nel riconoscere l’imperitura discriminazione delle donne nel mondo della comicità e dello showbusiness – indipendentemente dalla generazione d’appartenenza – che le due protagoniste troveranno la prima vera molla per una comprensione reciproca.
Perché quello che diviene presto chiaro, nel corso della prima stagione, è che Deborah e Ava condividono molte più similitudini di quanto si possa pensare a prima vista, e di quanto loro stesse sembrino disposte ad ammettere. Non sono, soprattutto all’inizio, persone “piacevoli”: Deborah ha fama (giustificata) di essere dispotica e terribile, e la scopriamo presto abilissima nel leggere e poi manipolare a proprio vantaggio le persone che le stanno attorno. Ava, giovane e in fondo ancora inesperta, è molto più goffa, e più scoperta, nel proprio egoismo: a “cancellarla” davvero non è stato un tweet infelice, ma un pessimo carattere, e l’abitudine di coltivare finte relazioni d’amicizia per scopi professionali. La carriera viene prima di ogni altra cosa, sia per Ava sia per Deborah. E, ci lascia capire la serie, sia Ava sia Deborah affidano al successo lavorativo il compito di riempire i vuoti lasciati da frammentate e dolorose relazioni familiari. Anche la passione per la commedia e la comicità ha, per entrambe, radici in un’infanzia infelice, come avranno modo di confessarsi in momenti differenti. La scrittura di Hacks, oltre che frequentemente molto divertente, è precisa e rivelatoria, costruita su richiami e rispecchiamenti che si rincorrono di stagione in stagione: per fare solo un esempio, nella terza annata, durante un panel con domande aperte al pubblico, Ava, rispondendo a una ragazza che chiede consigli sul lavoro di sceneggiatrice, ripeterà con pacatezza ma convinzione (senza rendersene davvero conto?) le stesse parole che un’infuriata Deborah le aveva urlato contro in uno dei primi episodi della serie.
Hacks è piena di questi momenti (come illustra, per esempio, questo fan edit, ma attenzione perché contiene spoiler su tutte e tre le stagioni), che ritrovano anche nella struttura della scrittura il tema di fondo dello show: Ava e Deborah, pur con tutta la distanza che le separa, sono lo specchio l’una dell’altra. E l’insistenza sul carrierismo non è casuale, perché – proprio come una delle altre grandi serie di questi anni, The Bear – Hacks è anche e soprattutto uno show sul lavoro. E sui rapporti e sulle dinamiche che, nel contesto lavorativo, spesso finiscono per assomigliare a quelle della famiglia. Tra Ava e Deborah si costruisce via via una co-dipendenza che è insieme salvifica e tossica, di crescita e di regressione, e che pende da una parte o dall’altra a seconda della volontà delle due protagoniste di essere sincere con se stesse, o di non abbandonarsi alla paura. Di contro, i rapporti con le proprie famiglie biologiche per le protagoniste non potrebbero essere più complessi e dolorosi: il tradimento di sua sorella – con cui l’ex marito prima ebbe una relazione e poi si sposò (nella terza stagione ha il volto della strepitosa J. Smith-Cameron di Succession) – è per Deborah un trauma primario, la radice di tutte le sue insicurezze, della sua incapacità a fidarsi degli altri; Nina, la madre di Ava, è una presenza utilizzata per lo più in chiave comica, ma questo non toglie che la profonda incomprensione e incomunicabilità con la figlia possano conservare sottotesti dolenti e amari; la complicata relazione tra Deborah e sua figlia DJ (Kaitlin Olson), inoltre, serve spesso da contraltare di quella tra Deborah e Ava.
Come quasi sempre accade nelle workplace comedy, anche qui il gruppo di personaggi che si aggrega attorno ad Ava e Deborah – il manager Jimmy (che è interpretato da uno dei tre creatori dello show, Paul W. Downs), la sua “assistente” Kayla (la comedian Megan Stalter), l’amministratore finanziario Marcus (Carl Clemons-Hopkins), la governante Josefina (Rose Abdoo), l’assistente personale Damien (Mark Indelicato), la croupier Kiki (Poppy Liu) – finiscono per somigliare, a tratti, a una famiglia elettiva (soprattutto in alcuni stralci della seconda stagione, quando Deborah va in tour per il States), ma l’attenzione di Hacks resta pressoché sempre fissa principalmente sulle sue due protagoniste. Anche per questo spesso gli autori giocano, in modo divertente e rivelatorio, pure con le dinamiche delle love story romantiche (non è un caso se nel finale della terza stagione assistiamo sia a un climax da rom com sia a una lacerante rottura con litigio).
Torniamo alla scena con cui abbiamo iniziato, il dialogo tra Deborah e il venerando produttore. «Ci sono mille cose che possono andare storte. Per le donne, mille e una». O, come riassumerà più tardi Deborah, quando si tratta di donne – nel suo caso attuale, poi, di donne anziane – «hanno solo bisogno di una scusa». Hacks non giustifica le scelte profondamente egoistiche di Deborah, ma è attenta, tra una risata e l’altra, a offrirci il contesto e le esperienze da cui molte di quelle scelte discendono. Allo stesso tempo, come dicevamo poco fa, nell’intrecciare il rapporto intergenerazionale tra Deborah e Ava estrae il filo di discriminazione sistemica che frequentissimamente lega le esperienze lavorative delle donne. Se la giovane Ava, con tutte le sue certezze, con tutte le sue risposte giuste, deve scontrarsi con la contraddittorietà e l’opacità della realtà, la veterana Deborah deve interrogarsi sulle proprie abitudini e reazioni, smettere di nascondersi e autogiustificarsi dietro il contesto, scoprire una vulnerabilità che serve anche da nodo di riconoscimento collettivo e motore di sorellanza (con Ava, infatti, anche la sua comicità faticosamente cambia, diventa più “sincera” e autobiografica, e di nuovo ci ricorda la carica contagiosa di Midge Maisel, che in tutti coloro che la circondavano risvegliava una nuova consapevolezza di sé).
L’idea di Hacks (come si racconta in questo bel pezzo del New York Times, che contiene anche un’intervista a Jean Smart) è nata durante un lungo viaggio in auto dei tre autori (Downs e Aniello sono una coppia anche sentimentale, Statsky è una loro amica inseparabile: si sono conosciuti grazie al gruppo d’improvvisazione teatrale newyorkese Upright Citizen Brigade, e insieme hanno lavorato anche a un’altra fondamentale serie comedy, Broad City con Ilana Glazer e Abbi Jacobson, pure questa giunta in Italia ufficialmente, su Comedy Central, solo quest’anno, nonostante originariamente sia andata in onda dal 2014 al 2019). Avevano letto il necrologio di una grande performer, e si erano resi conto che, pur conoscendo ovviamente il personaggio, sapevano molto poco della sua vita incredibile, e non riuscivano a capacitarsi della sua progressiva “scomparsa” dalle scene. Il personaggio di Deborah Vance è nato da quel dialogo, si è ispirato ovviamente a grandi donne della comicità come Joan Rivers, Elaine May, Phyllis Diller (di molte di loro abbiamo parlato in questo numero della newsletter), e Jean Smart è stata la prima e l’unica attrice presa in considerazione per la parte. Come racconta Smart stessa nell’intervista sopra citata, non è difficile per lei riconoscersi in Deborah: pur avendo raggiunto un primo successo negli anni 80 con la serie Quattro donne in carriera, e avendo vinto un Emmy a inizio millennio come guest star in Frasier, si è sentita a lungo incastrata tra due possibili “ruoli” hollywoodiani, mai davvero presa in considerazione come “leading lady”, ma anche troppo “bionda” ed “esteticamente convenzionale” per essere completamente un’attrice caratterista. È il suo “terzo atto”, quello cominciato nella maturità con parti secondarie indimenticabili, dall’instabile first lady di 24 alla matriarca gangster di Fargo, dai personaggi cruciali nelle sperimentazioni supereroiche Legion e Watchmen all’irresistibile madre/nonna working class di Omicidio a Easttown, e culminato ora con Hacks, ad averla meritatamente incoronata come star contemporanea.
Hacks funziona anche da commento sullo stato di Hollywood, e sulla presenza femminile nell’industria. Nonostante una narrazione ricorrente e spesso inspiegabilmente ossessiva tenda a ripeterci che “l’aria dei tempi” imponga donne, persone non bianche e queer come protagoniste assolute e onnipresenti nei prodotti culturali, uno sguardo attento alla realtà e ai numeri rivela un quadro ben diverso, e decisamente sconfortante. Dopo l’era della Peak Tv, quando l’esplosione dello streaming aveva spalancato spazi sconfinati di manovra a soggettività un tempo escluse o marginalizzate dal mainstream, oggi si assiste a una contrazione produttiva che corrisponde anche a una parziale marcia indietro in questo campo. Lo segnalano già da qualche anno studi della UCLA, della USC Annenberg, della San Diego State University, della GLAAD: nell’anno in cui Barbie di Greta Gerwig (e, per noi italiani, C’è ancora domani di Paola Cortellesi) ha segnato stratosferici record al botteghino, la presenza di registe e professioniste del cinema a Hollywood è in realtà diminuita; in campo televisivo, si assiste ormai da anni alla riduzione della presenza di personaggi queer, con serie LGBTQIA+ cancellate (e non sostituite da prodotti “equivalenti”) sia sui canali tradizionali sia sulle piattaforme.
Gli effetti della pandemia, degli scioperi dell’anno scorso, di un’apparente “crisi dell’entertainment” portano gli studios verso quella che percepiscono come una linea di condotta conservativa e conservatrice (un altro esempio recente: la Pixar ha annunciato che d’ora in poi si concentrerà su storie con un “appealing di massa”, evitando lavori “troppo specifici” o “autobiografici”: il riferimento è ai “fallimenti commerciali” di Soul, Luca, Red e Elemental, in un’inquietante equivalenza tra “troppo specifici” e “non bianchi”). «Gli show che sono prevalentemente guidati da minoranze – personaggi non bianchi, o queer – sono i primi a essere tagliati: ci si aspetta che siano delle immediate grandi hit, e se non lo sono saranno i primi a essere cancellati» spiega uno sceneggiatore in questo reportage del Washington Post. «Quando si cercano solo grandi successi, si diventa molto più allergici al rischio» gli fa eco un collega, nello stesso articolo. «E questo significa che il mercato delle idee originali diventa molto più tosto. Quel che sento dire sempre più spesso nell’ambiente è che un certo tipo di storie sono molto più difficili da vendere in questo momento».
«Hanno solo bisogno di una scusa» riassumerebbe Deborah Vance. D’altronde, possiamo accorgercene facilmente anche a livello empirico, facendo mente locale: qualche anno fa potevamo snocciolare un elenco molto più fitto di titoli più o meno rivoluzionari con protagoniste sfaccettate e indimenticabili, o di prodotti che provavano a raccontare la queerness o ad affrontare l’esperienza della discriminazione con linguaggi nuovi e sperimentali. Per limitarsi alle donne, davanti e/o dietro la mdp: Fleabag, The Handmaid’s Tale, La fantastica signora Maisel, GLOW, Insecure, Pose, Transparent, I Love Dick, Broad City, Crazy Ex-Girlfriend, One Mississippi, UnREAL, L’altra Grace, Killing Eve, Jane the Virgin, Sense8, Orange Is the New Black, The OA, Veep, Big Little Lies, Derry Girls, High Fidelity, I May Destroy You, Grace and Frankie, Russian Doll, Ragazze vincenti - La serie… Non che oggi non ci siano corrispettivi interessanti, perfino nel mainstream (per esempio debutta oggi, su Disney+, il primo titolo del franchise Star Wars creato da un’autrice, The Acolyte – La seguace di Leslye Headland), ma la sensazione che lo spazio si sia ristretto, che la rilevanza nel discorso collettivo sia diminuita è faticosa da scacciare. Deborah Vance, probabilmente, ci darebbe ragione – ed è anche per questo che ce la teniamo stretta. ALICE CUCCHETTI
Prima del successo come protagonista in Hacks, Jean Smart ha illuminato diverse recenti serie prestige in indimenticabili ruoli di comprimaria, prediligendo personaggi anticonvenzionali, da Legion a Watchmen, passando per Omicidio a Easttown. Di quest’ultima, dove recita accanto a una altrettanto superlativa Kate Winslet, vi riproponiamo la recensione, pubblicata su Film Tv n. 23/2021.
Omicidio a Easttown
A Kate Winslet bisognerebbe erigere un monumento, se solo non stesse già provvedendo lei, scolpendoselo ruolo dopo ruolo. E quello di Mare Sheehan, umbratile e impulsiva detective di Easttown, Pennsylvania, con cui l’attrice inglese torna protagonista di una serie HBO a dieci anni da Mildred Pierce, è uno dei suoi capolavori. Mare, a Easttown, la conoscono tutti: è quella che al liceo segnò una vittoria di basket indimenticabile, quella il cui figlio si è suicidato, quella che non ha saputo risolvere il caso di un’adolescente scomparsa. Il fatto è che a Easttown tutti conoscono tutti: è un paese piccolo e depresso, dove si diventa genitori troppo presto e dove i giovani spesso non hanno altri sbocchi se non droga e criminalità; un paese dove i legami tra amici e cugini allacciano maglie di connivenza e omertà, in modo non dissimile da quanto avveniva (all’altro capo della Rust Belt, una delle zone più economicamente disastrate degli Usa) nel doc Making a Murderer, ed è un pregio della serie diretta da Craig Zobel saper fotografare in modo vivido una comunità e le sue piaghe. In questa realtà risulta impossibile, per Mare, scindere tra privato e lavoro, fusi in una mancanza di confini che crea per la protagonista scivolosissime zone d’ombra etiche. Quando l’omicidio del titolo fa calare sul paese una foschia rabbiosa, alla detective viene affiancato un collega “da fuori”, interpretato da Evan Peters, che si ritrova a dover decifrare l’enigma Mare, oltre al giallo di Easttown. La serie è, infatti, un vero e proprio whodunit, scandito da regolari e sfacciati cliffhanger che si dipanano parallelamente alle tappe dolorose con cui Mare affronta i suoi traumi; formalmente, un prodotto più convenzionale e meno ambizioso dello standard HBO (anche se è evidente, e ogni tanto vibra nel senso giusto, lo sguardo degli autori verso pietre miliari come The Wire o True Detective) e non sempre bilanciato nella scelta (comunque vincente) di alternare il registro cupo e thriller a quello più ironico e intimo, in cui però risulta determinante l’apporto di una impetuosa Kate Winslet al suo debutto assoluto in veste di produttrice esecutiva. Faro professionale e fulcro emotivo di una produzione complicata dalla pandemia di COVID-19, Winslet ha guidato i giovani colleghi, ha scelto di recitare (tutti, non lei sola) nel complesso accento della contea di Delaware, è intervenuta in complicità con gli autori per modificare in modo sostanziale i dialoghi e i gesti di Mare rispetto al copione, dando la stura a una serie di improvvisazioni nei duetti con Jean Smart (semplicemente gigantesca) e con Evan Peters (autore, in tutti i sensi, di un memorabile monologo da ubriaco). Il suo doppio lavoro di produttrice e attrice ha saputo distillare il meglio dalle intenzioni nobili ma ancora un po’ generiche di Zobel (che ha intuito per il femminile anticonvenzionale, da Sopravvissuti a The Hunt) e dello sceneggiatore Brad Ingelsby (che adatta al formato seriale il gusto per il mélo popolare dimostrato nei recenti L’amico del cuore e Tornare a vincere), facendo guadagnare autenticità a un racconto corale destinato a non essere dimenticato facilmente. ILARIA FEOLE
Buon mese del Pride! Molte piattaforme streaming lo celebrano con programmazioni ad hoc, e tra queste segnaliamo la rassegna di MUBI intitolata Un posto tutto per noi: gli spazi queer nel cinema. Dal 1° giugno sono disponibili diversi titoli da rivedere o da recuperare, da Paris Is Burning di Jennie Livingston a Querelle de Brest di Rainer Werner Fassbinder a Mädchen in Uniform di Leontine Sagan e Carl Froelich.
L’estate è alle porte, e se state progettando una vacanza a Londra, vi segnaliamo che fino al 13 ottobre è in corso alla Tate Britain la mostra Now You See Us – Women Artists in Britain 1520-1920, un percorso lungo quattro secoli alla (ri)scoperta di artiste spesso escluse o dimenticate dal canone. Al MACRO di Roma, invece, ha inaugurato il 30 maggio Patrizia Cavalli – Il sospetto del paradiso, la prima mostra dedicata alla fondamentale poeta italiana scomparsa nel 2022: sarà possibile visitarla fino al 25 agosto.
Estate significa, purtroppo, anche fuga dai cinema, in particolar modo quest’anno in cui, dopo gli exploit del 2023, il botteghino piange. In sala questa settimana arriva The Watchers di Ishana Lynch Shyamalan, mentre la settimana prossima (dal 13/6) verrà distribuito Attenberg di Athina Rachel Tsangari (della stessa autrice arriverà anche Chevalier dal 20/6); già al cinema, invece, Eileen, tratto da Ottessa Moshfegh (ne riparleremo), e se avete bisogno di esser convinti ad andare a vedere su grande schermo Furiosa vi consigliamo la lettura di questa recensione di Cristina Resa.