Singolare, femminile ♀ #124: Cantiamola ancora
Nella settimana più “musicale” dell’anno, lasciamo Sanremo per il West End di Londra, e vi raccontiamo un musical che, già grande successo a Broadway, sta per debuttare nella capitale britannica: Hadestown, frutto del lavoro ultradecennale della cantautrice Anaïs Mitchell e della regista Rachel Chavkin, rilettura della storia di Orfeo ed Euridice in cui il mito si fa politico.
In una bellissima sequenza di Ritratto della giovane in fiamme di Céline Sciamma, tre donne leggono il mito di Orfeo ed Euridice, e ne discutono tra loro. La domestica Sophie lo ascolta per la prima volta e, giunta alla fine, è infuriata, indignata dal comportamento di Orfeo: per quale egoismo, o debolezza, o stupidità non ha saputo resistere appena qualche passo in più, prima di voltarsi, condannando così Euridice a una seconda e definitiva morte? La pittrice Marianne (la co-protagonista, e il punto di vista del film) compie un primo scarto, identificandosi con Orfeo, che, come lei, è un artista: ha preferito, dice, «la memoria di Euridice», ha fatto «non la scelta dell’amante, ma quella del poeta». È però Héloïse, la controparte di Marianne, il soggetto del dipinto che sta realizzando, teoricamente la sua “musa”, a effettuare il definitivo ribaltamento di prospettiva: forse, suggerisce, è stata proprio Euridice a chiamare Orfeo, a far sì che si girasse a guardarla. L’unico modo per lei di diventare “parte attiva”, di compiere una scelta, di determinare il proprio destino, fosse anche di morte – e di partecipare all’opera d’arte insieme al poeta, di creare il mito, consegnandosi all’immortalità.
Tra le tante leggende della mitologia greca destinate a diventare motivi narrativi e filosofici ricorrenti nei millenni a venire, quella di Orfeo ed Euridice è una delle più persistenti. Anche perché, nonostante contenga alcuni elementi culturali specifici e ricorrenti della Grecia classica – il destino ineludibile e beffardo, l’hybris umana che porta alla tragedia – conserva, come esemplifica la scena di Ritratto di una giovane in fiamme, un nucleo di mistero mai completamente districabile. La vicenda è nota: Orfeo, figlio della musa Calliope (la musa della poesia, «dalla bella voce»), è il più grande cantore e musicista che abbia mai camminato sulla Terra. S’innamora della giovane e bella Euridice, ma la loro è una felicità breve: la ragazza muore, morsa da un serpente (in alcune versioni, per fuggire all’aggressione del figlio di Apollo Aristeo). Orfeo decide allora di scendere agli Inferi, e chiedere ad Ade di restituirgli l’amata: con il suo meraviglioso canto, accompagnato dalla lira, riesce a superare tutti gli ostacoli (compreso addormentare il temibile Cerbero) e infine a commuovere gli dei dell’aldilà (perfino le Erinni!). Ade e Persefone gli consentono di tornare in superficie con Euridice, ma ad una condizione: lui dovrà camminare davanti a lei, senza mai voltarsi, fino all’uscita. Proprio sulla soglia, Orfeo cede alla tentazione e si volta, perdendo l’amata per sempre. Ed è proprio qui il nodo cruciale: perché? La risposta si presta a infinite speculazioni e interpretazioni, e determina una continua rilettura (e riscrittura) del mito, che si scopre così insieme eterno e infinitamente malleabile.
La cantautrice statunitense Anaïs Mitchell ha una spiegazione molto diversa da quelle delle protagoniste di Ritratto di una giovane in fiamme, ma non meno potente ed evocativa: attorno alla rielaborazione del mito di Orfeo ed Euridice ha costruito un progetto lungo decenni e culminato in uno dei musical teatrali più belli e di maggior successo degli ultimi anni, Hadestown. Lo spettacolo è formalmente in scena a Broadway dal 2019, e dal 10 febbraio debutta anche da questa parte dell’Oceano, al West End di Londra. Ma la sua storia comincia molto prima, addirittura nel 2006. Anaïs Mitchell, classe 1981 e originaria del Vermont, è prima di tutto una cantautrice folk: inizia la propria carriera a 17 anni e a 22, nel 2004, pubblica il primo album, Hymnes for the Exiled, e attira l’attenzione della songwriter e attivista Ani DiFranco, che la accoglie sotto l’ala della propria etichetta discografica Righteous Babe Records. Nel 2006 presenta la prima bozza di Hadestown, che definisce una “folk opera” e che in due diversi “allestimenti” essenzialmente molto DIY, quell’anno e il successivo, gira il Vermont a bordo di un autobus trasformato in palcoscenico itinerante. Nel 2010 Hadestown diventa un concept album, e ad ascoltarlo si rintracciano già in modo cristallino il cuore e lo scheletro del futuro musical, non solo nelle canzoni principali: i diversi “ruoli” sono già assegnati a voci diverse, con la stessa Mitchell in quello di Euridice, Justin Vernon dei Bon Iver in quello di Orfeo e Ani DiFranco in quello di Persefone – o meglio, visto che naturalmente i nomi sono anglicizzati, Eurydice, Orpheus e Persephone (in una “chiusura” del cerchio, questa settimana Ani DiFranco farà il proprio debutto a Broadway proprio nei panni di Persephone in Hadestown).
Nonostante, nel frattempo, Mitchell prosegua nella propria carriera musicale, pubblicando nuovi album, collaborando con altri artisti, esibendosi in tour (personali e in apertura ai Bon Iver), il lavoro su un adattamento teatrale di Hadestown non smette mai davvero, e anzi la cantautrice comincia a studiare attentamente la produzione di Broadway per studiare un possibile passaggio su quei palchi. L’incontro che cambia tutto è quello con la regista teatrale Rachel Chavkin: Mitchell assiste nel 2012 alla produzione Off Broadway di Natasha, Pierre & the Great Comet of 1812, un musical ispirato a una piccolissima porzione di Guerra e pace destinato a un discreto successo e a guadagnarsi un suo seguito cult. La scintilla creativa tra Mitchell e Chavkin scatta immediata, e il lavoro per portare Hadestown a Broadway inizia sul serio, attraverso vari workshop, un primo debutto Off nel 2016, altre brevi produzioni in Canada e a Londra, fino all’esordio vero e proprio nel 2019. Un trionfo: di critica, di pubblico (la produzione è ancora in scena con grande successo, si è interrotta solo durante i lockdown per il COVID-19, ed è attualmente anche in tour) e di premi (su 14 nomination ai Tony Award, ne vince otto, tra cui miglior musical, miglior regia per Chavkin e migliori musiche per Mitchell – categorie in cui le vincitrici donne, soprattutto in solitaria, sono in totale ancora pochissime).
(Curiosità: il “Tony” in Tony Award è diminutivo di un nome femminile, Antoinette: Mary Antoinette “Tony” Perry, prima attrice, a inizio secolo, e poi produttrice e regista teatrale negli anni 20 e 30 del Novecento, è stata la co-fondatrice dell’American Theatre Wing, l’associazione no profit che sostiene la tradizione teatrale di Broadway e che organizza la cerimonia dei Tony).
Nella sua versione del mito, Mitchell compie una scelta che, in qualche modo, riecheggia quanto suggerirà Héloïse in Ritratto della giovane in fiamme: Eurydice non viene morsa da un serpente, ma decide da sé, per quanto per fame e disperazione, di recarsi sottoterra, nel regno di Hades. L’ambientazione immaginata dalla cantautrice fin dall’inizio del progetto, e poi portata sul palco da Chavkin grazie anche a un ingegnoso set design circolare semovente, è quella di uno scenario insieme post apocalittico e ispirato all’America della Grande depressione. Il clima è completamente impazzito, estati torride e irrespirabili si alternano a inverni gelidi e tempestosi, non cresce quasi nulla e la povertà è ovunque. La scena si apre su quella che assomiglia a una taverna, o a un juke joint di New Orleans: la musica, oltre che folk e blues, è ricca di ispirazioni jazz tradizionali, e la scenografia richiama nei dettagli le architetture della Big Easy (Chavkin spiega che una delle ispirazioni principali è la Preservation Hall di New Orleans). «C’era una volta una ferrovia» sono le prime parole del musical, cantante da Hermes (nel cast originale interpretato da André de Shield, una leggenda di Broadway che proprio grazie a Hadestown vince il suo primo Tony; il ruolo non è definito da un genere, e in alcune produzioni, come quella londinese, ha un’interprete femminile), il messaggero degli dei e, appropriatamente, il narratore del musical. «È la strada per l’Inferno, e se resti sul treno fino alla fine, fin dove il sole non splende ed è sempre buio, incontrerai il signore della miniera, il potente Hades» continua, presentando poi uno a uno i personaggi principali della storia, le tre Fates (le Moire), «che cantano sempre nel retro della tua mente», Persephone, che una volta all’anno scende dal treno «con la sua valigia piena di estate», il coro/jazz band, che suona direttamente dal palco, e naturalmente Orpheus e Eurydice. Il primo, figlio, abbandonato, di una musa amica di Hermes, può sembrare «toccato», ma è «toccato dagli dei»: è un musicista straordinario, capace di dar forma alle cose con il suo canto. La seconda è una ragazza sola, spesso affamata, una persona che «è scappata da qualsiasi posto in cui sia stata», abituata a farsi portare «dove soffia il vento» e impegnata solo a cercare di sopravvivere.
Orpheus s’innamora di Eurydice all’istante, e davanti alle sue comprensibili resistenze le racconta che sta lavorando a una canzone che sarà in grado di rimettere il mondo «back into tune», di farlo tornare in sintonia, di “aggiustarlo” riportando la primavera. Il contrasto iniziale tra i due non potrebbe essere più aspro: Eurydice è esperta del mondo, cinica, disillusa, diffidente, mentre Orpheus è ingenuo, naïf, speranzoso e propaga un entusiasmo contagioso. Quando Persephone scende dal treno portando un briciolo d’estate, alcol di contrabbando e voglia di far festa alla faccia delle avversità, Eurydice s’innamora di Orpheus, «suo malgrado»: la vera, straordinaria qualità di Orpheus, spiega Hermes, è quella di fara vedere al mondo, con la propria musica, «quello che il mondo potrebbe essere, a dispetto di quello che è». Ma Hades richiama troppo presto a sé Persephone, la brevissima estate finisce, arriva la peggior tempesta di sempre: Orpheus non se ne accorge, troppo impegnato a cercare di finire la sua cruciale canzone, ed Eurydice, alla disperata ricerca di cibo e legna per il fuoco, si ritrova sola, e tormentata dalle Fates. È qui che Hades le offre una scelta: un biglietto per Hadestown, dove potrà unirsi ai suoi minatori, in cambio di pasti quotidiani, di un letto, di un rifugio. «Puoi avere princìpi quando hai la pancia piena» cantano le Fates, nel retro della mente; Eurydice accetta, e si consegna a Hades.
Mano a mano che l’azione si sposta verso Hadestown, il set si modifica significativamente (lo farà poi in modo ancor più drammatico quando Orpheus scende agli Inferi in cerca dell’amata), e la sua base rotante (che assomiglia, per certi versi, a quella di Hamilton, sviluppato negli stessi anni) aderisce alla circolarità senza fine del lavoro delle anime perse dell’Underground, che Hades chiama i suoi «figli». Avendo debuttato Off Broadway nel 2016, uno dei brani di Hadestown è parso immediatamente aderire alle angosce dell’era Trump, nonostante sia stato composto oltre un decennio prima, ed è diventato quasi un preveggente canto di protesta: Why We Build the Wall. «Costruiamo il Muro perché ci mantiene liberi» canta il coro di minatori-operai, incitato da Hades, in una cantilena che, come nelle filastrocche dei bambini, aggiunge pezzi a ritroso, una strofa alla volta. «Il Muro ci mantiene liberi perché tiene fuori il nemico. Il nemico è la povertà. Perché noi abbiamo e loro no, perché loro vogliono quello che abbiamo noi. E quello che abbiamo è il Muro, il Muro a cui lavorare, il Muro da presidiare, il Muro che ci mantiene liberi». «E il Muro non è mai finito» conclude Hades trionfante. «La guerra non è mai vinta».
Un’altra delle intuizioni di Mitchell è quella di mettere in relazione, sovrapponendoli, il mito di Orfeo ed Euridice con quello di Ade e Persefone, storie che, infatti, hanno una radice comune. In varie versioni della leggenda, Persefone, figlia di Demetra, la dea dei raccolti e delle messi, viene portata da Ade, innamoratosi di lei, nell’Oltretomba; per la rabbia e la disperazione, Demetra precipita la Terra nella carestia e nell’infertilità, fino a quando è Zeus stesso a intercedere per lei, chiedendo a Ade di restituire Persefone alla madre e alla vita in superficie. Persefone, però, ha nel frattempo mangiato dei chicchi di melagrana alla mensa di Ade, e nutrirsi del cibo degli Inferi significa rimanere per sempre legati al sottosuolo. Dunque, è necessario un compromesso (e sono comunque solo chicchi non un intero frutto): Persefone passerà metà dell’anno nell’Ade col marito, e l’altra metà sulla Terra con la madre. Il mito è naturalmente all’origine della spiegazione delle stagioni e del ciclo di morte e rinascita che contraddistingue la natura e la cultura contadina. E, sebbene in minore rispetto a quello di Orfeo ed Euridice, contiene un mistero, aperto alle interpretazioni: Persefone ha davvero mangiato quei chicchi di melagrana per errore, oppure l’ha fatto per scelta, per restare con Ade, per determinare il proprio destino?
In Hadestown l’amore tra Orpheus ed Eurydice si rispecchia in quello tra Hades e Persephone, ricalcando la stessa opposizione tra primavera e autunno (le stagioni mancanti): quello tra i due giovani è in piena fioritura, è un sentimento nuovo e forte, mentre quello tra gli dei degli Inferi si sta spegnendo lentamente, a causa della gelosia e possessività di Hades e della frustrazione di Persephone, costretta a trascorrere ad Hadestown sempre più tempo, lontana dal cielo, dall’aria, dal sole e dal vento (il leitmotiv del fiorire e dell’appassire ritorna in molti brani, e un fiore rosso è il simbolo del musical). Hades spiega a Persephone che è proprio perché non riesce a sopportare la sua assenza che fa costruire fornaci sempre più grosse e fameliche, reti elettriche sempre più potenti e luminose, mezzi d’acciaio sempre più impressionanti, che poi nutre incessante di olio, petrolio e carbone, grazie all’infinito ciclo quotidiano del lavoro dei suoi «figli» – al che Persephone non può che controbattere «it ain’t right and it ain’t natural» (“non è giusto e non è naturale”). La rivelazione di Orpheus – il mondo è messo “fuori asse” dall’amore spezzato tra Hades e Persephone – si ricollega al disequilibrio di forze che i due rappresentano, quella dell’industria e quella della natura, mentre lo sfruttamento delle risorse e del lavoro e la distruzione della Terra perpetrati da Hades si sovrappongono all’oppressione e al controllo che pretende di esercitare sulla compagna.
Questa «è una canzone triste», ci mette in guardia fin dal brano di apertura Hermes, «ma la canteremo comunque, perché potrebbe finire in un modo diverso, questa volta». Consumatasi la scelta fatale, sia Eurydice sia Orpheus si rendono conto dell’errore commesso: la prima, incontrando i suoi nuovi “colleghi”, scopre che il lavoro incessante e ripetitivo nelle profondità della miniera li ha privati velocemente della memoria del mondo e poi di quella della propria identità, e che la aspetta lo stesso destino; il secondo, terminata finalmente la canzone che lo ossessionava, si mette alla disperata ricerca di Eurydice e affronta il viaggio verso Hadestown “dall’entrata sul retro”, un percorso lungo e pericoloso, senza la ferrovia come guida, e con le Fates che cercano di scoraggiarlo. Ma riesce nell’impresa, e ottiene – grazie all’intercessione di Persephone che, appunto, rivede l’antico amore tra lei e il marito in quello tra i due ragazzi – la possibilità di cantare la propria canzone, finalmente finita, davanti all’impietoso Hades. La «canzone che rimette in sesto il mondo» non può che essere una canzone d’amore, e il racconto di un mito, capace di risvegliare una melodia antica, sentimenti dimenticati, e soprattutto l’umanità dell’empatia nella temibile divinità. Ma è anche una canzone di speranza, e dunque di rivolta: la permanenza di Orpheus a Hadestown, l’irruzione dell’arte e della musica in un mondo “zombificato”, è sufficiente a risvegliare i suoi abitanti, a far mettere loro in discussione lo stato delle cose, a dipingere e dar consistenza a un «mondo come potrebbe essere», malgrado quello che è.
Perché, infine, Orpheus si volta e perde la sua Eurydice, in questa versione del mito reimmaginata da Anaïs Mitchell? La risposta della cantautrice non può non essere, come ovvia conseguenza di quanto raccontato fin qui, esplicitamente politica. Messo per la prima volta alle strette, Hades non può negare a Orpheus e Eurydice di tornare a casa, ma su suggerimento delle Fates («dai a un uomo la corda, e ci si impiccherà») pone la famosa condizione: non camminare fianco a fianco, ma uno di fronte all’altra, senza parlarsi né voltarsi. In una ballata semplice e insieme struggente, Promises, Orpheus ed Eurydice si erano appena dichiarati un sentimento nuovo, basato sulla condivisione totale e sul sostegno reciproco: «Non promettermi cieli limpidi sulla testa, non promettermi strade gentili sotto i piedi – basta che cammini al mio fianco, in qualsiasi direzione soffi il vento». Ma, ancora una volta, la canzone d’amore si riflette in quella di lotta: il “risveglio” del coro è determinato proprio dal riconoscere i propri compagni, dal riconoscere se stessi in loro. Allora, il “test” di Hades è prima di tutto una “divisione”: «Ogni codardo può sentirsi coraggioso nella sicurezza della folla, e il coraggio può essere contagioso. Niente rende un uomo sicuro quanto il sorriso di una donna, e una mano da stringere – ma quando è solo, il sangue s’assottiglia, e i dubbi lo assalgono».
Come i migliori racconti, anche Hadestown riesce nell’impresa di farci dubitare, questa volta in bene: magari Orpheus resisterà, forse ce la farà a non voltarsi, sentirà la presenza di Eurydice alle sue spalle, non ascolterà i suggerimenti infidi delle Fates. D’altronde, Hermes ci ha anche detto che avremmo cantato questa triste canzone ancora, «perché potrebbe finire in un altro modo, questa volta». La struttura circolare del set, ancora una volta, si rivela decisiva, nello splendido finale: se c’è una ripetitività mortifera, quella del lavoro alienante nelle miniere, ce n’è anche una salvifica, quella del racconto e del canto, della ripetizione delle storie e dei miti, e della loro rivisitazione, riappropriazione, rinnovamento. Delle nuove e sorprendenti verità che, a guardarle con occhi nuovi, a cantarle con una nuova musica, ci possono consegnare. In Hadestown, la storia non finisce, ma ricomincia: è la speranza la soluzione, la resistenza, la capacità di immaginare e cantare «il mondo come potrebbe essere, a dispetto del mondo com’è». E in questa rilettura del mito, riuscendo a saldare insieme politica e leggenda, a ricollegare istanze contemporanee anticapitaliste a una storia che affonda nella memoria del mondo, Anaïs Mitchell compie esattamente questo lavoro, diventa proprio il nostro Orfeo. ALICE CUCCHETTI
Su Spotify è possibile ascoltare l'Original Broadway Cast Album di Hadestown
Questa settimana esce in sala Green Border, ultimo film della cineasta polacca Agnieszka Holland, premiato all’ultima Mostra del cinema di Venezia per la miglior sceneggiatura: anche qui si parla di confini invalicabili, e di mancata fratellanza. Sul numero di Film Tv in edicola trovate, oltre alla recensione che vi proponiamo qui, anche una Lost Highway dedicata alla carriera della regista.
Green Border
Il confine verde dell’ultimo film di Agnieszka Holland - un film sorprendente per l’età e la carriera della regista polacca, inatteso per potenza visiva e lucidità - è la grande foresta che unisce i territori di Polonia e Bielorussia; uno spazio naturale all’interno del quale corre una linea politica e non geografica che divide due nazioni al limite nord-orientale dell’Europa. Nascosti dagli alberi e da un’ombra perenne, i migranti del film, arrivati sul suolo bielorusso con un volo di linea, illusi dalla promessa di Lukashenko di transitare facilmente in Polonia, scoprono che il loro destino sarà quello di restare bloccati in una selva pattugliata da entrambe le parti, ma percepita come una terra di nessuno. Siamo nell’autunno del 2021 e Nur e la sua famiglia siriana, la cinquantenne afghana Leila, più decine di altri disperati - padri, madri, bambini e anziani in transito verso l’Europa - riescono inizialmente a passare il confine, salvo essere rispediti indietro dai soldati polacchi e una volta tornati in Bielorussia ricacciati nuovamente nell’altro lato, in un grottesco e tragico rimpallo. Con il suo bianco e nero cupissimo, Green Border restituisce le spaventose condizioni della foresta, il gelo, l’oscurità, le paludi (da brividi la morte di un bambino risucchiato dalla melma), così da far risaltare il contrasto con l’astrazione e la pretestuosità della questione politica. Il confine rappresentato nel film, nonostante il filo spinato, non ha nulla di definitivo o addirittura di sacro (come ancora succedeva al fiume che separava Europa e Oriente in un’opera d’altri tempi come Il passo sospeso della cicogna di Angelopoulos); è anzi una linea strumentalizzata da una guerra di poteri e interessi, con i migranti ridotti a pedine e gli altri personaggi di cui il film si occupa allargando lo sguardo su una questione collettiva (gli attivisti polacchi, una psicologa che abita vicino al confine, un soldato che pattuglia la zona) chiamati a scegliere tra umanità e indifferenza, tra bene e male, fuori dagli interessi politici e dentro i confini - questi sì astratti, ma irrinunciabili - del bene comune. In un rapido momento del film, la Holland (75 anni compiuti a novembre 2023) cita una scena di L’infanzia di Ivan di Tarkovskij: il passaggio di un fosso da parte di un soldato e una donna, ora sostituiti da un padre e una figlia. Il superamento di un ostacolo è ancora raffigurato con un’immagine poetica, ma la regista sa bene di dover rinunciare almeno in parte alla matrice artistica del suo cinema e di dover scegliere uno stile meno ricercato e più diretto, se non grezzo. In Green Border c’è un’energia rimasta finora inespressa nei film della Holland, una voce collettiva che parla a nome di una società polacca contraria al populismo nazionalista (lo stesso all’origine dell’esclusione del film dalla candidatura agli Oscar 2024) e che deve moltissimo alle giovani co-sceneggiatrici, le militanti Maciej Pisuk e Gabriela Łazarkiewicz. Un lavoro a più mani, dunque, che sa di passaggio di testimone. ROBERTO MANASSERO
Prima che di Sanremo (e di questo numero in parte “musicale”), questa è stata la settimana dei Grammy Award, gli “Oscar della musica” statunitensi, che quest’anno hanno visto un’inedita supremazia femminile. L’artista a ricevere più premi è stata Phoebe Bridgers, tre dei quali in condivisione con il supergruppo boygenius (da lei formato insieme alle cantautrici Julien Baker e Lucy Dacus) che ha dominato le categorie rock tradizionalmente “maschili”, e uno in collaborazione con SZA, che era anche la musicista più nominata. Tutti i premi maggiori sono andati ad artiste: album dell’anno a Taylor Swift (la prima persona nella storia a vincere quattro volte questo premio) per Midnights, registrazione dell’anno a Miley Cyrus per Flowers, canzone dell’anno a Billie Eilish e al fratello Finneas per What Was I Made For? (dalla colonna sonora di Barbie) e miglior artista emergente a Victoria Monét. Inoltre, tra le esibizioni più memorabili, ci sono state quelle di Tracy Chapman, di Joni Mitchell e di Annie Lennox, che, ricordando e omaggiando Sinead O’Connor, ha chiesto un cessate il fuoco in Palestina.
La Storia di Elsa Morante compie 50 anni, e da qualche settimana è andata in onda su Rai1 (ed è disponibile su RaiPlay) una nuova miniserie ispirata al romanzo, diretta da Francesca Archibugi. Ne abbiamo parlato su Film Tv n. 4, ma questa settimana segnaliamo questo lungo articolo su Internazionale.it che spiega cosa renda il lavoro di Morante indimenticabile.
Ancora a proposito di musica e arte: in caso vi sia venuta voglia di programmare un weekend a Londra per vedere Hadestown, potreste approfittarne anche per visitare, dal 15 febbraio al 1° settembre, la mostra che la Tate Modern dedica a Yoko Ono, intitolata Music of the Mind.