Singolare, femminile ♀ #116: Tra sottoterra e cielo
Arriva in sala La chimera, ultimo lavoro di Alice Rohrwacher, tra le cineaste italiane più apprezzate anche nel circuito indipendente internazionale. E infatti a raccontarci il film ritroviamo la guest star da New York Clara Ramazzotti, che se n’è innamorata durante un festival nella Grande mela.
Alice Rohrwacher è nata nel 1981 a Fiesole, in Toscana, e oltre ad avere diretto quelli che ritengo i migliori episodi della serie tv HBO/Rai L’amica geniale, tratta dall’omonima tetralogia di Elena Ferrante, è anche la regista di Corpo celeste (2011), Le meraviglie (2014), Lazzaro felice (2018) e La chimera (in uscita domani, 23 novembre 2023), oltre a documentari e corti come Le pupille (2023), nominato agli Oscar di quest’anno (la maggior parte delle sue opere è disponibile su MUBI, mentre Le pupille è su Disney+). Si è fatta le ossa come montatrice, un tipo di lavoro che permette cura del dettaglio e occhio per la ricomposizione. Tutti i film sono puzzle che vanno messi assieme pezzetto dopo pezzetto. Possono essere lineari, le loro linee temporali possono essere completamente mescolate, o navigare nella fantasia senza aver bisogno di seguire un filo logico. Il montatore cinematografico compone il film, mettendo in successione le sequenze filmate, legandole fra loro e dando ritmo. Alice Rohrwacher usa sicuramente questo talento e l’esperienza pregressa per far ondeggiare il pubblico tra un’atmosfera e l’altra, tra un personaggio e l’altro, in modo che non possiamo perderci anche quando siamo al buio. E certamente sa come si scrivono dei personaggi, non solo quelli femminili, che pare comprendere nel profondo, ma anche quelli maschili, a cui sembra affidare un po’ di libertà. Gli uomini e le donne di La chimera sembrano andare per conto proprio.
Ho sempre avuto una specie di cotta amichevole per Alice e Alba Rohrwacher, la sorella della regista che recita spesso per lei, e che sarà Lenù nell’ultima stagione di L’amica geniale, dopo esserne stata fin dall’inizio la voce narrante fuori campo. In ogni film da loro diretto o interpretato, in ogni partecipazione o cameo in qualche serie tv, non le ho mai trovate distanti dal mio modo di pensare e vivere. La loro intelligenza e grazia mi ha sempre fatto pensare a un mondo femminile composto di idee ed emozioni da condividere pacatamente, senza provare sempre e solo rabbia costante. In giorni come questi, dove il furore sta diventando stanchezza profonda e cinismo, La chimera, diretto e scritto da Alice Rohrwacher, mi regala una cascata di sentimenti teneri, di malinconia che talvolta trovo necessaria.
In Concorso alla 76ª edizione del Festival di Cannes, con La chimera Rohrwacher muove i suoi personaggi nella Tuscia (che comprende Toscana, Umbria e Lazio) degli anni 80. Un’area depressa, che sopravvive tra rovine di tufo e catacombe, con gitani e povera gente che si ritrovano in catapecchie sul litorale tirrenico per delle birre, qualche canzone, una risata sguaiata.
La chimera è certamente molte cose, tra cui un heist movie particolarmente incentrato sul matriarcato e sull’archeologia. È divertente, nonostante parli di delinquenti, d’immoralità, di fantasmi e di lutto. C’è la morte, in questo film, ma non impaurisce proprio nessuno, anzi, sembra quasi che la si voglia cercare, invitare a cena, alle feste, portare ai balli sulla spiaggia, la si prende in giro. Come richiede il genere, la storia si muove attorno a un protagonista, il “magico” Arthur (Josh O’Connor), un ragazzo inglese che non spiccica una parola se non obbligato, e che è talmente abituato a stare a testa bassa, a entrare nelle grotte e nelle tombe sottoterra, da restare un po’ piegato anche quando si muove in superficie. Si sposta quasi controvoglia, calciando sassi, rimuovendo foglie, non è un tipo da moti veloci e improvvisi. Pur non avendo mai visto in faccia il suo benefattore né sentito la sua voce, il protagonista lavora arraffando opere d’arte sepolte nelle catacombe etrusche per questa entità di cui conosce solo un nomignolo, Spartaco, e a cui consegna le sue scoperte usando uno studio veterinario come copertura. Statue, oggetti votivi, sonagli in bronzo, gioielli antichi sono la sua merce di scambio, ma resta nonostante tutto in un’assoluta povertà. Arthur vive su una scarpata, sotto mura antiche che avevano ben altre funzioni nel passato ricco e nobile dell’Italia centrale, e usa il proprio cappotto come coperta, non ha acqua corrente né un bagno, il tetto della sua capanna è una lamiera. Eppure, tra le sue mani passano marmi con figure di divinità ormai dimenticate, pezzi da museo, oggetti per cui il Louvre farebbe affari segretissimi con molti zeri.
Pur essendo un solitario, non è mai solo. Arthur ha tanti amici italiani e apolidi, che non lo abbandonano durante queste ricerche claustrofobiche in mezzo ai morti. Sono tutti tombaroli, una figura che ormai fa parte della cultura popolare e che esiste ancora oggi. Alice Rohrwacher mostra un fenomeno in corso: il mercato dello scambio di reperti d’arte rubati dalle tombe antiche sul suolo italiano, che ha permesso a intere zone economicamente depresse di cavarsela, ma che impoverisce la ricerca e la protezione archeologica di intere regioni, in particolare in Sicilia e Sardegna. Negli anni 80 e 90 il mercato nero dei tombaroli in Italia era tra i più forti e diffusi assieme a quello della droga, e se ci pensiamo bene ha molto senso. Il nostro paese è composto di opere d’arte, le calpestiamo con i nostri piedi, ci viviamo dentro, a volte le usiamo come supermercati, farmacie, negozi di vestiti in poliestere. Conosco persone che hanno a casa vasi di terracotta trovati in spiaggia o utilizzano capitelli romani come portavasi, senza che questi oggetti siano neanche visti come arte museale (e spesso mi sono trovata d’accordo con l’idea che non tutto debba finire sotto teca…). Come dice uno dei personaggi nel film, «le cose sono di tutti, ma sono di nessuno, ma sono dello Stato». Come fanno le cose a essere sia di tutti che di nessuno?
Il fascino di La chimera sta sicuramente nella sua creatività, nel racconto di un compratore di opere trafugate e di un inglese che “sente” le tombe e sta male, sviene per l’energia trasmessa, come accadeva a Dante nel suo lungo viaggio nell’aldilà. È anche l’occasione per vedere un film su (e con) persone povere, cosa non esattamente scontata in anni di film sui trentenni con l’appartamento in centro a Roma e tanti problemi di cuore. Anche Arthur ha un enorme male d’amore, perché anche i poveri hanno tempo per soffrire la perdita di qualcuno.
Arthur ama una ragazza, la figlia piccola di Flora (Isabella Rossellini), una signora che vive nel decadimento personale e fisico, in una villa affrescata in cui piove dentro. Flora viene accudita da Italia (Carol Duarte) che è amica, cameriera, madre, architetta improvvisata, cantante pessima e insegnante di italiano, pur non essendo questa la sua prima lingua. Penso che vorrete molto bene a Italia in questo film e a tante altre Italia nelle vostre vite. Quando ho visto questo film, a una proiezione di un festival a New York, la direzione aveva pensato di associarlo a un corto di Agnès Varda della durata di cinque minuti su Pier Paolo Pasolini a Times Square. Lo scrittore e regista cammina e guarda la strada attorno a sé. Varda gli chiede di parlare francese e gli fa la prima domanda: «Cosa ti ha colpito di New York?» e Pasolini risponde: «La povertà». CLARA RAMAZZOTTI
Clara Ramazzotti vive a New York, e insegna Communication and Media Studies alla Fordham University. Appassionata di musical, cinema e serie tv, collabora con le edizioni italiane di “Vanity Fair”, “Wired” e “Harper’s Bazaar”, e con le testate italiane Il Tascabile e Link – Idee per la tv.
Su Film Tv n. 20/2021, in occasione della retrospettiva sul cinema di Alice Rohrwacher curata dalla piattaforma MUBI, Emiliano Morreale ha intervistato la regista. Vi riproponiamo qui quella chiacchierata.
Accorciare le distanze - Intervista a Alice Rohrwacher
Incontro Alice Rohrwacher su Skype, con una connessione un po’ traballante. Lei è a casa, nelle campagne umbre dove vive, scrive e ha girato parte dei suoi film. L’intervista era fissata per la mattina, ma l’ha dovuta rimandare al pomeriggio per correre a piantare i pomodori, prima che arrivasse la pioggia. Il telefono non prende all’interno e Alice mi parla da un furgone parcheggiato in giardino. In questi mesi di pandemia è stata attivissima: ha presentato il corto realizzato con JR, Omelia contadina, ha girato la sua parte di un documentario collettivo, Futura, un viaggio nella gioventù italiana da nord a sud, con Pietro Marcello e Francesco Munzi. Sta per partire con un film, La chimera, sta scrivendo una serie e ha fatto delle riprese in 16 mm quasi per gioco, che con l’aiuto di Avventurosa (la casa di produzione di Marcello) e della Cineteca di Bologna sono diventate un piccolo film, Quattro strade, in esclusiva su MUBI.
Comincerei la nostra conversazione proprio da qui, da questo film di otto minuti.
È un corto nato davvero per caso. All’inizio del lockdown, nell’aprile del 2020, avevo qui in casa dei rulli con pochi minuti di pellicola scaduta e una vecchia cinepresa presa in prestito ad Avventurosa, e volevo scoprire se sarei stata in grado di utilizzarla. Era un periodo in cui dovevamo tutti stare lontani, isolati. Ho pensato: con lo zoom potrei avvicinarmi alle persone senza avvicinarmici fisicamente, e allora sono andata a trovare i miei vicini e ho chiesto loro di riprenderli. Poi ho lasciato lì i materiali, non sapevo nemmeno se la pellicola fosse rimasta impressionata, ma quando mesi dopo li ho fatti sviluppare ho pensato che dentro c’era una microstoria. Con Carlotta Cristiani abbiamo provato a disegnarla. Quattro strade è un omaggio alla pellicola, non sarebbe esistito senza, come una statua non esiste senza il suo materiale.
Puoi dirci qualcosa del nuovo lungometraggio La chimera, invece?
È un progetto nato molto tempo fa, prima di Lazzaro felice, e dovrebbe chiudere un percorso. È bello pensare al proprio lavoro come a una figura che si forma progressivamente. Mi viene in mente un racconto di Karen Blixen in cui il protagonista, in una notte di tempesta, tenta di arginare la rottura di una diga e si lancia in una folle corsa con i sacchi. Il mattino dopo, a casa sua, guarda dalla finestra e scopre che tutte le sue corse hanno creato un’immagine, quella di una cicogna. Ecco, fare questo film era una mia esigenza, dovevo finire la mia “cicogna”, una trilogia con Le meraviglie e Lazzaro felice, una riflessione comune sul senso del tempo. Nel racconto sono presenti vari “contenitori”, quello più evidente riguarda una banda di tombaroli. Ma il tema vero è appunto il rapporto degli uomini col tempo, con i fantasmi, ciò che facciamo per abitare questo mondo e relazionarci con chi c’era prima di noi. È venuta fuori una storia molto maschile, che però mantiene una dimensione misteriosa, femminile. Un film sui maschi quando erano all’apice del loro dover dimostrare di essere ancora “maschi”, dopo le battaglie del femminismo, negli anni 80.
L’uomo che non deve chiedere mai…
...E che pure ha dentro una grande fragilità. Avevo molta voglia di lavorare con una banda di uomini.
Guardàti da una banda di donne, però: tu, la direttrice della fotografia, la montatrice, la scenografa...
Sì, casualmente molti dei capi reparto già confermati sono donne.
E la serie che stai scrivendo?
Sto scrivendo un progetto per il quale la forma seriale è quasi obbligata. Da tempo volevo dedicarmi a un progetto sulle fiabe, e la fiaba è per sua natura seriale: l’antologia, la raccolta… Le storie si intrecciano, una nell’altra, una che rimanda all’altra. Sarà una serie di fiabe, quindi, in cui il desiderio di andare avanti a guardare non nascerà solo dalla suspense della trama, ma anche dal piacere del racconto, quel momento in cui qualcuno dice: «Me ne racconti un’altra?».
Anche il prossimo film lo girerai in pellicola?
Mi piacerebbe, perché la pellicola mi impone di fare del mio meglio ma mi impedisce di controllare tutto. Trovo ci sia un’analogia profonda col lavoro di mio padre, apicoltore: le api sono animali liberi e un apicoltore deve fare del suo meglio per trattenerle, ma non può costringerle o rinchiuderle; così, lavorando in pellicola, noi facciamo il nostro meglio per rendere l’immagine che vogliamo, ma non abbiamo il controllo assoluto. C’è sempre un margine di mistero, di sorpresa. Un problema del mondo digitale è il controllo eccessivo che abbiamo sulle cose: faccio una ripresa con il cellulare e subito posso rivederla, manipolarla, controllarla. Questo fa di me un essere esageratamente potente rispetto al mistero della creazione, che invece credo nasca da una collaborazione, un ascolto, e non solo da un soverchiare le cose. Il troppo controllo è un problema anche nella fruizione: ormai vedere i film sul computer vuol dire poter mettere pausa, accelerare, rallentare quando si vuole, è molto difficile ormai entrare nel ritmo di un altro, nello sguardo di un regista. Ci sentiamo onnipotenti. Invece il cinema ci dà la grande possibilità di affidarci a un racconto, a uno sguardo, è una bellissima perdita di controllo.
Il tuo sembra uno sguardo “rosselliniano”, libero, aperto all’imprevisto. Eppure le tue sceneggiature sono molto precise.
Sulla scrittura lavoro molto, anche se le sceneggiature che scrivo sono sempre più romanzesche di quelle tradizionali. Curo molto l’invisibile, per esempio inserisco lunghe descrizioni di sensazioni che in teoria rendono la sceneggiatura “sbagliata”, ma è come calarsi in un mondo. In Lazzaro felice probabilmente non esiste neanche una battuta che non fosse scritta. Anche quando c’è un senso di improvvisazione: nella scena dei contadini con il fattore, i personaggi intervengono quasi uno sopra l’altro, ma in realtà c’è dietro un’orchestrazione complessa provata per giorni.
Lo stesso vale per il tuo lavoro con gli attori. Si dice sempre: uno lavora con non attori perché sono spontanei, naturali. In realtà tu e altri registi (penso a Leonardo Di Costanzo) avete quasi inventato un nuovo metodo, con gli attori e i non attori: prove, laboratori, coaching. Praticato ora anche da produzioni più mainstream.
Il fatto è che prima di Corpo celeste non avevo mai fatto cinema, venivo dal teatro. Avevo lavorato in Vocazione/set di Gabriele Vacis, dove ho incontrato Tatiana Lepore, che è diventata la mia collaboratrice e acting coach. Una delle differenze sostanziali del cinema rispetto al teatro è che il tempo che il regista ha per stare con gli attori è sempre troppo poco in fase di preparazione. Chi viene dal teatro è abituato a un sistema intenso di prove, non solo delle scene ma anche di azioni (fisiche e non solo) che preparano l’attore allo spettacolo, esercizi per raggiungere la consapevolezza, sentire il gruppo. Noi abbiamo cercato di fare lo stesso. Io poi ho una passione per i cast misti, per il far incontrare persone che non si incontrerebbero nella vita reale: un grande attore con uno sconosciuto, un bimbo con un vecchio. Mi piace creare un gruppo forse improbabile, forse rischioso, ma emozionante, nel quale si incontra il diverso.
In fondo è un’altra nozione un po’ contadina, quella di preservare la “biodiversità” nel cast.
Sì, preservare la diversità serve a preservare il sistema immunitario: se siamo diversi non ci si ammala mai tutti insieme, il punto debole trova sempre un punto forte che lo sostiene. Secondo me gli attori professionisti funzionano meglio quando sono costretti a lavorare con i non attori, e viceversa è molto difficile lavorare con un non attore se non hai al tuo fianco un attore, un alleato che ti sostiene.
Domanda obbligata delle interviste di Film Tv: qual è il tuo film della vita?
A bruciapelo mi verrebbe da pensare a qualcosa del cinematografo delle origini, dove forse c’è più spazio per immaginare, entrare in uno spazio ancora aperto. Oppure Chaplin, non so, Tempi moderni. (Si ferma e guarda fuori dal finestrino del furgone, nda). Però fuori piove, e guardando la pioggia sui vetri mi viene in mente Il pianeta azzurro di Piavoli. Diciamo che è il film di questo momento della mia vita. Magari tra dieci minuti, quando uscirà il sole, sarà un altro… EMILIANO MORREALE
Sabato prossimo sarà il 25 novembre, la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne: ci arriviamo dopo giorni di lutto collettivo e di rabbia per l’uccisione di Giulia Cecchettin (e per le reazioni che ha generato), e intanto la conta dei femminicidi italiani continua a non dare tregua. Vi invitiamo a partecipare alle manifestazioni nazionali indette da Non una di meno a Roma e a Messina (il movimento sta organizzando pullman in partenza da diverse città), o, se non vi è possibile spostarvi, a cercare i presidi organizzati in altre città italiane.
Dal 24 al 26 novembre al cinema La Compagnia di Firenze si svolge l’edizione n. 44 del Festival cinema e donne: tra i film in programma, l’apprezzato The Green Border di Agnieszka Holland (sarà presente la regista), Malqueridas di Tana Gilbert, Hoard di Luna Carmoon e molti altri (il programma qui). Si è aperta il 21 novembre e continuerà fino al 10 dicembre, al MAXXI di Roma, No Master Territories – Feminist Worldmaking and the Moving Image, una rassegna dedicata a registe di tutto il mondo che tra gli anni 70 e 90 hanno creato nuovi linguaggi per rappresentare la condizione femminile.
Se invece avete in programma una sortita a Londra, magari durante le vacanze natalizie, fino al 1° gennaio è in corso alla Royal Academy una grande mostra retrospettiva sulla carriera cinquantennale di Marina Abramovic.