Singolare, femminile ♀ #121: Hanno sempre vissuto nel castello
Apparso su Prime Video subito prima di Natale, Saltburn, l’opera seconda della regista di Una donna promettente Emerald Fennell, è diventato istantaneamente uno dei titoli più chiacchierati, discussi, insieme amati & odiati di questo inizio d’anno. Cosa c’è sotto la superficie?
Non è da molti aver diretto solo due lungometraggi e detenere già il titolo di “autore controverso”. È così, però, per Emerald Fennell: inglese, 38 anni, carriere parallele da attrice (è stata, tra le altre cose, la giovane Camilla di The Crown), sceneggiatrice (già showrunner della seconda stagione di Killing Eve, e pure librettista per il musical Cinderella di Andrew Lloyd Webber, manco a dirlo uno dei più “dibattuti” del maestro) e autrice di libri per ragazzi (Mostri è uscito la scorsa estate anche in Italia per Fandango Libri), al momento ha due film in curriculum, un Oscar per la miglior sceneggiatura originale sul comodino, una nomination come miglior regista (e nel 2024 le registe nominate all’Oscar si contano ancora sulle dita di due mani) e la capacità di suscitare invariabilmente un clamore inedito attorno al proprio lavoro. È successo per il suo esordio, Una donna promettente (Promising Young Woman in originale), presentato al Sundance nel 2020 e segnato da una distribuzione travagliata causa pandemia, e ancora di più sta succedendo con Saltburn, l’opera seconda prodotta da Amazon Studios e pubblicata su Prime Video poco prima di Natale (negli Stati Uniti è uscita anche in sala).
Come un piccolo (?) paradosso, le discussioni che circondano i film di Emerald Fennell sembrano far coincidere, almeno nei detrattori, due accuse opposte: da un lato i suoi film apparirebbero “didascalici”, sottolineando esageratamente il proprio urlato messaggio; dall’altro, però, sarebbero anche “confusi”, “contraddittori”, indecisi sul senso profondo di ciò che vogliono dire. Era già evidente in Una donna promettente, immediatamente identificato come “revenge movie per l’era #MeToo”, ma in realtà (anche comprensibilmente) oggetto di letture femministe che ne problematizzavano i risvolti meno immediati. Con Saltburn i due movimenti critici opposti si danno manforte a vicenda: il film sarebbe, in modo perfino ovvio e gridato, una satira dell’aristocrazia e un apologo sulla lotta di classe, un nuovo tassello del prolifico filone “eat the rich” che tanti titoli ha prodotto negli ultimi anni, eppure il meccanismo s’inceppa, il racconto sbanda, la critica non funziona, non torna. Ecco, non tornano i film di Emerald Fennell, con i loro finali fatti di twist insieme imprevisti e ovvi, spesso sfacciatamente “scioccanti” sul doppio piano della trama e dell’aspettativa. È in questo scarto, in questo “malfunzionamento”, che spesso sembra spezzarsi il patto con lo spettatore, e insieme annidarsi un interesse nuovo, la chiave per accedere a un ulteriore piano interpretativo.
Fennell pare lavorare sempre sulla distanza tra superficie e sottotesto, e farlo sia attraverso l’evidente sicurezza con cui controlla la messa in scena (qualcosa che le riconoscono quasi sempre anche i più critici), sia nel modo in cui prima aderisce alle convenzioni e poi le disattende. Una donna promettente si presenta come una variazione femminista di un filone cinematografico complesso, il rape & revenge: è la storia di una donna, Cassie (interpretata da una strepitosa Carey Mulligan), che quasi ogni sera ha l’abitudine di uscire da sola, fingersi ubriaca, aspettare che qualche “bravo ragazzo” si offra di accompagnarla a casa e provi ad approfittare di lei… per poi “vendicarsi” (virgolette d’obbligo). Lo fa perché, scopriamo presto, la sua migliore amica Nina, molti anni prima, è stata stuprata da amici comuni e successivamente si è suicidata: da allora, sembra dirci inizialmente il film, Cassie si è dedicata a una “missione punitiva”, auto-assegnandosi il ruolo di eroina vendicatrice/protettrice. Solo che Una donna promettente non è quello che sembra, non (perdonate il gioco di parole) mantiene ciò che promette. Anzi, di più, è un “rape & revenge” senza “rape” e senza “revenge”: non solo nessuna violenza sessuale viene mai mostrata (una sovversione delle regole del genere non nuova nelle rivisitazioni femministe), ma la stessa parola “stupro” non viene mai pronunciata da nessuno. E quanto alla vendetta, nessuna di quelle messe in pratica da Cassie ha le forme che ci si aspetta (nessuna ha la benché minima carica risolutiva o catartica, sono tutte “sgradevoli”, scomode e anticlimatiche), e la conclusione che attende la protagonista è l’esatta antitesi dell’empowerment, ma anche di un qualsiasi “senso di chiusura” riservato in genere agli eroi o agli antieroi dei revenge movie.
Per chi scrive, queste scelte di sceneggiatura di Fennell hanno una forza ben più politica che se si fossero attenute al “copione”, proprio grazie alla loro carica disturbante, anti-catartica e anti-pacificatoria. Sì, è vero, la parabola di Cassie la riconduce nel “ruolo” della “ragazza morta”, e l’ultimissimo twist (a quanto pare assente nella prima bozza di sceneggiatura e aggiunto in seguito alle reazioni costernate del pubblico durante le proiezioni di prova) è uno sberleffo crudele sottoforma di vendetta postuma. Ma non fa che sottolineare l’amara verità: una donna vittima di violenza “conta” di più da morta che da viva, come ci dimostra la cronaca certificando di continuo femminicidi annunciati preceduti da denunce inascoltate (lo spiegava perfettamente Ilaria Feole nel suo editoriale su Film Tv n. 19/2021). È un finale che ha fatto – e fa ancora – discutere, perché nega ogni catarsi, sia emotiva sia strutturale, e lo fa infilando la macchina da presa nella piaga di una questione patriarcale esacerbata e irrisolta, correndo il rischio del fraintendimento per evitare quello dell’autoconsolazione. In tutto questo, la forma precisa, e già invidiabile all’opera prima, che Fennell dà al suo film è, ancora una volta, espressione di un paradosso: da un lato è una superficie in aperta contraddizione con i suoi temi (colorata, “confettosa”, kawaii, ostentatamente girly, mentre si sta raccontando di trauma, abuso, dolore, violenza), dall’altro aderisce perfettamente alla sua protagonista, sia esplicitando la sua condizione di stallo in un’eterna adolescenza, sia sottolineando (in modo, sì, didascalico) con composizioni d’inquadratura e décor il suo status cristologico e/o di vittima sacrificale.
Anche di Saltburn, il secondo e più recente film di Emerald Fennell, il finale è la parte più discussa, dissezionata, e spesso detestata. Di simile, i due lavori hanno la costruzione di un climax che, in un modo o nell’altro, viene infine disatteso – una valenza maggiore, e letterale, in Saltburn, considerato che è fondamentalmente un’opera sul desiderio, per ammissione della sua stessa regista. Protagonista del film è Oliver Quick, incarnato con poliedrica bravura dall’attore irlandese Barry Keoghan (il quale ha raccontato di aver interpretato, in realtà, “cinque Oliver”, per esprimere in ogni momento la duplicità del personaggio, il suo scivolare incessantemente da una “maschera” all’altra): arriva a Oxford con una borsa di studio ed è immediatamente emarginato dall’élite privilegiata che popola l’antica città universitaria inglese. Ma è anche subito attratto da Felix Catton (Jacob Elordi, in un ruolo che è inevitabilmente collegato, e insieme opposto, a quello del terribile Nate di Euphoria), erede di una famiglia aristocratica, bellissimo e irresistibile, una sorta di sole attorno a cui chiunque non può fare a meno di gravitare. I due stringono un’amicizia inedita dopo un incontro casuale (esplicitamente modellato da Fennell sui meet cute delle commedie romantiche), Felix si affeziona a Oliver dopo aver scoperto che viene da una famiglia povera e disfunzionale, e alla fine degli esami lo invita a trascorrere l’estate nella tenuta di famiglia, a Saltburn, appunto: un immenso castello trecentesco immerso nella campagna inglese, prototipo di magione gotica con tanto di labirinto che Fennell e il suo straordinario direttore della fotografia Linus Sandgren (già DOP di Babylon, e infatti è stato suggerito alla regista da Margot Robbie, produttrice di Saltburn con la sua LuckyChap) immergono in un’assolata atmosfera da sogno, nella luce dorata e implicitamente nostalgica dell’estate.
Un contesto in cui la distanza sociale tra Oliver e Felix è ancora più accentuata – e Fennell, con sensibilità d’attrice, sa sfruttare ottimamente la differenza d’altezza tra Keoghan ed Elordi: non c’è quasi scena in cui il primo non guardi il secondo dal basso, e viceversa – ma in cui le posizioni, fin dall’inizio, scivolano l’una nell’altra: se è evidente quanto Oliver sia un infiltrato, diventa chiaro, via via, quanto sia un infiltrato consapevole, impegnato in un gioco di seduzione (di tutta la famiglia, non solo di Felix) dai secondi fini. Nella trama come nella messa in scena, Saltburn convoca in maniera esplicita un corpus codificato di tradizioni letterarie e cinematografiche, da Ritorno a Brideshead (Evelyn Waugh è direttamente citato da un personaggio) a Teorema a Il talento di Mr. Ripley (suggeriamo calorosamente, a riguardo, anche la splendida e puntualissima recensione di Luca Pacilio su Spietati.it). Di nuovo, Fennell è sfacciatamente didascalica, fino – almeno per qualcuno – all’irritazione: «Sono un vampiro» sussurra Oliver, le labbra sporche del sangue mestruale della sorella di Felix, Venetia, in una delle scene del film (vendute come) “estreme”, mentre il suo personaggio sembra assorbire potere letteralmente consumando i membri della famiglia Catton.
Ma, naturalmente, tutti sono vampiri, qui: Saltburn è, altrettanto sfacciatamente, una satira dell’aristocrazia, classe parassitaria per eccellenza, qui simboleggiata dalla magione isolata e decadente, territorio che si fa corpo e manifestazione di sogni e di incubi. Gli adulti di Saltburn sono ricchi caricaturali: interpretati con evidente gusto da Richard E. Grant e da una Rosamund Pike intenta a mangiarsi ogni scena in cui compare, i genitori di Felix sono involucri vuoti, del tutto scollegati dalla realtà, meschini e pettegoli, apparentemente ossessionati dalla bellezza ma incapaci di vedere quello che hanno sotto gli occhi. È una satira facile, elementare, talmente diretta da rivelarsi esile. Ancora una volta, poi, Fennell ci offre un terzo atto in cui “disfa” quanto costruito precedentemente: quello che per le prime due parti del film era una sorta d’incanto con fondamenta realistiche (come hanno sottolineato molti, l’autrice – pure laureata a Oxford – proviene da quella stessa classe aristocratica che qui irride, ed è probabilmente per questo che sa rappresentarne così bene certe innate sottigliezze), dopo lo svelamento delle bugie di Oliver (cioè dopo la rottura dell’inganno, o del sortilegio) sterza bruscamente nel grottesco, premendo l’acceleratore su un eccesso che infine scolora nel ridicolo (involontario oppure no? È davvero difficile dirlo). Il finale è ancora un twist, ma del tutto depotenziato dalla propria (esibita) ovvietà; il “messaggio” su una presunta lotta di classe, pure.
Ma se la confezione “eat the rich” di Saltburn sembra pura superficie, probabilmente è proprio perché lo è: di nuovo, l’autrice sembra prendere le strutture, le convenzioni, le aspettative di un sottofilone o genere per piegarle ad altri scopi, infilandosele come un abito a rovescio. L’ormai folto gruppo di film e serie “contro l’1%” che ha popolato gli schermi in questi ultimi anni ci ha insegnato a individuare la metafora di classe dentro i propri microcosmi narrativi, dalle case dei Knives Out al ristorante di The Menu (per citare solo alcuni esempi). Ma Saltburn fa una cosa contraria: è l’impianto di classe a essere metafora di qualcos’altro, nello specifico di un desiderio (non solo, o semplicemente, sessuale) bruciante, ossessivo e impossibile da soddisfare. Quale miglior modo di raccontare una distanza incolmabile, un appagamento inottenibile, che mettendo in scena una struttura sociale granitica e inamovibile, “caste” che non possono dissolversi, non davvero, e la disperata e poi sanguinosa “scalata” di un eterno outsider?
Non è un caso, evidentemente, se proprio nella resa del desiderio – cieco e sordo, compulsivo, totalizzante, perfino disgustoso – Saltburn trova i suoi momenti più riusciti, sequenze capaci di abitare gli immaginari, subito scolpite nel dibattito pubblico attorno al film. La cui carica politica, programmaticamente, abdica all’intrattenimento puro, una dimensione che infatti sembrano aver abbracciato in pieno i fandom online («è una fan fiction d’essai» ha scritto Francesca Anelli su Instagram, definizione azzeccatissima anche perché perfettamente ambivalente, utilizzabile come complimento o come insulto a seconda delle intenzioni), suscitando – anche comprensibilmente – ulteriore irritazione in chi da Saltburn si è sentito infastidito. Ma se in Una donna promettente il didascalismo – comunque efficacissimo – della messa in scena denunciava qualche difetto congenito da opera prima, in Saltburn le stesse mancanze si possono imputare alla sceneggiatura (lo “spiegone” finale suona ridondante) ma non alla regia: nei suoi quadri meticolosamente costruiti, nella sua giustapposizione dei piani (pensate al primo incontro tra Oliver e la famiglia Catton, un campo/controcampo in cui il primo è solo e i secondi tutti racchiusi nella stessa inquadratura, come parte della stessa tappezzeria di lusso), nella ricchezza figurativa di istantanee già cult, nella stilizzazione dei corpi (Jacob Elordi, uno degli attori più alti e imponenti in attività, è fotografato quasi sempre “ripiegato” o disteso in posizioni iconograficamente femminili) e degli spazi, l’autrice sa distillare con audacia e accuratezza la malìa di una fissazione oscura, perturbante, e insieme gustosamente divertente. È più che abbastanza per farci attendere con trepidazione l’opera terza. ALICE CUCCHETTI
Tra gli impieghi d’attrice, e prima di esordire alla regia, Emerald Fennell è stata capo sceneggiatrice e showrunner della seconda stagione di Killing Eve, serie ideata da Phoebe Waller-Bridge. Vi riproponiamo la recensione di quella annata, pubblicata su Film Tv n. 24/2019.
Killing Eve - Stagione 2
Riassunto delle puntate precedenti: Villanelle ammazza gente, per soldi ma con gusto; Eve Polastri le dà la caccia, per lavoro ma con crescente fascinazione; Villanelle ricambia. Nel finale della prima stagione, il sanguinoso “primo appuntamento” fra le due protagoniste della serie sviluppata dalla geniale Phoebe Waller-Bridge era stato probabilmente il più bizzarro momento erotico televisivo del 2018; la seconda annata riparte da lì. Ridotto il ruolo produttivo di Waller-Bridge (ormai richiestissima, chiamata pure a rifinire la sceneggiatura del prossimo 007), subentra una nuova showrunner, Emerald Fennell (autrice di romanzi per ragazzi ma più nota come attrice, per esempio in Call the Midwife), incaricata di sviluppare la complessa relazione fra la killer psicopatica e l’agente MI6 che scopre di avere un lato oscuro. Lo fa con intelligenza, sacrificando parzialmente la componente più action (restano comunque alcuni cruentissimi momenti da antologia, su tutti l’esecuzione in vetrina nel quartiere a luci rosse di Amsterdam) ma rendendo sempre più avvolgente e totalizzante la relazione pericolosa fra Villanelle e Eve, messa in scena nella sua disarmante componente erotica come nella sua complicata valenza psicoemotiva: la letale sicaria è pur sempre una psicopatica, e ciò costringe Eve a fare i conti con la possibilità di amare (e di riconoscersi in) una persona disturbata. La regia si fa più attenta alle sfumature (merito anche di new entry come la svizzera Lisa Brühlmann, regista di Blue My Mind) e il thrilling un po’ più allentato; l’intrattenimento resta altissimo, merito soprattutto di un trio d’attrici impagabili: Jodie Comer, Sandra Oh e la meravigliosa Fiona Shaw. ILARIA FEOLE
Questa settimana è cominciata la quarta stagione di True Detective, su HBO negli Stati Uniti e su Sky e NOW qui in Italia: sottotitolata Night Country, per la prima volta non è scritta dal creatore Nic Pizzolatto ma dall’autrice messicana Issa López, che firma anche la regia di tutti e sei gli episodi. Anche le due true detective protagoniste sono donne: l’ex boxeur Kali Reis e una leggenda hollywoodiana come Jodie Foster, che aveva frequentato il piccolo schermo solo da bambina, nella primissima fase della sua carriera. Ci torneremo su, intanto l’attività stampa attorno alla serie ci regala interessanti interviste di carriera a Foster, come questa, sul Guardian [in inglese].
Più di 80 scrittrici e giornaliste italiane hanno lanciato una campagna per tenere alta l’attenzione sulla violenza di genere: dal 3 gennaio al 3 marzo appariranno sui giornali italiani articoli e racconti per definire la violenza e nominarla. Ognuna userà la sua voce e la sua esperienza personale per descrivere un fenomeno complesso e multiforme, perlopiù tollerato dalla società. Seguendo questo profilo Instagram è possibile tenere traccia dei vari articoli.
È uscito per Meltemi il libro di Alison Harvey Studi femministi dei media – Il campo e le pratiche: su DinamoPress un interessante articolo di Arianna Mainardi spiega perché è «il libro che in molte abbiamo atteso». Su Internazionale, invece, Annalisa Camilli prova a rispondere a una domanda che spesso ci siamo poste anche noi: perché ci sono così pochi corsi di studi femministi nelle università italiane?