Singolare, femminile ♀ #126: This is (not) a love story
È in sala dalla scorsa settimana Past Lives, esordio alla regia cinematografica della drammaturga Celine Song, interpretato da un’ottima Greta Lee. Candidato agli Oscar per il miglior film e per la sceneggiatura originale, racconta di possibilità e di memoria, di vite passate e scissioni interiori. E d’amore, naturalmente.
Aspirante drammaturga, Nora – nata in Corea, emigrata da ragazzina con la famiglia in Canada, e ora impegnata a perseguire la carriera artistica a New York – sta per partire per una residency letteraria a Montauk. Hae Sung, suo ex compagno di scuola che vive ancora a Seoul, non sa dove si trovi. «Hai mai visto Eternal Sunshine of the Spotless Mind?» gli chiede Nora, e alla risposta negativa gli suggerisce di recuperare il film di Michel Gondry (a noi italiani noto anche per una titolazione tanto brutta da esser diventata proverbiale, Se mi lasci ti cancello). Montauk, una cittadina costiera nel nord dello stato di New York, è per i protagonisti di Eternal Sunshine of the Spotless Mind Joel e Clementine un luogo reale che si trasforma in memoria, e che poi fa il percorso inverso, esce dalla memoria per ritornare luogo tangibile, per farsi di nuovo vero. «Meet me in Montauk», la semplice frase appena sussurrata da Clementine prima di scomparire dalla mente di Joel, capace di insinuarsi sotto le pieghe dell’inconscio, sfuggendo chissà come ai “cancellatori” di ricordi, può evocare brividi di commozione negli spettatori appassionati del film di Gondry (e dello sceneggiatore Charlie Kaufman): sulla spiaggia di Montauk Joel e Clementine si sono incontrati per la prima volta, e sul treno per Montauk si conoscono di nuovo, dimentichi l’uno dell’altro, nella sequenza che significativamente coincide con l’incipit del film.
Nora e Hae Sung sono i protagonisti di Past Lives, il film d’esordio della regista coreano-canadese Celine Song, nelle sale italiane dallo scorso 14 febbraio, a circa un anno di distanza dalla presentazione al Sundance e alla Berlinale 2023. È candidato a due premi Oscar, e tra i più importanti: miglior film e miglior sceneggiatura originale; ha raccolto un plauso critico molto vasto, ed è al momento in testa al box office italiano. Al di là di Montauk e della citazione diretta, non è difficile individuare delle corrispondenze tra Eternal Sunshine of the Spotless Mind e Past Lives, nonostante i generi diversi – il primo ha elementi sci-fi e messa in scena a tratti pirotecnica, il secondo è un “piccolo” dramma, intimo e realista – e la diversa trama. La memoria e le possibilità dell’amore sono al centro di entrambi i racconti. Nel film di Gondry, Joel e Clementine, dopo una brutta rottura, decidono di cancellarsi a vicenda dai ricordi l’uno dell’altra, grazie a una procedura fantascientifica, ma finiscono, nonostante tutto, per ritrovarsi e in qualche modo “riconoscersi” nonostante la memoria svuotata. In Past Lives Nora e Hae Sung non hanno mai avuto la possibilità di scoprire se il primo batticuore provato da ragazzini avrebbe potuto portare a una relazione duratura o matura: Nora ha lasciato la Corea, con i genitori e la sorella, a 12 anni, e quando, ventiquattrenne, ha ritrovato Hae Sung grazie ai social network il loro rapporto non si è mai evoluto oltre le – molte – chiacchiere via Skype attraverso i continenti e i fusi orari.
Il film di Celine Song ha una struttura tripartita, con il numero 12 a scandire la distanza, e gli atti: Nora ha, appunto, 12 anni quando lascia Seoul per il Canada, e 12 anni passano tra l’ultimo saluto “di persona” tra lei e Hae Sung ragazzini e il loro primo contatto online da ventenni; altri 12 anni, infine, trascorrono prima dell’incontro finale, da adulti, una manciata di giorni in cui Hae Sung visita New York, soprattutto per poter «vedere Nora ancora una volta». Ma – come Eternal Sunshine of the Spotless Mind – Past Lives ha un incipit che narrativamente e cronologicamente corrisponde alla fine della storia che ci sta raccontando. Nel film di Gondry e Kaufman la struttura circolare (che, a una prima visione, è tale all’insaputa dello spettatore) rinforza l’allineamento tra il pubblico e l’esperienza di Joel (che, quando incontra Clementine sul treno per Montauk, pensa di vederla per la prima volta) e insieme funziona da meta-commento sul senso più profondo – o uno dei sensi – della vicenda: la natura ciclica delle relazioni, la tendenza a riprodurre le stesse dinamiche di coppia, a ripetere gli stessi errori – e, anche, la testardaggine, la fiducia cieca e folle con cui ci si affida all’altro, pur con la consapevolezza che potrebbe ferirci o distruggerci. Ormai diventato un indiscutibile cult “romantico”, Eternal Sunshine of the Spotless Mind ha un’anima dolceamara e una componente metatestuale molto forte, è (soprattutto?) una decostruzione in forma di fiction dei modi in cui raccontiamo l’amore e le relazioni sentimentali.
Past Lives esibisce questa stessa qualità autoriflessiva, facendosi forza del fatto che due su tre dei suoi protagonisti sono scrittori: Nora, si diceva, è una drammaturga, mentre Arthur – il marito: ancora non l’avevamo nominato, e d’altronde compare solo nel secondo atto, letteralmente entrando nella scena, e nella vita di Nora, dal fondo del “palcoscenico” – è un romanziere. È proprio lui a esplicitare in un dialogo quale sarebbe la storia perfetta, quella iper romantica dei due innamorati bambini che, dopo vent’anni di separazione si ritrovano, attraverso oceani e continenti, e coronano il proprio sogno di una vita insieme. «Nella storia io sarei il cattivo marito bianco americano che si oppone al destino. Sono il tipo che nella storia molli quando il tuo ex amante arriva a portarti via». Il modo in cui questa stessa conversazione viene messa in scena, nell’intimità notturna del letto matrimoniale, poco più che sussurrata nella restituzione della quotidiana familiarità di coppia, basterebbe però da solo a ribaltare secoli di “storytelling romantico”: Arthur non sta interpretando il “marito geloso”, ma confessando alla compagna le proprie paure più profonde con un’onestà che – lo intuiamo – è parte fondante, e abituale, del loro rapporto.
Più o meno sfacciatamente, la consapevolezza meta di Past Lives ci porta a interrogarci: quanto la narrazione che facciamo, anche e soprattutto collettivamente, dell’amore influenza il modo in cui lo viviamo e lo interpretiamo? La domanda è posta già nella prima scena, in quel già citato prologo: le voci fuori campo di osservatori sconosciuti si chiedono, osservando Hae Sung, Nora e Arthur al bancone di un bar, «chi sono queste persone l’una per l’altra?», e Greta Lee (l’ottima interprete di Nora) rompe la quarta parete, guardando in camera, chiamandoci direttamente in causa, sfidandoci a trovare la nostra risposta.
In più interviste, Celine Song spiega che, in effetti, non esistono parole per definire i rapporti tra questi personaggi, per riassumere la relazione tra Nora e Hae Sung – non sono ex amanti, perché la loro love story non si è mai concretizzata, ma non possono nemmeno dirsi amici – e nemmeno quella tra Hae Sung e Arthur – non sono in alcun modo rivali, nonostante quello che la “dinamica” del triangolo vuole sempre, a tutti i costi, suggerirci. Quel che Past Lives racconta, con una precisione di scrittura e una sicurezza di messa in scena davvero impressionanti per un esordio cinematografico (Song è, come Nora, sceneggiatrice teatrale), sono due storie d’amore, e due vite (della protagonista), come suggerisce anche il plurale nel titolo. Una sempre in potenza, e che infatti esiste in piani di realtà sfalsati rispetto al vero: nei ricordi d’infanzia, nell’incorporeità fantasmatica delle comunicazioni online, e infine nei percorsi di una New York esclusivamente edificati per i turisti, la crociera nella Baia, il Jane’s Carousel di Brooklyn, la passeggiata per rimirare la poderosa skyline di Manhattan (la fotografia attenta e significante dello spazio urbano è uno degli aspetti cruciali del film, basta pensare anche al “saluto al bivio” tra Hae Sung e Nora bambini). Come quasi sempre accade, nell’idealizzazione del what if si annida l’inevitabile pathos romantico, ma l’altra storia d’amore raccontata da Past Lives è, almeno per chi scrive, non meno intensa e struggente: quella tra Nora e Arthur, che esiste nel piccolo e vissuto appartamento del Village, nei gesti silenziosi, negli incroci ai semafori attraversati tutti i giorni, nelle conversazioni notturne tra le lenzuola, nello sforzo quotidiano di conoscersi e capirsi, nell’attendersi e nell’esserci.
Nel terzo, e più lungo, segmento di Past Lives, Celine Song opera dunque una quieta sovversione delle aspettative narrative, offrendoci la prospettiva di un nuovo sguardo sull’amore. E sulla soggettività: questa è la storia di due amori, sì, ma è anche, prima di tutto, la storia di una donna, e di come il suo passato (il titolo può significare sia “vite passate” sia “il passato vive”) informa la persona che è, il suo presente, il suo futuro. La genesi del film, ha rimarcato più volte la regista, è autobiografica, nata da una situazione in cui Song si è trovata davvero, molto simile a quella con cui si apre il film: seduta in un locale tra il marito americano e la cotta infantile coreana, traduceva all’uno le frasi dell’altro, e viceversa. “Divisa”, “scissa”: non fra due amori, ma fra due sé. In questo aspetto, naturalmente, Past Lives trova la rappresentazione lucidissima di una condizione specifica, quella della migrazione: nonostante la cosiddetta integrazione, chi ha lasciato il paese natale per un nuovo mondo finisce per conservare sempre almeno una minima parte di sé in sospensione tra l’uno e l’altro universo, tra il passato nella terra d’origine e il presente e il futuro in quella/quelle d’elezione (e negli ultimi anni, con le seconde e terze generazioni che finalmente hanno almeno un parziale accesso all’industria cinematografica, abbiamo visto diversi film esplorare questi territori, da The Farewell di Lulu Wang a Red di Domee Shi a Ritorno a Seoul di Davy Chou).
Nella raffigurazione, intrisa d’autenticità, di un’esperienza specifica (di ispirazione autobiografica, come si diceva), Celine Song trova infine un’universalità illuminante – sì, anche nelle difformi interpretazioni che raccoglie il suo film: i migliori film d’amore, viene da pensare, sono quelli che riescono a leggere e farsi leggere dall’esperienza del singolo spettatore, legando l’irriducibile irraccontabilità del sentimento alla storia personale di chi guarda (e d’altra parte anche Eternal Sunshine of the Spotless Mind si offre a interpretazioni discordanti). L’universalità di Past Lives sta nel mostrarci quanto, oltre che dalle nostre esperienze e dalle nostre scelte, siamo fatti anche dai nostri amori, dalle nostre relazioni, dalle scelte degli altri: la “scissione” che Nora esperisce, seduta a quel bancone del bar, non è quella tra due futuri possibili, con l’uno o con l’altro uomo, ma, come si diceva, quella tra le due versioni di sé che legge negli occhi e nei gesti dei compagni, per ognuno dei quali lei stessa è un mondo differente e alieno. Il filo conduttore dell’in-yun, concetto intraducibile, viene assimilato al “destino”, ma, come spiega Nora mentre si innamora di Arthur, è qualcosa di diverso: le interazioni che due anime hanno avuto nel corso delle loro vite passate le portano, un’esistenza dopo l’altra, ad avvicinarsi sempre più, fino a diventare “gemelle”. O, ci viene da dire, fino a diventare se stesse: come si dicono Hae Sung e Arthur, quando finalmente si parlano senza Nora presente, anche loro sono “in-yun”, anche loro sono diventati, incontrandosi, qualcosa d’altro. O “più se stessi”. ALICE CUCCHETTI
Abbiamo dedicato a Past Lives il n. 6/2024 di Film Tv, con una copertina disegnata per noi da Elisa Menini. Lo scorso autunno, alla Festa del cinema di Roma, Fiaba Di Martino ha intervistato Celine Song: vi riproponiamo la loro chiacchierata (sullo stesso numero trovate anche un’intervista con John Magaro, l’interprete di Arthur).
Brevi incontri - Intervista a Celine Song
Passato ormai quasi un anno fa al Sundance, dove ha vinto il premio del pubblico, presentato in Concorso alla Berlinale 2023, fresco di doppia nomination agli Oscar 2024 (miglior film e miglior sceneggiatura originale), eletto ora Film della critica dal SNCCI e in sala dal 14 febbraio 2024, Past Lives, debutto nel lungometreggio di Celine Song, è un’opera già nitidamente d’autrice, segnata da una precisa comprensione del mezzo espressivo e da una maturità artistica piena. Sudcoreana, 35 anni, la regista viene dal teatro (e da un curioso esperimento con Anton Cechov e The Sims) e gioca, qui, con un terzetto d’interpreti abbagliante, imbastendo un triangolo amoroso antitetico che schiva ogni potenziale tifoseria e un mélo dalle rotte sorprendenti. L’abbiamo incontrata alla scorsa Festa del cinema di Roma.
Sappiamo che la storia – anzi, le storie – di Past Lives germogliano dalla tua esperienza personale. Ma è una sensazione, prima che un’informazione: il tuo è un film che pulsa quasi letteralmente di vita altrui, in cui ogni immagine è rappresa di un’intimità che fa quasi sentire scoperti.
Volevo che questo film funzionasse così, come un viaggio quasi sensoriale nella pelle e nella memoria. Sì, è un lavoro che si origina dal mio vissuto, il fatto però è che quando scrivi una storia del genere, quando “passi all’azione” della pagina scritta, ti ritrovi naturalmente a doverla oggettivare, a ordinarla, a introdurvi un senso compiuto, a organizzare i dialoghi, i moduli narrativi... A quel punto non è più la tua storia ma un oggetto in evoluzione, perché poi quando si passa alla fase della pre-produzione, del set e delle riprese, non esisti più soltanto tu e la pagina bianca. La storia si espande, facendo un passo ulteriore verso una nuova prospettiva, lo vedi cioè come qualcosa al di fuori di te e viene meno quel senso di appartenenza esclusiva, entrano in gioco altre persone, gli attori, la troupe... Poi, quando il film esce e inizia a girare il mondo, io che lo sto accompagnando di nazione in nazione e di cinema in cinema mi confronto con le reazioni differenti che suscita, ed ecco che riemerge la dimensione più soggettiva, e posso tornare ad avere una interazione intima con il film, mi ci ri-identifico, è la fase che trovo più bella e soddisfacente.
Benché il film, come tu hai ricordato, sia un’esperienza intima, si apre con uno sguardo esterno, le voci fuori campo che intuiscono i rapporti fra i protagonisti potrebbero essere del pubblico, spettatore casuale di un momento che non sappiamo ancora essere cruciale...
Ci tenevo che fosse questo il prologo, con Nora mentre rivolge al pubblico un’occhiata che non sottende un mistero quanto un invito a fare un passo avanti, a entrare in questa scena così privata ponendosi la domanda che è poi il punctum del film, cioè: chi sono queste persone l’una per l’altra, in che rapporti sono questa donna e questi due uomini seduti al bancone di un bar? Insomma, è come se con questa introduzione scritturassi il pubblico affinché diventi una sorta di detective “sentimentale” e si muova fra le immagini per capire cosa sta succedendo fra loro. L’idea mia era che successivamente, nel momento in cui nell’ultimo atto del film si torna a quella scena e gli spettatori hanno accumulato le informazioni decisive, si può tornare anche a porsi lo stesso quesito, comprendendo però come in realtà non ci sia una risposta, perché non esiste una parola che esaurisca la relazione fra Nora e Hae Sung. Non possiamo dire che sono ex amanti, perché si sono conosciuti da ragazzini, quindi troppo presto per sentirsi tali e già troppo tardi per diventarlo; ma non sono nemmeno amici, perché gli amici hanno una confidenza diversa, e sono stati separati per troppi anni per riuscire a costruirla. Ma nemmeno sono due estranei, perché tra loro c’è una connessione profonda eppure indefinibile. Lo stesso vale per il rapporto tra Arthur e Hae Sung, che non sono né amici né nemici, non sono rivali né due perfetti sconosciuti... Alla fine questo mistero non può essere risolto davvero, e chi sono loro gli uni per gli altri è spiegabile soltanto attraverso il concetto di in-yun (che significa “providenza” o “destino”, ed è un legame che unisce due persone nel corso della loro vita, ndr).
Entrambi i protagonisti idealizzano il sentimento mancato fra loro, che tuttavia per Hae Sung è unicamente un amore impossibile, puro e mai finito, per Nora invece c’è in ballo qualcosa di più grande: ha costruito un’altra sé, in un altro mondo, e lui simboleggia un’intera esistenza mai vissuta e per sempre perduta, una vita passata nel senso di sfuggita, non realizzata. Il titolo in questo senso si può tradurre come “Vite passate”, ma forse anche come “Il passato vive”...
(Attenzione: spoiler!) Assolutamente sì, credo che “love story impossibile” sia un modo troppo facile di inquadrare il film, e “triangolo amoroso” un’altra etichetta superficiale. Invece Past Lives parla soprattutto della scelta di Nora, ciò che ha deciso di diventare, quella medesima scelta che si rinnova alla fine del film. È il tema principale del racconto, un’accettazione interiore che ha bisogno di completare. In fondo, dal primo momento in cui la incontriamo ciò che sta cercando di fare è trovare il modo di dire addio a questo ragazzino incontrato da piccola, che all’epoca ha cercato di salutare, e poi ancora, ma senza mai riuscirci davvero. La sua è la storia di un addio mancato e della difficoltà di renderlo reale, ed è la storia di un addio a se stessa, alla dodicenne che è stata quando ha lasciato la Corea. Per questo nella sequenza conclusiva, mentre Nora e Hae Sung stanno aspettando il taxi, a un certo punto c’è un flashback del momento in cui Nora bambina sta per partire, lei e Hae Sung si guardano e non si dicono nulla, e volevo che quella stessa scena con loro adulti avvenisse all’oscurità, di notte, perché questi due ragazzini hanno aspettato 24 anni per dirsi addio, per salutarsi come volevano: un’eternità. Sulla strada di casa, poi, Nora può finalmente piangere, perché è riuscita a dire addio alla bambina che si è portata dietro per tutto quel tempo, e dunque a liberarsi. Tutti e tre i protagonisti di questo non-triangolo ottengono una catarsi, proprio grazie a questo addio: Hae Sung finalmente scopre chi è diventata la ragazzina che ha sempre amato, Nora esaudisce questo desiderio di separazione dall’infanzia dopo averla incontrata – Hae Sung l’ha riportata da lei – e nel suo pianto c’è il riconoscimento a lungo agognato di quanto si è lasciata alle spalle. E anche Arthur ha una sua chiusura del cerchio, perché guadagna infine la possibilità di conoscere davvero sua moglie – per lui una ferita non poterlo fare a 360°, se ti ricordi le confessa con un forte struggimento «tu sogni in una lingua che non posso capire...». Invece, ecco che può incontrare questa ragazzina che «piangeva sempre» – mentre la “sua” Nora non lo fa mai! – e nel vederla specchiata in sua moglie è finalmente anche lui invitato e accolto in una dimensione che non aveva mai conosciuto. Dunque, per me, quel finale di silenzi e lacrime è un lieto fine per tutti e tre. FIABA DI MARTINO
Past Lives è targato A24, la casa di produzione indipendente di maggior successo negli ultimi anni (coronato l’anno scorso dal trionfo agli Oscar di Everything Everywhere All at Once); ha prodotto anche l’ultimo film di Sofia Coppola, Priscilla, che finalmente arriverà nei cinema italiani il 27 marzo. Nell’ultima puntata dell’A24 Podcast potete ascoltare (o leggere il transcript di) una lunga conversazione proprio tra le due cineaste. [in inglese]
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