Singolare, femminile ♀ #133: Sono solo canzonette
Arriva domani in sala, dopo il passaggio all’ultima Berlinale, Gloria!, esordio dietro la macchina da presa della cantautrice Margherita Vicario. La nostra collega Giulia Bona ci ha preparato una “playlist” per ri-attraversare il percorso artistico, tra schermo e sette note, della musicista romana.
Se riesco parto
S’intitola così il cortometraggio musical del 2011 interpretato e co-diretto (insieme a Michele Bertini Malgarini) dalla cantautrice e attrice romana Margherita Vicario, alla prima esperienza di regia 13 anni prima del debutto Gloria!, in Concorso alla Berlinale 74 e in sala dall’11 aprile. La canzone che fa da scheletro alla storia del corto si trasforma poi – con qualche parola modificata – nell’omonimo brano che chiude il primo album di Vicario, Minimal Musical (2014), una sorta di «one girl show». E in effetti questo approccio da solista che spazia da un’arte all’altra, che può fare e fa tutto, era già presente in LEM LEM – Liberi Esperimenti Musicali, spettacolo di canzoni portato in scena nel 2012, dove con voce, chitarra e tastiera raccontava sogni e paure di una ragazza. La forma di musica-teatro – dove Vicario può assecondare un naturale eclettismo, aspetto che caratterizza tutta la sua carriera – sembra calzarle a pennello, fin da quando, bambina, metteva in scena spettacolini ispirati alle canzoni di Lucio Battisti per la famiglia (dopo tutto cresce in un ambiente domestico artistico, nipote dell’attore e regista Marco Vicario e dell’attrice Rossana Podestà). Nata a Roma nel 1988, coltiva le sue passioni laureandosi in performing arts alla Link Campus University di Malta e muove i primi passi nella recitazione in tv (da I Cesaroni fino alla più recente fiction Rai Nero a metà) e al cinema (da To Rome with Love di Woody Allen a Pazza di me di Fausto Brizzi fino a Perfetta illusione di Pappi Corsicato). E come un musical comincia anche Gloria!, dove nel cortile dell’istituto Sant’Ignazio di Venezia, all’alba del 1800, i rumori di panni lavati, scope che ramazzano il pavimento, mani che battono le lenzuola compongono una coreografia.
Nota bene
Nella filastrocca in musica Nota bene – singolo contenuto nell’EP Esercizi preparatori (2013) – protagonista è il suono del pianoforte, oggetto che sarà poi centrale in Gloria!: attorno a questo strumento magico, nascosto dal malvagio prete Perlina, si ritrovano la protagonista Teresa (Galatéa Bellugi, amorevole e combattiva) e altre quattro ragazze dell’istituto e, alla luce di una candela, durante incontri quasi sabbatici, suonano la loro musica, urlando i loro vivaci universi interiori altrimenti castrati. Le dita viaggiano veloci sui tasti, le voci risuonano – «la mia lingua si muove da sola/e canto» intona, esplosiva, Bettina, interpretata da Veronica Lucchesi di La Rappresentante di Lista – in un mix di passato e presente: le melodie suonate da Lucia durante le nottate segrete sono quelle di Maddalena Laura Sirmen, anche lei orfana come le protagoniste, una delle poche compositrici italiane vissuta tra Settecento e Ottocento di cui ci è giunto qualche spartito; così le sonorità di ieri si fanno pop, attraversano le epoche, dall’Ottocento a oggi, per raccontare una battaglia di empowerment femminile.
Troppi preti troppe suore
Le ragazze di Gloria! trovano la loro libertà attraverso la musica: se di giorno devono rispettare le ferree regole dell’istituto, di notte possono cantare la loro ribellione, lontane dagli occhi giudicanti di troppi preti troppe suore, «che ancora dicono la loro nel 2029», come recita il provocatorio brano del secondo album, Bingo (2021), di Margherita Vicario. E l’insofferenza verso istituzioni bigotte e un pensiero arretrato e ristretto cantata nel brano è la stessa che ritroviamo nel film: da una parte il prete Perlina (un ottimo Paolo Rossi, maligno, gretto, egoista), dall’altra le orfane, continuamente bacchettate e zittite, messe a tacere, come nel caso di Teresa, costretta al silenzio per coprire abusi e bassezze di uomini meschini.
Pincio
Per ribellarsi a chi vuole chiudere loro la bocca, Teresa e le altre fanno fronte comune, procedono unite, compatte, sono ormai un gruppo, anzi un coro, in cui le voci e gli strumenti armonizzano insieme: e allora ecco il concerto finale, liberatorio gesto di autoaffermazione in musica, sottolineato dalle note festose di Pincio (ancora dal disco Bingo), un vero e proprio inno alla sorellanza («ed io già stanca sfinita senza più coraggio/mi prendevo il tuo/lo faccio da sempre e per sempre lo farò»). Con Gloria! ora e con gli album prima, Vicario canta di femminile e femminismo in modo semplice eppure diretto e pungente, spensierato e insieme impegnato, dal tema del femminicidio di Romeo («solo d’amore non si muore») alla dimensione sex positive di Giubbottino («tu al tuo uomo digli tutto/ti farà godere il doppio»), fino all’happy end del lungometraggio, con la compagnia itinerante di musiciste finalmente emancipate.
Canzoncina
Se quelle di Margherita Vicario sembrano solo canzonette, in realtà celano, dietro all’irriverente ritmo pop, l’interesse a trattare, sempre in maniera genuina e mai forzata o programmatica, argomenti di un certo spessore. Per restare al secondo album, solo lì troviamo, oltre a quelli citati poco fa, brani come Mandela e Abaué (morte di un trap boy): il primo parla di una società ancora profondamente razzista («questa è l’Italia che odia l’indiano che mette benzina»), mentre con il secondo l’autrice decostruisce gli stereotipi nocivi di una cultura maschilista che certa musica propone, dicendo addio a «soldi e puttane, droghe e gioielli, depressione, nichilismo, autolesionismo» e prendendosi «la briga di festeggiare la morte della trap e tutto quello che rappresenta» (l’ispirazione per il pezzo nasce dalla notizia su un ragazzino fan della trap music che finisce in comunità perché dipendente dalla codeina). E allora no, non sono solo canzonette quelle di Vicario, che continua a dimostrarcelo con il progetto Showtime: nato come podcast nel 2023 – quattro puntate in cui la Nostra dialoga con un ospite su un particolare tema –, diventa EP nel 2024, raccogliendo le canzoni presentate alla fine di ogni puntata del programma. Dal ruolo della donna in Ave Maria alle relazioni d’amore in Dove te ne vai, dalla guerra vista con gli occhi dei bambini in Magia a Canzoncina, sul cambiamento climatico («ci avete mai pensato che nel 2100/saran finiti i pesci, sarà sciolto il cemento/vivremo nelle grotte e sarà un nuovo inizio/sarà bellissimo affacciarsi giù dal precipizio»). Ritmo allegro, quasi spensierato, sbarazzino, per lanciare taglienti frecciate, in modo simile a Gloria!, che dietro il suo tono fiabesco e candido, nasconde una giusta storia di rivendicazioni. GIULIA BONA
In uscita in sala da domani, 11 aprile, dopo la presentazione all’ultima Berlinale l’esordio alla regia di un lungometraggio di Margherita Vicario ha suscitato reazioni polarizzanti nella critica: a corredo della “playlist” di Giulia Bona, vi proponiamo anche il perché sì / perché no di Gloria!, pubblicato sul numero di Film Tv in edicola.
GLORIA! – PERCHÉ Sì
Orfane in un istituto veneziano nel 1800, le protagoniste di Gloria! sono abituate a vedersi portar via tutto: la libertà, il futuro, i figli (soprattutto se nati dalla violenza esercitata dal signorotto locale), l’amore (soprattutto se si infatuano di giovani le cui “buone famiglie” mai acconsentiranno all’unione con una ragazza di così indegne origini). Che cosa resta? La musica. E quella, le talentuose componenti dell’orchestra diretta dal meschino prelato Perlina, non sono disposte a farsela strappare via: quando trovano un pianoforte requisito dall’avido prete, su di esso clandestinamente esercitano e sprigionano tutta la vitalità, la bellezza e la gloria che i lacci patriarcali hanno loro vietato. L’esordio alla regia della cantautrice Margherita Vicario, classe 1988, ha l’energia sensuale e ludica dei suoi brani: un inno femminista in forma di tenera (e un po’ naïf) fiaba pensata, anche, per un pubblico giovane. Nella rivoluzione in musica delle fanciulle, nella gioiosa vendetta contro il potere normativo e discriminante incarnato da un omuncolo (perfetto Paolo Rossi nel ruolo del viscido Perlina, forte coi deboli e prostrato ai potenti; con un’idea di controcasting efficace, anche Natalino Balasso vira al nero la sua verve comica), c’è lo spirito delle eroine battagliere di Bianca Pitzorno e, nonostante un finale davvero troppo didascalico e ridondante, la vitalità e il dinamismo di Vicario sono contagiose. E la sequenza in cui dalle parole amare e dal cuore spezzato di una ragazza vengono distillati melodia & testo di un brano che rivendica il dolore e il desiderio di una giovane donna, affilandoli come splendide armi, vale da sola il prezzo del biglietto. ILARIA FEOLE
GLORIA! – PERCHÉ NO
In Gloria! di buone intenzioni ce ne sono tante, di idee una (l’irruzione della musica pop in un collegio femminile di Venezia nell’anno 1800) e di cinema poco. Per cinema, scusando la pedanteria, in questo caso s’intende la capacità di scegliere un luogo, di definirlo in quanto spazio e tempo di una narrazione, e nel corso del racconto dargli una sempre maggiore profondità, complessità e credibilità. Tutte cose che Margherita Vicario prova a fare raccontando la storia della servitrice muta che libera la sua creatività trascinando con sé le studentesse del collegio (come una Cenerentola che trova in un pianoforte il suo principe azzurro), salvo optare ogni volta per le scelte più scontate: dall’ingenua immagine di sovversione dei canoni (musicali, comportamentali, sessuali) racchiusa dal contrasto tra composizione classica e ritmi del futuro, alla rivolta finale del concerto di fronte al papa (scena che ricalca chissà quanto volontariamente Sister Act), alla generale superficialità dei personaggi (il sacerdote musicista in crisi creativa e sentimentale, il nobile porco e maneggione, la compagna talentuosa ma arrogante…). Che la ricostruzione storiografica non sia la priorità del film è pure giusto, viste le intenzioni della regista, ma che lo sviluppo sia così ingenuo (con tanto di derisione finale per nobili, preti e beghine e salvezza per gli ultimi) è meno giustificabile. Gloria! ha lo spirito di una favola, e il tono combattivo di un pamphlet femminista: peccato che la vitalità e la leggerezza tanto sbandierate nascondano una visione così semplicistica (o sarà forse una visione pop?). ROBERTO MANASSERO
A proposito di musiciste che si confrontano con la regia, nel 2015 alla Mostra del cinema di Venezia Laurie Anderson presentava, in Concorso, il suo Heart of a Dog. Luca Pacilio l’aveva intervistata, per Film Tv n. 36/2016: vi riproponiamo la loro chiacchierata.
Cuore di cane
Esce nelle sale italiane, per due giorni soltanto (13 e 14 settembre 2016), Heart of a Dog, il film che Laurie Anderson ha presentato, con successo, in Concorso alla Mostra del cinema di Venezia del 2015. Un po’ documentario, un po’ poema per immagini, il lavoro si presenta come zibaldone di pensieri intimi e riflessioni sul contemporaneo, raccolta di originali teorie sull’identità e il tempo e toccante album di esperienze e ricordi: a fare da fil rouge il rapporto strettissimo che l’artista americana ha avuto con la cagnolina Lolabelle.
Come nasce Heart of a Dog?
All’inizio il canale franco-tedesco Arte mi aveva proposto un film di 20 minuti in cui illustrare la mia filosofia di vita: avevo risposto di no. Hanno rilanciato: «Perché non fai un film sul tuo rapporto con i cani, allora?». A quel punto ho lavorato in quella direzione; poi dai cani sono passata a parlare delle storie e dalle storie sono passata a parlare di empatia... Le cose si sono collegate e alla fine mi sono accorta di aver fatto un film sulla mia filosofia di vita... Insomma, mi avevano ingannata: mi avevano portato a fare quello che volevano loro (ride, ndr).
Il film è anche un viaggio nella sua memoria.
Sì, parlo di cosa succede ai ricordi, di come si trasformano nel tempo e di come le esperienze del passato si proiettano nel futuro in forma di storie. Uso le situazioni della mia vita e della mia famiglia, mi immergo in una dimensione intima, personale, ma per arrivare a toccare corde collettive. Quando qualcuno ci chiede come fossimo da bambini, tutti noi abbiamo due o tre storie da raccontare che sono costantemente riadattate, rese più accattivanti: alla fine a parlare di te non è tanto ciò che è accaduto, quanto il modo in cui lo hai reinventato, come hai riformulato la tua esperienza facendone una storia. Allo stesso modo non raccontiamo tutti i nostri sogni, ma decidiamo quali raccontare: questa scelta ci rivela.
Che tipo di percorso segue il suo film? C’è una struttura o è piuttosto un flusso di coscienza?
A un certo punto parlo di mia madre, che al momento della sua morte ha riunito i suoi figli sul letto di morte e da un lato si rivolgeva agli astanti in modo solenne, teatrale, quasi che avesse un microfono davanti a sé, dall’altra parte si distraeva, perdeva il filo, si dimenticava i termini del discorso. È quanto avviene anche nel film, il linguaggio piano piano si sfalda, i punti di vista mutano di continuo: come in un dramma radiofonico, il pubblico si trova di fronte a una narrazione piena di falle che deve completare con immagini proprie; ci sono vuoti, assenze, mancanze che il film gli chiede di riempire. È una struttura aperta che chiama in causa lo spettatore.
Il cane che ruolo ha in questo discorso?
Gran parte di questo film parla di quanto il linguaggio può essere fallace, di ciò che succede quando le cose si dimenticano o vengono ripetute troppo spesso, degli automatismi che ci conducono a descrivere i fatti in un certo modo. Per capire bene le situazioni invece bisogna uscirne, altrimenti si rischia di filtrare tutto attraverso la propria prospettiva, il proprio modo di vedere le cose e di viverle. Il cane rappresenta quello sguardo esterno e la sua empatia è ciò che consente di entrare nella storia in modo fluido, non strutturato, intuitivo, come intuitivo è il modo in cui l’animale interagisce con le persone, facendosi capire e capendole senza usare il linguaggio. Il titolo vuole significare proprio questa empatia, quella del cane e quella che, di riflesso, da artista, cerco di esprimere. LUCA PACILIO
In questo numero così musicale, non possiamo che gioire per la pubblicazione, da parte della BBC, di un podcast di Courtney Love, un’altra artista che è spesso scivolata dal mondo della musica a quello del grande schermo: in Courtney Love’s Women riflette sulle altre musiciste che l’hanno ispirata, plasmando il suo percorso [in inglese].
La chimera di Alice Rohrwacher è sbarcato a fine marzo negli Stati Uniti, tra l’acclamazione generale della critica, e, soprattutto, un’attenta copertura della stampa specializzata. Potete leggere, tra le altre, le interviste alla regista pubblicate da Slant Magazine, il Los Angeles Times, l’Hollywood Reporter e Vogue [in inglese].
Sabrina Impacciatore è la guest star protagonista del finale di stagione di Call My Agent: Italia, la cui seconda annata è in onda su Sky Serie e disponibile su NOW. Durante la promozione dello show, in un’intervista al “Corriere della Sera” ha raccontato di aver subito molestie da colleghi sui set italiani.