Singolare, femminile ♀ #125: Le regole dell'attrazione
Buon San Valentino! Proprio oggi esce in sala La natura dell’amore, ultimo film da regista di Monia Chokri, autrice canadese, già attrice affermata (per esempio, per Xavier Dolan). L’abbiamo intervistata per questo numero della newsletter che naviga tra passioni irresistibili e celebrazioni della commedia romantica.
Québécois, classe 1983, i tratti misteriosi e malinconici e le labbra rosso fuoco di Monia Chokri sono impressi graniticamente nella memoria cinefila collettiva da oltre un decennio, da quando si dibatteva negli amori immaginari di Xavier Dolan. Passata alla regia (La femme de mon frère, 2019, e Babysitter, 2022), Chokri ha raccontato nevrosi, conflittualità e sogni timidi di donne sbilenche e coriacee che inciampano in relazioni e sentimenti ingarbugliati. Come quello che in La natura dell’amore (presentato al Certain regard di Cannes 2023) cattura un’insegnante di filosofia e un falegname; su carta, in superficie e in apparenza una coppia che non può non scoppiare, incompatibile – o forse destinata a divenirlo nel momento in cui Sophia (Magalie Lépine Blondeau) e Sylvain (Pierre-Yves Cardinal) si mettono nel mondo, nel contesto sociale, nella ressa giudicante degli schemi da seguire. Ne abbiamo parlato con l’autrice.
La forma del tuo film, la sua composizione, è concordata con esattezza a ciò che prova la tua protagonista e a ciò che le sta accadendo. Penso alla scena del primo bacio con Sylvain, in parte occultato dallo specchietto dell’auto, o a quella della loro prima volta, con l’immagine dei loro corpi non mostrabile per intero perché “intralciata” dalle assi delle finestre e dal vetro appannato.
La mia idea, riguardo a quella scena, era legata al fatto che all’inizio si tratta di una relazione proibita, visto che Sophia è occupata con qualcun altro; quella passione è un segreto, è vietata. Mi piaceva l’idea che il pubblico, nella scena del primo bacio, provasse l’istinto di piegarsi di lato, sporgendosi per cercare di “vedere meglio” quello che io scelgo invece di tenere nascosto. Prima ancora, nel momento in cui Sylvain fa la sua comparsa, ne intravediamo solo il profilo, la silhouette, a indicare quel tipo di impazienza che ti crepita addosso quando stai per incontrare qualcuno e c’è questa aspettativa particolare, e la tendenza è di assecondare l’immagine che noi proiettiamo, dell’altro, sull’altro. Poi, quando ci si conosce meglio e ci si vede veramente, può succedere che il desiderio vada a consolidarsi e tutto fili liscio, oppure che si caschi in una delusione. Per cui sì, il gesto di nascondere di tanto in tanto la visione di quest’uomo risponde a una doppia esigenza: che le immagini dicessero da sole del proibito, e dell’invenzione che interviene nel momento in cui ci relazioniamo a qualcuno di nuovo.
La natura dell’amore è un’opera molto contaminata, stilisticamente vi si possono rintracciare dosi massicce di Robert Altman, che ho letto essere un tuo riferimento importante; poi mi ha fatto pensare a Fassbinder, per esempio a La paura mangia l’anima, e, sul fronte letterario, anche a Passione semplice di Annie Ernaux...
Altman è un’ispirazione direi fondamentale per me, faccio un uso abbondante degli zoom, dei dolly, è un genere di messa in scena da cui non potrei prescindere, inoltre questo è un film che richiedeva un racconto visivo più fluido, più sensuale, rispetto ai miei due precedenti che avevano più ritmo, erano più sincopati, perché in questo caso contenuto e stile dovevano necessariamente coincidere. A Fassbinder non avevo pensato durante la lavorazione, tuttavia mi è capitato di comprare, mentre mi trovavo a New York, un libro in cui erano stampate una serie di inquadrature tratte da suoi lavori, che mi hanno colpita, e quindi probabilmente quel tipo di sguardo alla fine è penetrato anche in La natura dell’amore. Girando ho pensato soprattutto ai grandi film americani degli anni 70, Love Story e Kramer contro Kramer per i toni e la palette, ho “ripassato” le luci di Un uomo, una donna di Lelouch... Il fatto che i protagonisti siano due quarantenni fa sì che abbiano un rapporto diverso con la passione, la rende in effetti una passione semplice! Ernaux è una scrittrice che adoro, ho letto tutto di lei, sono felicissima che abbia vinto il Nobel perché ritengo che sia stata un’autrice a lungo maltrattata, che abbia subito critiche misogine molto crudeli, per esempio la accusavano di raccontare storie sempre e soltanto riferite alla sua esperienza di vita, come se l’autofiction non avesse il valore che si dà a narrativa più “alta”, mentre io l’ho sempre trovata magistrale nel modo che ha di infilarsi sottopelle rispetto al vissuto femminile.
Sei alla terza collaborazione con Magalie Lépine Blondeau dopo il cortometraggio Quelqu’un d’extraordinaire e il tuo esordio La femme de mon frère. Come hai lavorato con lei e con Pierre-Yves Cardinal? Sono protagonisti di momenti a temperatura intima ed erotica piuttosto intensa.
La complicità fra di loro è scattata subito e in maniera molto forte. Magalie è anche una mia carissima amica, mentre Pierre-Yves aveva interpretato il mio partner in un film quindi sapevo già che era un uomo, e un attore, molto in ascolto, accogliente: dovendo girare delle scene di sesso sapevo che era essenziale poter avere a che fare con due interpreti che si fidassero l’uno dell’altra ma, come ho detto, la chimica fra loro è arrivata naturalmente. Abbiamo provato tanto, come è mio solito, e questo perché durante le prove emergono sempre molte idee, riflessioni, si scava in profondità rispetto a ogni scena. Di norma proviamo già negli interni del film, sul set, e questo permette di creare delle basi forti per gli attori, che hanno modo di connettersi all’ambiente narrativo. Nessuna improvvisazione, invece, mi capita raramente, al massimo durante i contrappunti musicali lascio gli interpreti più liberi di sciogliersi nell’atmosfera, diciamo così.
Le fasi del rapporto tra i protagonisti sono scandite dalle parole di grandi filosofi: Spinoza, Schopenhauer, Jankélévitch... Una struttura molto interessante anche perché tra i due la differenza rilevante è quella socioculturale, e Sophia è abituata, nella coppia come nella collettività, a interagire intellettualizzando tutto, lei come le persone che frequenta, e questa razionalizzazione è il taglio che comincia ad aprire una separazione fra loro due sempre più difficile da suturare...
Ogni volta che comincio a lavorare a un progetto cinematografico faccio sempre riferimento alla filosofia. In questo caso mi sono documentata per capire che cosa avessero detto i filosofi di ogni epoca sull’argomento, e mi sono resa conto che dell’amore avevano parlato ben poco perché è sempre stato considerato un soggetto più letterario che filosofico, perciò quello che vedete nel film e che cita Sophia durante le sue lezioni è in buona sostanza tutto ciò che è stato espresso dai pensatori circa l’amore. Per quanto riguarda questa divisione “cadenzata” dalle loro dichiarazioni, ecco, ci tenevo che il film avesse una struttura semplice, come da titolo originale – Simple comme Sylvain. Letteralmente: a + b = c. Una struttura che però viene gradualmente decostruita man mano che la relazione evolve e viene “commentata” dai filosofi e da Sophie stessa, il cui costrutto mentale deriva proprio dai suoi studi. La teoria che lei applica alla sua vita però si origina da pensieri prodotti da uomini, e di conseguenza è di segno maschile tutto il suo percorso intellettuale. Per questo ho voluto inserire, proprio sul finale, i ragionamenti di bell hooks, donna e afroamericana, un personaggio che ha subito doppiamente l’oppressione degli uomini. Inoltre, porta una brezza inedita, giovane anche, nei discorsi sull’amore; quelli elaborati dai filosofi che Sophie mette in campo durante il film sono più ottusi, c’è una concezione di fatalità contrapposta al pensiero di hooks che è molto diverso e più possibilista.
Anche il finale è possibilista: c’è un’oscurità ma anche una liberazione nella solitudine esperita dalla protagonista, dopo che la coppia, sottoposta al giudizio sociale, si disintegra.
L’amore è un tema universale, ma anche talmente privato che ciascuno può leggere questa storia e questo finale a modo suo, attraverso le sue sensazioni e in base al suo rapporto con il sentimento. C’è chi ha trovato la conclusione estremamente triste, e c’è invece chi ha usato il tuo stesso termine, “liberatorio”. D’altronde Sophia prende coscienza di tutto ciò che è accaduto e c’è del sollievo, in lei... Quando abbiamo girato la scena ho detto a Magalie che il suo personaggio prova sicuramente della tristezza, ma che si sente anche libero, quindi nemmeno lei sapeva con chiarezza che cosa avrebbe espresso, che emozione avrebbe preso il sopravvento o sarebbe coesistita con qualcos’altro, il ventaglio emotivo era ampio, dato che Sophia va verso una situazione incognita, sperimenta una vertigine in questo vuoto nuovo. Per me poi era anche importante raccontare come, per amare gli altri, si debba amare se stessi, e forse è proprio questo che alla fine Sophie riesce a imparare, liberandosi di quelle pressioni che l’hanno soffocata. FIABA DI MARTINO
La festa degli innamorati è per noi l’ottimo pretesto di esplorare un genere cinematografico fondamentale ma troppo spesso bistrattato o sottovalutato, la commedia romantica, frequentemente segnato del doppio pregiudizio che circonda i film leggeri e quelli pensati più direttamente per target femminili. Sul numero di Film Tv in edicola dedichiamo alle rom com un ampio speciale, e quest’anno festeggia 35 anni uno dei titoli più belli, capace di fondare i canoni del filone: Harry, ti presento Sally…, scritto dall’inconfondibile penna di Nora Ephron. Vi riproponiamo l’approfondimento sul film, apparso sul trimestrale Rewind n. 2, dedicato al 1989.
Harry, ti presento Sally…
Harry è Rob Reiner, Sally Nora Ephron. Lui è appena uscito da un tedioso divorzio. Lei si lascia ispirare dalla sua vita e da quella delle sue amiche. Harry è anche un po’ Billy Crystal, grande amico di Reiner, o forse è Crystal a essere un po’ Sally? Chissà: il fatto è che le telefonate a letto, in split screen, puntuali ogni sera, ognuno a guardare gli stessi programmi nella rispettiva tv, sono un’abitudine irrinunciabile di Reiner e Crystal, ai tempi della concezione del film. La celebre scena dell’orgasmo, invece, è tutta di Ephron e Meg Ryan, frutto di una performance ripetuta per svariate ore al Kat’s Delicatessen nell’East Village di Manhattan (c’è ancora: se ci andate trovate un pratico cartello a indicarvi il tavolo preciso). Le bizzarre storie delle coppie che intervallano la narrazione principale sono tutte vere, raccolte da Ephron intervistando membri della troupe. Ed è vera New York, sullo sfondo di questa storia d’amore fatta lievitare per ben 12 anni: tutto è girato on location, inseguendo le stagioni e guardando a Woody Allen. La commedia romantica, di solito, non ha un rapporto troppo stretto col realismo: di base è una fiaba, camuffata nella contemporaneità; qualcuno direbbe che è una truffa per vendere un’ideale irraggiungibile, alimentando aspettative irriducibili su binari narrativi poco malleabili. Il titolo originale When Harry Met Sally… presenta direttamente il più classico degli incipit: un ragazzo incontra una ragazza… e i due s’innamorano. Solo che, quando Harry incontra Sally, i due non s’innamorano per niente: neolaureati, arroganti e insicuri come tutti i ventenni, dall’approccio opposto all’esistenza (cinico lui, ottimista lei), si mal sopportano per il tempo di un viaggio da un lato all’altro del paese e si dicono cordialmente addio davanti all’arco di Washington Square Park. Non s’innamorano neppure cinque anni dopo, quando incappano per caso l’una nell’altro, e sono entrambi felicemente fidanzati. E nemmeno altri cinque anni dopo, quando si incrociano in una libreria, entrambi col cuore in frantumi. Quello che inaspettatamente accade, a questo punto, è che diventano amici: l’esatta eventualità che avevano escluso fin dal principio, per ragioni sia generali («nessun uomo può essere davvero amico di una donna, il sesso si mette sempre di mezzo») sia personali (sono troppo diversi, scherziamo?). Così, senza mai smettere di condurci danzando sui toni familiari della rom com, Harry, ti presento Sally… riscrive le regole rigide del proprio genere d’appartenenza. Harry e Sally non si detestano, se non all’inizio, e non sono forzati a trascorrere insieme il tempo necessario a capire di essere reciprocamente cotti, come da Accadde una notte in poi. Non ci sono ostacoli sociali, incomprensioni, equivoci, amanti, bugie: ci sono solo Harry e Sally, il loro intimo bighellonare per una Manhattan a ogni inquadratura più romantica, facendo cose banali e buffe, quasi da sitcom alla Seinfeld (che in Usa comincia proprio nel 1989). Mettendo a confronto i propri opposti modi d’essere, riflettendosi negli amici Marie e Jess (Carrie Fisher e Bruno Kirby superlativi), la cui love story sfreccia velocissima, agli antipodi della loro. Ed è così che l’amore tra Harry e Sally diventa vero, per loro e per noi, tra una disamina di Casablanca e un’articolata ordinazione al ristorante, tra l’imbarazzo di un karaoke e una chiacchiera notturna, tra dialoghi a orologeria e modi di dire divenuti proverbiali. Dimostrando che sì, alla fine, è proprio vero: un uomo e una donna possono essere amici. ALICE CUCCHETTI
È in testa al box office italiano Povere creature! di Yorgos Lanthimos, Leone d’oro a Venezia 2023 e in corsa all’Oscar (soprattutto per l’interpretazione della sua protagonista Emma Stone). Una rivisitazione di Frankenstein al femminile, con evidente messaggio femminista (anche se non mancano le letture che ne evidenziano le contraddizioni), ve lo consigliamo, e vi segnaliamo alcuni interessanti articoli [tutti in italiano, per una volta!] che lo analizzano: quello di Daniela Brogi su Doppiozero, quello di Giulia Siviero su Internazionale e quello di Cristina Resa su IGN Italia.
Se, nonostante San Valentino, siete allergici alle commedie romantiche (ma comunque fan di Meg Ryan, oppure siete tornati dalla visione di Povere creature! con la voglia di rivedere Mark Ruffalo), potete provare a (ri)guardare In the Cut di Jane Campion, che l’anno scorso ha compiuto 20 anni. Un thriller erotico che, all’epoca dell’uscita, fu largamente incompreso, e poi rivalutato: sul Journal di Letterboxd, trovate un’interessante intervista proprio con Campion, realizzata in occasione del ventennale [in inglese].
Se siete a Milano o nei dintorni, vi invitiamo settimana prossima, il 21 febbraio dalle 19, al Teatro La Cucina, nel parco dell’ex OP Paolo Pini di Affori Nord, dove si terrà la lettura collettiva di L’invincibile estate di Liliana di Cristina Rivera Garza: un romanzo meraviglioso e struggente, che racconta la storia di un femminicidio in modo inedito e sorprendente. Tra le persone che leggeranno estratti del libro, edito da Sur, ci saranno Daria Bignardi, Sara Poma, la sopra citata Giulia Siviero, Giulia Perona e Giulia Cuter di Senza rossetto, e altre. L’ingresso è gratuito.