Singolare, femminile ♀ #134: La matriarca
Un ricordo di Eleanor Coppola, per oltre sessant’anni moglie di Francis Ford Coppola, madre dei registi Sofia e Roman, anima e motore di uno dei più celebri clan di Hollywood, e co-autrice di uno dei più importanti documentari sull’arte del filmmaking, Viaggio all’inferno. Un modo di guardare la Storia, e il Mito, da un’altra prospettiva.
Probabilmente la regista esordiente più anziana di sempre, Eleanor Coppola nel 2016 ha 81 anni quando firma il suo primo film non documentario, la commedia romantica Parigi può attendere. E, chiacchierandone con la stampa, paragona l’esperienza a quella della maternità, quando «passi tutto il tempo a cercare di non far litigare tra loro i tuoi figli, a preoccuparti per loro. Hanno freddo? Porta dietro i maglioni. Portati le loro scarpe. Devi essere focalizzata in ogni momento sull’occuparti dei bisogni di chi ti sta attorno». Non è raro che un artista paragoni la propria opera a un parto, ma Eleanor Coppola allarga la prospettiva, quasi la ribalta: dalla fatica di far venire al mondo qualcosa che prima non c’era a quella di mantenere viva, attiva, in salute qualcosa che c’è già.
E viene spontaneo pensare che questo tipo di lavoro, questa particolare pratica “registica” e “produttiva”, Eleanor Coppola l’abbia in realtà esercitata per moltissimi anni, per quasi tutta la propria vita, con marito e figli: «matriarca di una grande famiglia di filmmaker» è stato l’appellativo utilizzato da quasi tutti i giornali di settore nei loro necrologi quando, lo scorso 12 aprile, è arrivata la notizia della sua morte, a 87 anni, nella tenuta di Rutherford, nella Napa Valley californiana. Una notizia non del tutto inattesa, considerato che la figlia Sofia, lo scorso ottobre, aveva saltato la presentazione del suo ultimo film Priscilla al New York Film Festival comunicando di dover stare «accanto a mia madre, cui questo film è dedicato».
«Francis e io abbiamo fatto un patto», spiegava spesso Eleanor, nelle interviste, «per far funzionare il nostro matrimonio e la nostra famiglia in questa industria folle. Se Francis ha bisogno di stare lontano da casa per più di due settimane, allora ci muoviamo tutti, con lui. Siamo stati in Italia per Il Padrino, a New York, nelle Filippine per Apocalypse Now, in ogni parte del mondo…». Di questi traslochi ripetuti, Eleanor era l’artefice, la responsabile primaria, la coordinatrice: a tutti gli effetti un segmento fondamentale della produzione, un ingranaggio essenziale della macchina-Coppola. Ma facendolo si sottoponeva anche, inevitabilmente, a una continua ripartenza, a uno sradicamento incessante, all’impossibilità di una continuità di vita – e dunque di carriera – professionale. «All’inizio pensavo che io e Francis avremmo lavorato insieme» ha avuto modo di raccontare, in interviste come questa. I due si erano conosciuti sul set del primo film di lui, il cormaniano Terrore alla 13ª ora, dove lei, da poco laureatasi in design applicato, era l’assistente dell’art director. «Ma sono rimasta incinta, e ci siamo sposati. Ho avuto due figli, uno dopo l’altro, e, quando sono stata di nuovo pronta per lavorare, la sua carriera era andata molto oltre la mia. Mi sono ritrovata in un limbo, e gli spostamenti continui bloccavano ogni progetto che potessi avere fuori dalla famiglia».
Dal più celebre di questi traslochi, quello durato mesi nelle Filippine, escono due opere cruciali della storia del cinema, asimmetriche e complementari: Apocalypse Now, uno dei pochi capisaldi capaci di mettere d’accordo (quasi) tutti i cinefili, e il doc Viaggio all’inferno, in originale Hearts of Darkness – A Filmmaker’s Apocalypse, forse meno noto al grande pubblico, ma considerato meritatamente uno dei maggiori documentari sul cinema mai realizzati. La base e il tessuto di Viaggio all’inferno – che esce nel 1991, 12 anni dopo Apocalypse Now, ed è co-firmato da Eleanor Coppola con Fax Bahr e George Hickenlooper – sono i filmati in 16 mm con cui Eleanor documenta le riprese del cult del marito, stralci di conversazioni da lei registrati (talvolta all’insaputa di Francis, con l’intenzione di utilizzarli solo come appunti personali) e le pagine di Notes on the Making of Apocalypse Now, il diario scritto durante tutta la lavorazione, e che era stato dato già alle stampe nel 1979, in contemporanea all’uscita del film (in Italia è stato pubblicato da minimum fax sempre con il titolo Viaggio all’inferno, ma al momento è fuori catalogo). I documentaristi Bahr e Hickenlooper scelgono di intervallare il materiale del backstage con le “teste parlanti” intervistate un decennio dopo i fatti (gli stessi Francis ed Eleanor, ma anche John Milius, George Lucas, Martin Sheen…). Ma il punto di vista del film resta soprattutto quello di Eleanor, lo sguardo curioso, ricettivo e attento a scovare dettagli rivelatori sottolineato dalla sua voce fuori campo, che leggendo brani del suo diario, le note e gli appunti, fa, a tutti gli effetti, da guida e narratrice.
La parte maggioritaria – o, almeno, la più nota – dell’opera di Eleanor Coppola è, da Notes in poi, quella di documentarista, addetta alla registrazione del processo creativo dei familiari (firmerà moltissimi making of di lavori coppoliani, compresi quelli di Il giardino delle vergini suicide e di Marie Antoinette della figlia Sofia; nel cofanetto dvd italiano di Viaggio all’inferno è compreso anche il dietro le quinte di uno tra i più recenti film di Francis, Un’altra giovinezza); ma già in Viaggio all’inferno Eleanor sembra muoversi nello stesso territorio apparentemente contraddittorio e ambivalente in cui camminerà per gli anni a venire. Viaggio all’inferno e, prima ancora, il citato volume Notes on the Making of Apocalypse Now sono i mattoni fondamentali su cui si costruisce il Mito hollywoodiano di un’autorialità totale e totalizzante, dell’Impresa cinematografica titanica e spericolata. È un racconto, di per sé, duplice: l’esaltante cronaca di una volontà tanto poderosa e ossessiva da trionfare contro ogni avversità (la leggenda di Apocalypse Now è un catalogo di sventure: tifoni devastanti, molteplici distruzioni dei set, l’infarto di Martin Sheen, le bizze di Marlon Brando, gli incidenti catastrofici, gli infortuni e perfino la morte di un membro della crew, l’abuso di droghe generalizzato e la progressiva discesa in una follia collettiva), e contemporaneamente la hybris sconsiderata e maniacale di un autore-dittatore, ossessionato dalla rincorsa alla propria arte al punto da sacrificare a essa ogni cosa.
Lo sguardo di Eleanor, simultaneamente, ne alimenta il mito e ne rivela l’umanità. Ne fotografa la grandiosità e, insieme, ne individua gli angoli ciechi, perfino, a tratti, ridicoli. Francis è un genio, un matto, un bambino; è coraggioso e irresponsabile, lucidissimo e allucinato, determinato e disperato. La sua famosa dichiarazione – che il doc pone significativamente in apertura –, «Apocalypse Now non è un film sul Vietnam, è il Vietnam», senza Viaggio all’inferno (diario e film) rischierebbe di suonare come una sbruffonata sul filo della mitomania, ma è grazie alla documentazione del processo di filmmaking catturata da Eleanor che possiamo individuarne gli ulteriori fili, i rispecchiamenti: tra arte e vita, Storia e racconto, guerra e spettacolo, colonialismo e mitologia, delirio d’onnipotenza e fragilità umana.
Anche l’esistenza stessa di Eleanor Coppola, nata Eleanor Neil nel 1936 in California, sembra esprimere una contraddizione, o quantomeno una certa ambivalenza. Le sue ambizioni artistiche non si sono mai sopite, sono riaffiorate periodicamente a partire dalle opere giovanili d’arte concettuale, esplicitate talvolta in lavori femministi – come un’installazione realizzata a fine anni 70 insieme a Lynn Hershman Leeson nella casa della famiglia Coppola di allora, a San Francisco, dove Eleanor si preoccupa di sostituire gli Oscar conquistati dal marito con le versioni più piccole che all’epoca venivano regalate alle mogli dei vincitori perché potessero usarle come ciondoli, e in cui paga i piccoli Sofia e Roman per starsene in camera a guardare un video, sotto una scritta che recita: «Il più importante lavoro dell’autrice; si prevede che ci vogliano 21 anni perché sia completo». Ma, negli anni, Eleanor si fa anche orgogliosamente carico del funzionamento pratico della “macchina-Coppola”, dell’accudimento del clan – che, come sappiamo, è una famiglia allargata, che per qualche tempo comprende, tra gli altri, il nipote Nicolas Cage, e la fidanzata e la figlia del primogenito Gian-Carlo, tragicamente morto in un incidente in barca a soli 22 anni (in onore del quale realizzerà la sua installazione più celebre, Circle of Memory) –, e poi anche dell’azienda vinicola di famiglia, la Rubicon Estate Winery. Si dedica a rendere viva, attiva e in salute la grande impalcatura coppoliana, e pare accettare con consapevolezza e serenità quella che percepisce come la posizione, inevitabilmente laterale, della Moglie dell’Artista.
Come tanto di ciò che riguarda i Coppola, anche nel fatto che Sofia scelga di dedicare il suo Priscilla alla madre si scorgono illuminazioni autobiografiche. Come se nella funzione ancillare a cui è delegata Priscilla Presley, un’altra bambola in una casa di bambole, silenzioso e accomodante “accessorio” del marito-Icona, si potesse leggere, in un certo senso, la scelta (o l’obbligo?) di “domesticità” di Eleanor, la sua rinuncia ad ambizioni personali in favore della costruzione di un Mito della cultura popolare, o anche più semplicemente l’esperienza di vivere all’ombra di un marito enormemente più celebre. Nata nel 1945, Priscilla Presley ha nove anni meno di Eleanor Coppola: il collegamento è anche, in parte, generazionale, come rimarcato dalla regista. Nello stesso tempo, Sofia Coppola ha spiegato più volte (e particolarmente nelle interviste relative a Priscilla) quanto l’arte di sua madre abbia contribuito a fondare e modellare il suo sguardo di autrice, al pari di quella del padre. «Mia madre è un’osservatrice quieta» ha detto. «E penso di aver preso da lei, in questo, nel mio lavoro. Credo che si veda, quest’aspetto della sua personalità, che io ho ereditato. Sento una profonda connessione con il suo modo di osservare. Inoltre, ci ha esposti da sempre all’arte contemporanea, che amava. Ha avuto un impatto enorme su di me».
«Sono, più di ogni altra cosa, un’osservatrice» è anche quello che Eleanor Coppola ha ripetuto più spesso durante le interviste per accompagnare i suoi film narrativi, Parigi può attendere e l’ancora meno noto (e inedito in Italia) Love Is Love Is Love, completati rispettivamente nel 2016 e nel 2020. Entrambi commedie tra il sentimentale e qualche occasionale svolta drammatica, leggeri nel tono e semplici nella messa in scena, non sono stati successi né critici né commerciali, ma fioriscono distintamente dall’esperienza e dal punto di vista della loro autrice – in particolare Parigi può attendere che, con un’ottima Diane Lane, racconta un viaggio in auto da Cannes a Parigi, pieno di rilassate deviazioni, ispirato a un’esperienza accaduta davvero a Eleanor stessa. Nonostante l’appartenenza al clan Coppola, i decenni trascorsi sui set di marito e figli, e gli innumerevoli agganci hollywoodiani e conoscenze nell’industria, per trovare i finanziamenti necessari a realizzarlo le sono stati necessari oltre sei anni. L’istinto della documentarista-osservatrice, poi, ha più volte preso il sopravvento, spingendola verso il desiderio di seguire e scoprire gli attori invece di guidarli e modellarli: un film di fiction, ha scoperto Eleanor Coppola giunta ai suoi ottant’anni, è sorprendentemente «un documentario al contrario».
La profondità d’osservatrice, oltre che nei making of cinematografici di famiglia (quasi, si potrebbe dire, dei meta home movie), è rivelata poi anche in un altro memoir, Notes on a Life, una vera autobiografia scritta in forma di diario non cronologico, pubblicata nel 2008, nella quale Eleanor esplora la propria esistenza, interrogandosi candidamente su di sé, e insieme fotografando ancora una volta un making of, il processo per cui una famiglia di cinema si trasforma, essa stessa, in Mito e Arte (la grande casa vittoriana nella Napa Valley che ospita il clan fin dagli anni 70 sembra, d’altronde, «il set di un film»). È qui che, oltre al dolore per la morte del primo figlio, vero spartiacque esistenziale, si espone a un’auto indagine sul proprio ruolo, sulle aspettative soddisfatte e sulle strade abbandonate, oltre che sui modi in cui un’intera esistenza dedicata allo spettacolo può modellare un nucleo familiare, i suoi componenti, le loro relazioni.
Interrogata su quale sia stato il suo apporto creativo nei film di Francis, in un’intervista ha avuto modo di rispondere, con il consueto understatement, di non aver fatto granché. «Gli dico semplicemente quel che penso, parliamo molto, dibattiamo. Lui è abbastanza focalizzato sui suoi progetti. Io non sono davvero una dei suoi partner creativi, o una dei suoi collaboratori. Forse, io sono il pubblico». Ecco, ancora una volta, con questo cambio di prospettiva, ci restituisce un controcanto, e un controcampo: proprio come lei, il vero talento di uno spettatore è quello di saper guardare, e di saper vedere. ALICE CUCCHETTI
Uscito in sala lo scorso 27 marzo, dopo essere stato presentato in Concorso alla Mostra del cinema di Venezia 2023 e aver vinto il premio per la miglior attrice per la protagonista Cailee Spaeny, Priscilla è l’ultimo film di Sofia Coppola, dedicato dalla regista proprio a sua madre Eleanor. Sul n. 13/2024 di Film Tv il direttore Giulio Sangiorgio ne aveva scritto la recensione, che qui vi riproponiamo.
Priscilla
I piedi, lo smalto, i passi che sfiorano e affondano nella moquette rosa. Un occhio che si apre. Il trucco. Le ciglia finte. Il rossetto sulle labbra. La lacca. Lo smalto in coordinato, sulle dita delle mani. I piedi nelle scarpe. Pronta. E poi? Poi i fiori. I premi. La tenda, en pendant con il colore dell’auto. I soprammobili. Il mobilio. Il nero dei cartelli dei titoli di testa, a dividere i dettagli. Priscilla comincia così. A Graceland. La scena seguente è nella base dell’aeronautica Usa, Germania Ovest, anno 1959: prima. Ecco. A saperli guardare bastano questi primi tre minuti, impassibili, quieti, anodini, a dire (e non dire) lo sguardo di Coppola su Elvis e io, l’autobiografia dedicata da Priscilla Presley al suo rapporto d’amore (nato quando lei era tredicenne) col Mito. Tre minuti, in primis, per dire (e non dire) che questo è un memoir: il film procede cronologicamente, ma è quel flashforward, quell’apertura non-lineare col resto, a dirci che è la cronaca di un ricordo. Poi la colonna sonora conferma, in asincrono con la sua epoca (come in Marie Antoinette) e lontana da Elvis (questione di diritti? Anche, ma non solo: è uno stato esistenziale della protagonista). Se è freddo, Priscilla, è anche perché non è nel presente urgente del suo personaggio: è nel distacco del senno di poi. Come il libro, che ricostruisce la storia di una donna-bambina quando è in grado di elaborarla. Ma non solo: se l’Elvis di Luhrmann è l’origin story di un supereroe, Priscilla comincia con un corpo che si prepara a indossare il costume, una possibile eroina pronta ad agire. Solo che quel che segue è stasi: una collezione di souvenir, stoffe, status symbol. Dalla vestizione alla frustrazione, dal sogno allo prigione, dalla promessa di protagonismo alla fissità dell’arredamento. Immagini neutre. Nessun accento, trauma, passione. Guerra o sesso. Eppure c’è tutto, in questi minuti. Priscilla è décor, scelto secondo gusto di Elvis, un oggetto come tanti, lì, a Graceland (ironia della sorte: il cognome è Beaulieu, “bel luogo”: ridotta ad ambiente). E tutto è successo così: una semplice, banalissima intro al principio del film e di una vita. Una cosa di cui non ci si accorge. Coppola scrive e dirige questo implacabile, subdolo, struggente abbandonarsi alla natura morta, questo lasciarsi costruire da bimba a bambola (le parole semplificano: il film, raffinatamente, sfuma, complica, matura), e poi risollevarsi. E lo fa magistralmente: nel distacco dello sguardo, compito, pudico e ovattato, nell’antisensazionalismo degli interpreti (Elordi, già spettro del desiderio in Saltburn, e Spaeny, Coppa Volpi a Venezia 2023, chiamata a restituire un dolore trattenuto, educato, disorientato), nell’accurata gestione del sapere di protagonista e spettatore (la parabola di Elvis è un fuoricampo discontinuo, intermittente, non chiaro: ed è proprio questo non comprendere una traccia della solitudine di Priscilla) e in una scrittura osservativa, che sa aprirsi sottilmente per dire (e non dire) i sentimenti, per fare psicologia (tonda, non macchiettistica) coi dettagli. Lo dico: è il film di una grande regista. GIULIO SANGIORGIO
Dal 1° maggio sarà disponibili su MUBI Green Porno e altri corti, il progetto di Isabella Rossellini composto di 38 cortometraggi in cui l’attrice ed etologa illustra, tra elaborate scenografie e strepitosi costumi, le abitudini sessuali degli animali. Sempre a proposito di MUBI, ma questa volta della sua rivista critica The Notebook, non possiamo non segnalare questa analisi [in inglese] dell’autorialità di Barbra Streisand.
Su Internazionale.it, Valentina Pigmei si chiede se le protagoniste toste di tante serie tv sono femministe, e come.
Si svolgerà dal 3 al 12 maggio a Bergamo l’edizione n. 11 del Festival Orlando, sottotitolato Identità | Relazioni | Possibilità: dieci giorni di cinema, danza, teatro e performance (segnaliamo in particolare Orlando Shorts, selezione di cortometraggi queer proiettata il 4 e 5 maggio); è iniziato ieri e prosegue fino al 21 aprile a Torino, invece, il Lovers Film Festival, storico festival di cinema LGBTQ+ giunto alla 39ª edizione: diretto da Vladimir Luxuria, ha come madrina Maria Grazia Cucinotta, è dedicato alla memoria di Sandra Milo e tra gli ospiti musicali c’è BigMama.
Singolare, femminile si prende una pausa per festeggiare il 25 aprile e il Primo maggio: ci rivediamo il 6 maggio. Nel frattempo, buona Resistenza e buona Festa dei lavoratori!