Singolare, femminile ♀ #129: Sotto accusa
Tra i film presentati alla prima edizione del C-Movie Film Festival, a Rimini dal 20 al 23 marzo, c’è Senza prove di Béatrice Pollet: ispirato a una storia vera, racconta una negazione di gravidanza e una donna messa a processo. E dialoga con altri recenti esempi di cinema giudiziario francese, da Saint Omer di Alice Diop ad Anatomia di una caduta di Justine Triet, premio Oscar per la sceneggiatura.
“Caccia alle streghe” è un’espressione che s’è ormai fatta metaforica, e che viene usata spesso nel linguaggio comune come un sinonimo di “persecuzione”. Eppure non solo ha radici storiche in un fenomeno ben documentato – anche se relativamente poco analizzato e raccontato ancora oggi –, ma porta con sé matrici e dinamiche persistenti profondamente connesse alla discriminazione di genere. Ogni donna “deviante” dalla norma è, potenzialmente, una “strega”, e come tale va messa a processo, indagata pubblicamente, chiamata a spiegare se stessa e le proprie scelte, esposta al giudizio collettivo.
In Senza prove di Béatrice Pollet – che il 22 marzo verrà presentato alla prima edizione del C-Movie Film Festival di Rimini, e distribuito nelle sale italiane – a un certo punto vengono chiamate “streghe” sia l’imputata Claire (Maud Wyler) sia la sua avvocata – e amica – Sophie (Géraldine Nakache). Claire, una trentenne a sua volta avvocata, è accusata di infanticidio: una notte, il marito Thomas l’ha trovata svenuta e insanguinata in cucina, mentre il cane di un vicino scopriva sopra al cassonetto davanti a casa loro un neonato chiuso tra asciugamani sporchi in un sacchetto di plastica. Nei primi minuti, il film accosta frammenti di informazioni che, ai nostri occhi, ma anche a quelli dei protagonisti, non combaciano, non trovano senso: abbiamo visto Claire due settimane prima giocare in piscina con la famiglia, in costume da bagno, senza che nulla nel suo aspetto indicasse una gravidanza vicina al termine; l’abbiamo osservata, qualche minuto prima del presunto delitto, fare il bagno e mettere a letto le due figlie con amorevole cura materna, e poi scambiare una telefonata tranquilla con il marito, che sarebbe rientrato tardi dal lavoro. Nulla del prima sembra accordarsi al dopo, agli interrogatori, al carcere, e naturalmente al processo, alla terribile accusa.
Senza prove in originale s’intitola Toi non plus tu n’as rien vu, “nemmeno tu hai visto niente”, una frase che si riferisce al fatto indagato, ma non solo: nessuno ha visto la gravidanza di Claire, nemmeno Claire medesima. E nessuno, in senso più collettivo, vede le negazioni di gravidanza, un fenomeno raro ma comunque più diffuso di quanto si pensi (i dati dicono che capiti a una gestazione su 475 in caso di negazione parziale, e a una su 2.500 per quella totale). È un’anomalia riproduttiva, per certi versi l’opposto della falsa gravidanza (la cosiddetta “gravidanza isterica”), e ancora non del tutto compresa scientificamente perché – come per tante patologie esclusivamente femminili – poco studiata: è, contemporaneamente, una “disconnessione” tra corpo e psiche, e la rivelazione di un’influenza reciproca potentissima tra le due dimensioni. Il corpo, in sostanza, mente: nel caso della falsa gravidanza mostra tutti i sintomi di una gestazione anche se non c’è stato alcun concepimento, in quello della gravidanza negata li nasconde fino alla fine. Le mestruazioni continuano a giungere ogni mese, il feto si sviluppa in verticale, nella parte alta dell’utero, la pancia non si solleva, la persona incinta prende pochissimo peso. Fino al parto che, comprensibilmente, può comportare un immenso shock, un trauma profondissimo, e un ulteriore rifiuto (compresi, inevitabilmente, anche l’abbandono del neonato o l’infanticidio).
Nessuno ha visto niente, allora, nel caso di Claire in Senza prove, e sensatamente nemmeno il film ci mostra cos’è accaduto. Ci chiede, come poi ai giudici del processo e all’opinione pubblica tutta, di ricostruire un’assenza di immagini, che in questo caso è totale: più ancora che di credere alla versione della donna, dobbiamo credere a una versione che è in evidente contraddizione con i fatti. «Non ero incinta, non ho partorito» continua a ripetere Claire, impossibilitata a riconciliare l’immagine, le certezze che ha di sé e del suo corpo con i dati sensibili, con quelle che le riflette contro il mondo. Ed è un’impossibilità accresciuta da una narrazione collettiva che, da sempre e ossessivamente, associa “femminile” a “materno”, e “materno” a “naturale”. Una delle scelte più efficaci del film di Pollet è quella per cui, arrivati al terzo atto, alla conclusione del processo, ci troviamo in una situazione rovesciata: tutte le “prove” ci dicono che Claire ha subito una negazione di gravidanza, ha partorito in uno stato di semi-incoscienza, non ha mai saputo di essere incinta, ma il nostro “condizionamento sociale” ci istiga a rifiutare la spiegazione più logica a favore di quella mostruosa e ingiustificabile, tanto a fondo siamo convinti dell’intima equivalenza tra donna e madre, persuasi del fatto che una donna non possa “non sentire” la maternità.
Viene spontaneo, guardando Senza prove, pensare a uno dei film più importanti dello scorso anno, Anatomia di una caduta di Justine Triet, Palma d’oro a Cannes 2023 e pochi giorni fa vincitore dell’Oscar per la miglior sceneggiatura originale. Entrambi adottano un approccio procedurale, interessati ai dettagli del caso e ai metodi dell’indagine – essendo entrambi francesi, ritornano anche simili consuetudini poliziesche e giudiziarie, come la “rimessa in scena” dell’incidente/delitto davanti ad agenti e giudici, o la disposizione nell’aula di testimoni, avvocati e imputata, con quest’ultima che (a differenza di quel che siamo abituati a vedere nei processi statunitensi o italiani) può essere interpellata direttamente e intervenire durante il dibattimento. Entrambi, come si diceva, lavorano attorno all’assenza delle immagini del fatto, costringendo lo spettatore a un personale lavoro di detection. Soprattutto, in entrambi l’accusata non si conforma al ruolo, a nessun ruolo – l’opposto di un altro recente film francese in contesto giudiziario, la deliziosa e intelligente commedia Mon crime – La colpevole sono io di François Ozon, dove l’attrice squattrinata Madeleine e la sua amica avvocata Pauline si “appropriano” di un crimine perché recitare le parti “giuste” consente loro di avere finalmente successo.
La Claire di Senza prove risulta “incomprensibile” proprio nel suo diniego assoluto di quanto accaduto; ed è anche estremamente distante dall’unica flebile narrazione della negazione di gravidanza che la cultura popolare ci ha fornito negli anni, per esempio con il reality Non sapevo di essere incinta, le cui protagoniste sono quasi sempre ragazze giovanissime, prive di educazione sessuale, magari provenienti da contesti di disagio sociale. Claire è una donna adulta, benestante, indipendente, è un’avvocata di successo, è già madre di due bambine, vive una relazione appagante e paritaria con il compagno Thomas, ed è significativo come, durante il processo, ognuno di questi aspetti, invece di “giocare a suo favore”, venga illuminato da una luce sinistra, osservato con sospetto (un esempio per tutti: la sua abitudine di controllare il sonno delle bambine prima di andare a dormire passa improvvisamente da gesto “materno” a “ossessivo”). In Anatomia di una caduta la lente del genere è solo una delle molte attraverso cui viene ispezionata la protagonista Sandra, ma anche qui il suo discostamento dal canone – la sua bisessualità, la sua indipendenza, la sua sicurezza di sé, perfino il suo successo di scrittrice – diventa un atto d’accusa, brandito come indizio di colpevolezza.
Senza prove e Anatomia di una caduta percorrono poi, in realtà, strade opposte: l’ambiguità di cui con determinazione circondano le proprie protagoniste ha scopi contrari e speculari. Nel primo caso, Pollet vuole portarci verso una “verità” dei fatti, una risposta certa su quanto accaduto smantellando le nostre convinzioni e i nostri preconcetti, ma conservando un necessario e ineludibile elemento di “inspiegabilità” attorno al perché (sulle motivazioni alla base delle negazioni di gravidanza ci sono diverse teorie più o meno scientifiche e, ancora, nessuna certezza). A Triet, invece, non interessa darci una risposta, sciogliere il mistero true crime, rispondere alla domanda «è stata lei?», «è stato un omicidio, un suicidio o un incidente?», perché la vera indagine del film è quella su una (im)possibile ricostruzione e definizione del vero, e i veri indagati del film siamo noi, il pubblico, le nostre reazioni, i nostri automatismi.
Un rispecchiamento – tra chi è accusato e chi osserva, e poi racconta – che dialoga con naturalezza anche con un altro fondamentale film degli ultimi anni, Saint Omer di Alice Diop, doppiamente premiato a Venezia 2022 (con il Leone d’argento – Gran premio della giuria e con il Leone del futuro all’opera prima, essendo l’esordio nel lungo di finzione di un’autrice finora esclusivamente documentarista). Pure ispirato a una storia veramente accaduta, Saint Omer ha come oggetto dell’indagine un infanticidio, in questo caso effettivamente portato a termine dall’imputata Laurence che ha abbandonato sulla spiaggia, alla risacca, la figlia di 15 mesi. Di nuovo, l’impianto procedurale è centrale, di nuovo si lavora attorno a un assenza di visibile, per provare a portare alla luce le costruzioni e le costrizioni – sociali, culturali, personali – che non si vedono, cui qui si aggiungono le dimensioni della migrazione, dello sradicamento, del pregiudizio razziale. Di nuovo, ci si muove attorno ai confini di una “maternità mostruosa”, nello scarto tra il framing condiviso e accettato della genitorialità, e la realtà singolare, specifica e imprendibile dell’esperienza stessa. Di nuovo, resta qualcosa d’inconoscibile (il richiamo alla stregoneria riappare anche in Senza prove, quando l’avvocata Sophie trova degli studi che ipotizzano tra le motivazioni della negazione di gravidanza le conseguenze di traumi familiari e generazionali; «ci mettiamo anche a parlare di fantasmi, adesso?» ribatte spazientito il “pragmatico” collega maschio).
In ogni caso – come anche in La ragazza con il braccialetto, remake francese dell’argentino Acusada, storia di una giovane incolpata di aver ucciso un’amica, sospettata anche perché la sua reazione all’accaduto non è conforme a quanto ci si aspetta da una ragazza; e come, dicevamo, all’opposto in Mon crime, dove il ruolo predestinato di vittima è indossato dalla protagonista con spregiudicatezza – non è un caso se la dimensione del tribunale si rivela così adeguata, e ricorrente, in opere dall’anima femminista, desiderose di svelare tra le altre cose le strutture sociali patriarcali che costringono facilmente, con frequenza, le donne sul banco degli imputati. Il tribunale è un palcoscenico (di nuovo, lo esplicita Mon crime, anche nella messa in scena), il dibattimento una questione d’interpretazioni («non è questo il punto» risponde l’avvocato di Anatomia di una caduta all’affermazione di Sandra «non l’ho ucciso») e conformarsi alle aspettative, aderire alle norme è più efficace e utile che dire verità, mentre sfuggire o contraddire gli stereotipi è complesso e, soprattutto, rischioso.
Una condizione che, si potrebbe dire, rispecchia in generale quella femminile tout court (e non dimentichiamo quanto, nella storia italiana, la mediatizzazione di certi processi abbia contribuito immensamente al cambiamento culturale dell’immagine della donna, pensiamo a Processo per stupro, o a quello per il massacro del Circeo). Difficile non ricordare il citatissimo monologo dell’avvocata Laura Dern in Storia di un matrimonio, peraltro un titolo che Justine Triet ha indicato come ispirazione per Anatomia di una caduta: «Amiamo i padri per le loro imperfezioni, ma la gente assolutamente non accetta gli stessi fallimenti nelle madri. Non li accettiamo strutturalmente, e non li accettiamo spiritualmente… Il modello è la vergine Maria, una vergine che partorisce! Dio è il padre, e nemmeno si presenta…». O, scivolando ancor più verso la satira scoperta, l’episodio della sketch comedy 12 Angry Men Inside Amy Schumer (su YouTube è al momento disponibile solo la prima parte), impeccabile parodia di La parola ai giurati in cui una giuria di soli uomini deve raggiungere un verdetto sul tema “Amy Schumer è abbastanza scopabile per apparire in tv?”. È uno sketch comico, un lungo gag, ma le frasi utilizzate sono le stesse che ogni giorno tutti (non solo gli uomini) ci rimbalziamo, più o meno consapevolmente sottoponendo le donne a un giudizio continuo. Non è difficile riconoscersi – in Claire, in Sandra, in tutte le altre –, e scoprirsi d’improvviso sul banco degli imputati. ALICE CUCCHETTI
Il C-Movie Film Festival si svolgerà a Rimini dal 20 al 23 marzo, potete trovare tutte le informazioni qui. Ci sarà anche Singolare, femminile: sabato 23 marzo alle 17, Alice Cucchetti parteciperà alla presentazione del progetto di ricerca Registe nello specchio della stampa, in cui si analizzano vent’anni di recensioni di film a firma femminile.
Era l’unica donna candidata quest’anno al premio Oscar per la miglior regia, ha portato a casa – in coppia col compagno e collega Arthur Harari – la statuetta per la miglior sceneggiatura originale, naturalmente per Anatomia di una caduta, già Palma d’oro 2023. Proprio in occasione del trionfo a Cannes, sul n. 23/2023 di Film Tv, il direttore Giulio Sangiorgio indagava il cinema di Justine Triet, in un articolo che qui vi riproponiamo (del film e delle autrici in Croisette aveva parlato anche Ilaria Feole su Singolare, femminile n. 96).
Under the Triet
Sostenendo il movimento di protesta contro la riforma delle pensioni, denunciandone la repressione, e indicando l’orientamento neoliberalista di un governo che vuole uccidere l’«eccellenza francese», Justine Triet, classe 1978, ritira la Palma d’oro per Anatomie d’une chute. Ma non si deve pensare che questo slancio politico, questo rapporto con la piazza, sia episodico e strumentale, un abito a festa, la posa engagé di una regista di cui in Italia, a ora, sono state distribuite solo due commedie borghesi, Tutti gli uomini di Victoria e Sibyl - Labirinti di donna. Già le scarse fonti relative ai primi lavori, ideati tra l’École des beaux-arts di Parigi e il post diploma a quella di Lione parlano di uno studio della lotta politica (soprattutto per L’amour est un chien de l’enfer, 2004, titolo rubato a Charles Bukowski). E i film che abbiamo visto confermano: Sur place (2007), il primo ad avere avuto diffusione festivaliera, è un doc d’osservazione sulle manifestazioni contro il CPE, assurdo contratto di flessibilità lavorativa (poi ritirato dal governo Chirac). Un primo piano di un giovane, per cominciare, e poi il movimento del popolo in rivolta, lo studio coreografico di una folla. Solférino (2008), 45 minuti in bianco e nero sulla massa d’elettori di Ségolène Royal, è uno sguardo sensibile sulla calca fuori dal quartier generale del partito socialista, durante le due tornate di voto elettorale (che porteranno la candidata a perdere contro Nicolas Sarkozy): uno dei punti su cui Triet si concentra, come un primo piano tra le comparse, è quello relativo al lavoro di cronaca dei giornalisti televisivi, della loro fatica del ridurre a parole, del disagio nello stagliarsi dalla massa. A chiudere la prima parte della carriera, coerente e coesa, è una postilla brasiliana, Des ombres dans la maison (2009), film di 58 minuti girato nella periferia di Sao Paolo, un doc in cui segue un adolescente, la madre alcolista e la loro assistente sociale anche ministro di Cristo, con tanto di colmissima chiesa. Un film in cui la massa e il retore, il politico e il privato, cambiano solo nazionalità e ideologia, ma disegnano il medesimo movimento, le stesse tensioni che a Triet interessano in tutto lo spettro di sfumature. L’esordio nella fiction è del 2012, con Vilain fille, mauvais garçon, 31 minuti di isterica commedia fuori orario, una cosa apparentemente completamente diversa, un boy meets girl tra neo bobo parigini, feste, parole prima dell’alba, chat-roulette, con protagonisti Laetitia Dosch e il pittore Thomas Lévy-Lasne. Premiatissimo, il corto è solo l’assaggio del successo a venire. L’esordio nel lungo è del 2013, La bataille de Solférino, a Cannes all’ACID e tra i dieci migliori film dell’anno secondo i “Cahiers du cinéma”, un film sintesi tra quel che è stato e quel che sarà: Laetitia (Dosch, ancora protagonista) è una di quelle giornaliste su cui Triet s’era soffermata nel doc del 2008, giovane madre di due figlie che durante la snervante copertura delle elezioni (che vedono vincere François Hollande) deve tenere insieme il proprio privato e confrontarsi con le ragioni del marito da cui è separata (un Vincent Macaigne al meglio di se stesso), mentre tutto intorno è folla desiderante, esigente, opprimente, come fosse il correlativo oggettivo del caos che la muove, la blocca, la confonde. Del 2016 è Tutti gli uomini di Victoria, apertura alla Semaine, storia d’una Virginie Efira sull’orlo di una crisi di nervi, ancora madre single di due figlie, avvocato penalista che sceglie di difendere un amico accusato di tentato omicidio dalla compagna, mentre il suo, di marito, raggiunge un aleatorio successo da blog saccheggiando la sua vita e diffondendola pericolosamente per autofiction. Così come con Dosch, anche con Efira gira un secondo film, Sibyl (2019), a Cannes questa volta in Concorso, storia d’una analista che sfrutta il rapporto terapeutico con una giovane attrice in crisi (Adèle Exarchopoulos) per trovare, anche qui, materia da romanzo. È chiaro, da questi film cerebrali e raffinati, tanto apparentemente lontani dagli esordi doc, che a Triet interessi la pressione (fino al vampirismo letterario) del sociale sull’individuo, la moltitudine dei tribunali pronti a giudicare, la (a)sincronia con la massa, l’agonia nel trovare il proprio peculiare, personale, movimento. Non è tanto una questione di femminile. È solo che sono le attese e le pretese sulla donna, quelle che conosce, sono quelli i discorsi che informano il reale con cui si deve confrontare. E sono quelli da cui deve difendersi la protagonista di Anatomie d’une chute (Sandra Hüller, già in Sibyl): non tanto dall’accusa di omicidio del marito, quanto dai moralismi con cui la aggrediscono, dai semplicismi con cui cercano di chiuderla in dinamiche precostituite, seriali, socialmente certificate, noncuranti dell’equilibrio singolare di ogni persona e di ogni coppia, incapaci di separare donna da ruolo, esistenza da narrazione, contingente da senso comune. La Victoria di Efira lo aveva detto chiaramente: «Trovo misogino che una donna debba essere vista solo come una vittima». Per questo il finale di questa Palma d’oro processuale (che parafrasa Preminger e ne ricalca la lunga durata) è incredibilmente ambiguo, in modo netto e poco riconosciuto dalla critica (che lo ha semplificato, naturalmente: Triet vince anche in questo senso). Ma di questo, ovviamente, parleremo quando anche voi lettori avrete visto il film, comprato da Teodora, l’apice di un lavoro dedito all’attrito tra il funzionamento del singolo e la coreografia prevedibile della commedia umana. GIULIO SANGIORGIO
Lo scorso 8 marzo, in occasione della Giornata internazionale della donna, è cominciato un ciclo di appuntamenti di Fuori orario – Cose (mai) viste intitolato F for femmine, che proseguirà fino al 14 aprile. Potete recuperare su RaiPlay la prima nottata, dedicata ad Annabella Miscuglio, e la seconda, con Reponse de femmes di Agnès Varda e Je, tu, il, elle di Chantal Akerman. Si proseguirà nelle prossime settimane con un programma fitto e multiforme: film, programmi televisivi (I mille volti di Eva, realizzato dalla nostra Mariuccia Ciotta) e lavori teatrali (Motus, Deflorian Tagliarini). Ne riparleremo.
Sempre in occasione dell’8 marzo, è approdato su MUBI uno dei film per noi più importanti del 2023, Notre corps – Our Body di Claire Simon, che nelle sale italiane era passato solo per un brevissimo tour, e che c’immerge rompendo ogni tabù nel reparto ginecologia di un ospedale parigino. Sempre su MUBI è disponibile anche la rassegna La luce giusta, dedicata alle direttrici della fotografia, una delle professioni del cinema che – più ancora di quella di regista – rimane enormemente dominata dagli uomini. Tra i film della raccolta, anche il bellissimo Cameraperson della DOP Kirsten Johnson, auto indagine dell’autrice sulla propria professione.
Si svolge a Milano, dal 15 al 24 marzo, l’edizione n. 31 di Sguardi altrove – Women’s International Film Festival. Il tema di quest’anno è “Il corpo delle donne”; a Emma Dante sarà consegnato il premio Le forme del cinema.