Documentario privato e collettivo, ibrido e militante, Orlando - My Political Biography segna l’esordio dietro la macchina da presa del filosofo e attivista queer Paul B. Preciado. La guest Elisa Cuter l’ha incontrato per parlare della genesi e dell’ampio sguardo politico del film, ora nelle sale italiane.
Attraverso importanti saggi dedicati a decostruire l’impostazione binaria del pensiero occidentale e a sferrare attacchi alla psicoanalisi e alla medicalizzazione dell’esperienza trans, come Manifesto controsessuale, Pornotopia, Testo tossico, fino al più recente Dysphoria Mundi, il filosofo spagnolo Paul B. Preciado, classe 1970, si è imposto tra i teorici queer più rilevanti del panorama contemporaneo. Quando arte gli ha chiesto di partecipare a un documentario biografico su di lui, ha declinato l’invito e si è incaricato lui stesso della regia di un film che rendesse giustizia alle sue posizioni teoriche e soprattutto politiche. È nato così Orlando – My Political Biography, presentato alla Berlinale nel 2023, dove ha vinto il premio della giuria della sezione Encounters e il Teddy Award, ora nelle sale italiane: un documentario in cui il romanzo di Virginia Woolf, la voce narrante di Preciado e le esperienze di vissuto di persone transessuali di diverse generazioni si mescolano insieme per dar vita a un ritratto collettivo.
Cosa vuol dire fare un film quando si arriva dalla filosofia e come consideri questo film all’interno della tua produzione come autore?
Direi che in generale quando siamo confrontati da domande teoriche differenti rispondiamo in modo diverso. La continuità risiede nel fatto che anche in quanto filosofo ho sempre saputo di essere, prima di tutto, ciò che si considera un soggetto patologico, che non ha diritto di parola all’interno di certe istituzioni, perciò ho vissuto il mio lavoro teorico come una forma di attivismo: stavo dando voce a una minoranza sessuale che non ha mai trovato spazio nelle discipline tradizionali. Qualcosa di simile è avvenuto con questo film, essendo io un outsider rispetto all’industria cinematografica. Lo dico essendo ben cosciente che si tratti di una strada aperta da molti altri prima di me: penso a modelli a cui non oso paragonarmi, come Pasolini, Jean Genet, anche Fassbinder in certi momenti. Non penso a me stesso come a un filosofo prestato al cinema, ma neanche mi considero un regista: non mi interessa ridefinire la mia identità professionale, quanto esplorare le possibilità politiche di diverse forme di espressione. Voglio dare visibilità a soggettività differenti, e questa volta ho potuto farlo attraverso il cinema, che ha il vantaggio di una dimensione più direttamente collettiva.
Quanto hanno partecipato i tanti Orlando del film alla sua creazione?
Fin dalla prima volta che l’ho letto, Orlando di Virginia Woolf per me ha rappresentato la scoperta di non essere solo: Orlando era come me. Quando ho proposto di girarne un adattamento documentario, volevo rappresentare quello che può sembrare un ossimoro, cioè il fatto che un personaggio di finzione possa essere reale. Per questo l’esigenza non è stata cercare un attore che interpretasse Orlando, bensì dei veri Orlando. Grazie a questa intuizione ho cominciato a incontrare persone che mi dicevano: «Sì, anche io sono Orlando, ti racconterò la mia storia». Abbiamo passato molto tempo a leggere e discutere il romanzo insieme, integrando la mia sceneggiatura basata sul testo chiedendoci quanto rispecchiasse il nostro sentire e la nostra esperienza. Le parole di Woolf sono diventate per noi uno spazio libero di sperimentazione, un vero e proprio safe space: ci siamo lasciati alle spalle il linguaggio medico o legale che ottunde il modo in cui abitualmente parliamo di transizione, per spostarci nello spazio accogliente del linguaggio poetico.
All’inizio la produzione era scettica, e anche io avevo il timore che potesse avere un effetto comico o artificioso vedere persone di oggi raccontarsi usando la lingua a volte aulica e desueta del romanzo, che gioca con i codici letterari dei secoli in cui si dipana la storia, soprattutto perché il budget per ricostruire i contesti storici attraverso costumi, décor e scenografie era risicato. Ma presto abbiamo capito che le gorgiere erano più che sufficienti: grazie al linguaggio di Virginia Woolf abbiamo potuto restituire lo spazio ibrido che si attraversa nel romanzo e di questo risultato organico sono molto felice.
Avevi già previsto il finale, in cui si assiste alla celebrazione di un riconoscimento legale, la consegna simbolica e formale di quella che suona come una paradossale “identità queer”? Pensi che nella lotta al binarismo le riforme legali rappresentino un primo passo necessario o sono l’obiettivo finale?
Onestamente nella mia prima sceneggiatura questo non era il finale a cui avevo pensato. Ovviamente non è questa la conclusione del romanzo, e anche per questo non ho mai pensato a quella scena come l’ultima. Avevo molti finali possibili in mente, alcuni impossibili per motivi di budget. Soprattutto però questa scelta è dipesa dal fatto che, durante la lavorazione, l’assenza di riconoscimento legale si è imposta come tema ricorrente e anche come problema pratico, perché gli Orlando incontravano spesso intoppi burocratici. Capitava che ci fosse chi arrivava in ritardo sul set perché era stato trattenuto per via dei documenti, c’era chi non poteva ritirare il suo compenso in banca… insomma ogni giorno emergeva il problema legato all’identità legale, al fatto di non essere riconosciuti come cittadini portatori di diritti, di non esistere sul piano legale e sociale. Così, girare quella scena è diventata una necessità: ci serviva un momento utopico. Un’utopia minima, certo: si tratta di qualcosa che non dovremmo nemmeno chiedere. E tuttavia il riconoscimento non è un problema solo per le persone trans, ma per tutti gli esclusi: chi lo è per motivi di diaspora, migrazione, disabilità, chi perché è detenuto… Quella scena è diventata allora non solo un risarcimento o un esorcismo simbolico, ma una festa: l’immagine perfetta per concludere il film.
A un certo punto del film, l’Orlando interpretato da Jenny Bel’Air afferma: «La società non è niente». Anche Margaret Thatcher però sosteneva che «There is no society». Vedi il rischio che il discorso neoliberale possa appropriarsi delle battaglie queer? E come si può evitare questo?
Quella frase è una citazione del romanzo. Ho voluto che fosse pronunciata da Jenny, che ha avuto una vita difficile e ha vissuto una lunga esperienza di esclusione e discriminazione ma che soprattutto è stata una presenza centrale dei movimenti underground francesi. Far recitare proprio a Jenny quelle parole voleva dire domandare cosa intendiamo quando parliamo di società, di quale società stiamo parlando. Ci sono così tante altre società che noi non vediamo, che sono invisibilizzate e non riconosciute: sono quelle le società che vanno difese e protette, a cui dobbiamo dare visibilità e diritto di esistenza.
Ho visto che ti sei espresso in sostegno della Palestina tramite alcune petizioni e un articolo su “Libération”. Concordi con chi ritiene che a livello comunicativo il governo israeliano stia strumentalizzando la comunità LGBT+ in una strategia di “rainbow washing”?
Il conflitto orrendo a cui stiamo assistendo si può comprendere solo tenendo ben presente che il governo israeliano attuale è un governo di destra. Se interpretiamo questo conflitto con le lenti delle identity politics non solo lo fraintendiamo, ma cadiamo precisamente nella trappola ideologica che vuole convincerci che si tratti di uno scontro di identità, “ebrei contro musulmani”. Quello dell’identità è un tranello in cui purtroppo tendono a cadere anche molte politiche trans o femministe. Pensare in termini identitari ci allontana dalla comprensione e anche dalla possibilità di una prassi rivoluzionaria: la piena cittadinanza politica non può essere ottenuta tramite il riconoscimento in quanto ebrei, musulmani, donne e così via. Dobbiamo ambire a ottenerla in quanto viventi, in quanto soggettività che esistono, usando le nostre possibilità per azioni che siano veramente collettive e che puntino a una vita in comune, alla condivisione e alla coabitazione, complessa ma possibile, tra diversità.
Un’altra trappola è quella dell’esternalizzazione del conflitto, l’illusione che quello che accade in Palestina ora non ci riguardi. Ma ciò che accade in Europa, con la protezione dei confini nazionali, è parte delle stesse logiche. O pensiamo a ciò che sta accadendo in Italia con il governo Meloni, sia rispetto ai migranti che ai diritti delle minoranze. Sfidare il colonialismo vuol dire pensare a costruire un modello che non si basi sullo stato nazione, che non si fondi sull’identità, sia essa razziale, culturale, religiosa, o anche sessuale: dobbiamo pensare a nuovi modelli per vivere insieme. Questa è la sfida più grande e forse il modello della transizione, dell’antibinarismo, può rappresentare il modello, l’opportunità per andare oltre al modello nazionale, patriarcale e coloniale. ELISA CUTER
Elisa Cuter è editor di IlTascabile.com ed è dottoranda e assistente di ricerca alla Filmuniversität Konrad Wolf di Babelsberg. Negli anni si è occupata di cinema e questioni di genere su Filmidee, Doppiozero, Blow Up, Not e Domani e collaborato con il Lovers Film Festival di Torino e la Berlin Feminist Film Week. Ha pubblicato nel 2020 il saggio Ripartire dal desiderio per minimum fax.
Una versione più breve di questa intervista è apparsa su Film Tv n. 14/2024
In tema di rappresentazione trans sullo schermo, passiamo da quello grande di Orlando - My Political Biography a quello piccolo, riproponendovi il capitolo dell’American Tv Story di Film Tv, percorso a puntate tra i più rilevanti showrunner degli anni 10, dedicato a Joey Soloway, apparso sul n. 30/2017.
Senza filtri
Il logo iridato che compare alla fine di ogni episodio di Transparent e di I Love Dick dice, laconico, «Topple». Joey Soloway ha reso ben chiaro il concetto nel 2016, dopo la vittoria del suo secondo Emmy per la regia di un episodio di Transparent, concludendo il suo discorso con un energico «topple the patriarchy!», ovvero “abbatti il patriarcato!”. Voi chiamatela pure televisione, dice Soloway; ma intanto Joey la chiama rivoluzione. «Quando scegli come soggetti persone di colore, donne, persone trans e queer , stai cambiando il mondo»: un manifesto d’intenti che ha trovato il suo portavoce nel mite docente in pensione Mort Pfefferman, deciso a vivere finalmente la propria vita come la donna che sa di essere, Maura. Transparent è titolo emblematico della poetica di Soloway: tanto sfacciato quanto efficace, coniuga il didascalico trans-parent, genitore transessuale, col concetto di trasparenza che travolge la famiglia Pfefferman al completo come un’onda anomala, spazzando via ogni ipocrisia per lasciare in tavola tanta, tanta sgradevolezza. Fra le minoranze che Soloway ha fieramente trasformato in eroi della sua narrativa, infatti, ci sono anche le «spiacevoli persone ebree» di cui Joey e la sua famiglia fanno parte: la forza di Transparent è aver mutato una storia del tutto intima (il coming out del suo vero padre, lo psichiatra Harry J. Soloway), ambientata in una nicchia di privilegio minoritario (ricchi ebrei dell’ambiente artistico/accademico di Los Angeles), in un potente messaggio universale. Sii te stesso. Facile a dirsi, difficilissimo capire anche solo cosa significhi: Transparent prima, e I Love Dick poi, sono percorsi identitari goffi, dolorosi, inceppati, ritratti sbilenchi di persone lontanissime dal trovare un equilibrio. E le puntate delle serie somigliano a loro, aderiscono al loro andamento ondivago, ne esaltano la libertà e la confusione. Una volta che Mort diviene se stessa, ovvero Maura, tutti i Pfefferman sono investiti da nuove consapevolezze e dubbi sulla propria esistenza, sulla propria sessualità, sulle proprie scelte: così ogni episodio di Transparent non è necessariamente legato al precedente a livello narrativo, i personaggi vanno e vengono, la regia si avvita in impennate oniriche e poi sguazza nella commedia screwball. Quando la cineasta Chris incontra Dick e la sua muschiata aura di super-etero, il suo corpo e la sua mente si accendono come sotto l’effetto di impulsi elettrici: ed ecco che ogni puntata di I Love Dick si trasforma in un piccolo prisma di immagini e stimoli audiovisivi disparati, frammenti cinematografici, caratteri tipografici a saturare lo schermo. La dramedy televisiva non è mai stata così libera di reinventarsi, puntata dopo puntata.
ABBASSO IL PATRIARCATO
Mutamento e fluidità non sono concetti cruciali solo per le creature di Joey Soloway: in una sorta di simbiosi fra arte e vita, l* showrunner ha intrapreso, parallelamente al successo delle sue serie tv, un percorso identitario sempre più radicale. Dopo il praticantato con Alan Ball (ha avuto il suo battesimo, a livello di fittizie famiglie disfunzionali, con Six Feet Under) e passaggio dalla corte di ShondaLand (ha figurato brevemente tra i produttori di Grey’s Anatomy, ma Shonda Rhimes ha terminato la collaborazione accusando Soloway di «non mettercela tutta»), ha trovato una sodale in Diablo Cody (colei che a fine anni zero, per un battito di ciglia, pareva quella giusta per cambiare qualcosa nella rappresentazione della donna su piccolo e grande schermo), che l’ha volut* come showrunner per la seconda stagione di United States of Tara, ma è col cinema che si è fatt* notare. Afternoon Delight, presentato al Sundance 2013, ha per protagonista la sua attrice feticcio Kathryn Hahn (la protagonista di I Love Dick, corpo attoriale dotato di carica sensuale atipica e autoironia impareggiabile) e al centro una storia di risveglio esistenzial-erotico al femminile che ha attirato l’attenzione di Amazon. Che, come il rivale Netflix, concede una libertà creativa più rara rispetto ai canali tv tradizionali: nel formato breve da comedy (25 minuti a puntata), e in stagioni compatte da dieci episodi, pubblicate in blocco sulla piattaforma streaming (anche se Transparent in Italia è arrivato prima su Sky Atlantic) e già pronti per il binge watching, Transparent (giunto alla terza stagione, con la quarta in arrivo entro il 2017) e I Love Dick hanno messo in luce il talento di Joey. Intanto, come per i figli di Maura Pfefferman, anche per Soloway la transizione del padre è stato l’inizio di un effetto cascata nella sua vita: sempre più impegnat* nel suo sostegno alla comunità LGBT, ha scritto insieme alla ex compagna, la poetessa post-punk Eileen Myles, il manifesto contro il patriarcato (lo trovate per esteso su topplethepatriarchy.com) e nel 2015 ha fatto coming out dichiarandosi non-binary, ovvero rifiutando di incasellare la sua identità di genere nel sistema maschio/femmina. I suoi prodotti seriali non sono, per Soloway, semplici show: sono parte, su molteplici livelli, di un movimento. A livello contenutistico: Transparent e I Love Dick coprono buona parte dello spettro delle identità di genere, usando l’incertezza e la curiosità dei protagonisti come escamotage per l’esplorazione, talvolta anche solo ludica, di ogni area del desiderio (soprattutto femminile), ma sempre giocando - con un po’ di giustificabile coda di paglia - sulla consapevolezza del privilegio (per i liberali, abbienti e un po’ annoiati figli dei Pfefferman, come per Chris, è più facile baloccarsi con l’esplorazione di sé e delle proprie possibilità; non mancano aspri confronti con personaggi omosessuali o transgender che sottolineano le difficoltà vissute per affermare se stessi). A livello di maestranze: ai militanti del politically correct non era andata giù la scelta di un attore cisgender (ovvero la cui identità sessuale coincide con quella biologica) nel ruolo di Maura (lo straordinario Jeffrey Tambor), ma Soloway ha nel tempo trasformato il suo set in un vero e proprio trampolino di lancio per autori e interpreti transessuali e, faticando a trovare sceneggiatori trans, ha “allevato” i suoi, creando un apposito bando e poi insegnando loro i rudimenti del mestiere. Infine, a livello didattico: è inevitabile riscontrare, nelle sue serie da showrunner , momenti didascalici, in cui il messaggio femminista e l’invito a pensare fuori dagli schemi imposti dalla società occidentale diventano talmente espliciti da suonare come lezioni in cattedra. Siamo però lontani dal pamphlet: le serie targate Topple sono prodotti pop e politici, che si prendono la briga, in una contemporaneità attraversata da rabbrividenti rigurgiti medievali e ammorbata da arene virtuali dove tutti parlano e nessuno ascolta, di alzare la voce e, perché no, di scandire bene i concetti.
CON ALTRI OCCHI
I Love Dick è la storia di una donna che desidera un uomo. Lo desidera ardentemente, lo sogna in contesti stucchevolmente idealizzati, lo segue, lo fissa. Lo mette in imbarazzo. È una storia che, a sessi invertiti, abbiamo visto mille volte. Poche volte così: a Joey Soloway interessa mettere in scena lo sguardo femminile, ribaltare la prospettiva che informa la stragrande maggioranza dell’audiovisivo. E la macchina da presa come prolungamento dello sguardo di donna diventa un oggetto inedito, a volte ingombrante, anche sgradevole. Non è certo la prima volta che ci si avventura nel territorio tabù del female gaze sul piccolo schermo contemporaneo: Lena Dunham in Girls ha operato lo stesso, discusso e insistito, ribaltamento, mettendo al centro la sua fisicità non aderente ai canoni convenzionali e la sua sessualità (e proprio la serie HBO è stata fra le ispirazioni, per Soloway, nel cercare la propria voce); poi sono venute, fra le altre, Crazy Ex-Girlfriend, Fleabag e Insecure. Ma la messa in scena di Soloway è spesso meno ironica e ancora più onesta, talvolta anche brutale: non c’è niente di levigato e prestabilito, nelle sue serie, e le donne sono autentiche, a partire dalla scelta dei corpi (oltre alla già citata Hahn, anche Gaby Hoffmann, Judith Light, Amy Landecker, Michaela Watkins e una splendida Anjelica Huston guest star ricorrente in Transparent) e dalla loro rappresentazione. Spigolosi e non depilati, appesantiti e privi di trucco, rugosi, affannati, eccitati. Osceni, ineducati. Non intenzionati a nascondersi o a ritoccarsi. E affidati allo sguardo femminile, anche dietro la macchina da presa: con alcune eccezioni (il regista transessuale Silas Howard e il direttore della fotografia Jim Frohna), tutti gli episodi sono diretti da donne. Al timone di Transparent e I Love Dick sono passate cineaste come Andrea Arnold e Kimberly Peirce, sguardi capaci di raccontare acutamente il femminile, il desiderio, e la ricerca di quella fatidica trasparenza. ILARIA FEOLE
Elena Mordiglia conduce su Radio Popolare la trasmissione Sui generis, approfondimento dedicato a sguardi al femminile; nell’ultima puntata abbiamo avuto il piacere di essere ospiti in qualità di curatrici di Singolare, femminile. Un’occasione per parlare non solo della newsletter, ma di molto altro, fra piccolo e grande schermo; potete riascoltare il podcast qui.
Jasmine Trinca riceverà il premio WomenLands Rendez-Vous 2024, nato dalla collaborazione tra Alice nella Città e il festival Rendez Vous, che ogni anno viene assegnato a una personalità del mondo dell’audiovisivo simbolo del legame tra Italia e Francia. La cerimonia si terrà il 5 aprile nel corso della 14ª edizione del festival (a Roma dal 3 al 7 aprile), e sarà preceduta da una serie di iniziative tra cui l’omaggio alle attrici Anna Foglietta, Virginie Efira, Mia Benedetta e Catherine Deneuve.
Da non perdere assolutamente su MUBI: Suzan Pitt - Una casa dei sogni femminista è la rassegna dedicata alla geniale regista e animatrice americana, con 7 cortometraggi (tra cui il capolavoro Asparagus) che raccontano il desiderio e l’identità femminile con stile surrealista, iconoclasta, ironico e acuto.