Inforcate le scope, perché l'avvicinarsi di Halloween dà l’occasione alla nostra guest Cristina Resa di mettere nero su bianco le sue ossessioni e riflettere sull’evoluzione della rappresentazione di una figura stratificata e ambigua come quella della strega all’interno del folk horror.
La strega, il mostro femminile per antonomasia, costituisce una delle figure più ambivalenti non solo del cinema, ma del nostro immaginario. Si tratta di una creatura liminale, anche in senso spaziale, perché la collochiamo ai margini - del centro abitato, della comunità, della società. È indubbiamente ambigua, in grado di suscitare, allo stesso tempo, terrore e fascino, e di incarnare concezioni opposte: da una parte una forza antisociale e malevola che minaccia la comunità, dall’altra una figura emancipatoria che sovverte i costrutti sociali legati all’idea tradizionale di femminilità. È interessante, probabilmente indicativo, che entrambe queste visioni riflettano l’idea che identifica con la strega la manifestazione di una forza distruttiva e pericolosa per l'ordine stabilito.
Da questo punto di vista, di fronte all’immagine di una strega, si tende sempre a semplificarne il significato, rintracciando gli elementi a sostegno di una concezione rispetto a un’altra, per determinare se tali raffigurazioni supportino o critichino valori e costruzioni patriarcali. Ma la strega è spesso sfuggente, e come rifiuta di conformarsi alla norma, così respinge ogni tentativo di confinare la sua portata simbolica. Questo perché affonda le sue origini tanto in un contesto popolare, folklorico, mitologico e religioso, quanto in uno storico e politico. Scegliere di portare sullo schermo un racconto di streghe, dunque, vuol dire fare i conti ogni volta con la storia millenaria che tale figura porta con sé e che, al di là delle intenzioni di chi è responsabile dell’atto creativo, diventa parte di quella narrazione. Dal lato opposto, analizzare criticamente la rappresentazione della strega comporta necessariamente la comprensione della complessità di un immaginario che ha origini tanto fantastiche quanto profondamente radicate nel quadro storico della persecuzione.
È evidente che la strega satanica come la intendiamo oggi, che ha trovato fortuna nella raffigurazione cinematografica, nasce dalle credenze nella stregoneria nell’Europa dell’età moderna e dai processi da esse derivate. Tuttavia, molte delle caratteristiche fondanti di questa costruzione nella cultura occidentale sono rintracciabili in tradizioni antichissime, vicino-orientali e classiche. Assimilabile, con alcune differenze, a creature demoniache come la Lamashtu mesopotamica o la Lamia greca, rapitrici di infanti, seduttrici e dai tratti cannibali e vampireschi, la strega conserva, anche semanticamente, un collegamento stretto con lo Strige romano, l’uccello notturno che si nutriva di sangue ed era portatore di cattivi presagi. Questa insistenza sulla mostruosità legata al consumo di sangue e carne umana, così come sulla giovane età delle loro vittime, è rimasta nella concezione popolare, filtrata attraverso suggestioni letterarie che hanno contribuito a plasmare l’idea stessa di mostruosità femminile - la Canidia di Orazio, che per mescere filtri e pozioni sacrificava vittime giovanissime - fino a fondersi in modo sincretico con altre tradizioni, come quella dei voli notturni delle seguaci di una dea celtica o germanica assimilata a Diana. Tutti questi elementi, rielaborati in un contesto cristiano, hanno prodotto l’immagine della strega che ancora oggi persiste. D’altronde, nel Malleus maleficarum, trattato in latino, tra i più consultati dagli inquisitori, compilato nel 1486 da frati domenicani, era annotato che le streghe volassero su pezzi di legno cosparsi con una pozione ricavata dal grasso di vittime in fasce.
La figura della strega, dunque, sembra più legata alla sfera del mostruoso che a quella della magia. Forse è per questo che nella sua rappresentazione il corpo, caratterizzato da stereotipi fissi, sessualizzato o reso grottesco, è sempre al centro. Innanzitutto, le streghe sono per la maggior parte femmine: sempre il Malleus rintraccia la ragione di questa predominanza femminile nella debolezza intellettuale della donna, ma anche nella sua passionalità, perché, come si legge al suo interno, «tutta la stregoneria deriva dalla lussuria della carne, che nelle donne è insaziabile».
Le streghe, nell’immaginario comune, sono spesso anziane, vestite di stracci, arcigne. Si aggirano per i boschi raccogliendo piante per scopi nefasti, almeno nella mente di chi cerca un capro espiatorio. In questo caso, l'iconografia prende spunto dalla realtà: la maggior parte delle vittime dell’Inquisizione erano donne non sposate o vedove, in età non più fertile, che vertevano in condizioni di povertà ed erano marginalizzate. Talvolta, al contrario, hanno le fattezze di giovani donne canonicamente attraenti e dunque, nelle congetture dei persecutori, predatorie e manipolatrici. D’altronde, tradizionalmente, nelle fiabe, nei racconti nelle leggende popolari, l’aspetto di una strega è spesso un inganno: la sua metamorfosi veniva considerata un prodotto dell’illusione del Diavolo.
Dunque, tra tutte le figure mostruose femminili, la strega è forse quella che presenta un’evoluzione maggiormente complessa a livello culturale e sociale, ma più radicata nell’immaginario occidentale. Non a caso, le streghe compaiono già nel cinema delle origini, in cortometraggi come Le Puits fantastique (1903) e La Fée Carabosse ou le Poignard fatal (1906) di Georges Méliès, che attingono da un contesto fiabesco che si serve delle streghe come pretesto narrativo, o come The Witch of Salem (1913) di Raymond B. West, dramma storico che si ispira alla vicenda dei processi del XVII secolo nella tristemente nota città del Massachusetts. È interessante, tuttavia, notare come già nel 1922 la figura della strega cinematografica acquisisca complessità nell’opera che, in un certo senso, anticipa il linguaggio dell’horror ancor prima che esso venga codificato: il lungometraggio svedese Häxan - La stregoneria attraverso i secoli, film muto dagli intenti documentari di Benjamin Christensen. Impressionante sia per la forza del racconto, sia per la messa in scena, che sfocia spesso nell’orrorifico e nel grottesco, Häxan traccia una storia della stregoneria ponendola in relazione con gli stili di vita rurali e suggerisce un collegamento tra la caccia alle streghe europea e le diagnosi di isteria - che naturalmente oggi sappiamo essere una malattia inventata e volta a patologizzare la condizione femminile. Il film di Christensen costitusce un esempio di come il cinema sia formidabile nel creare percorsi tra passato e presente, servendosi di vecchi modelli per veicolare nuove idee.
In un certo senso, Häxan, con la sua attenzione per il contesto folklorico e rurale, la tematica che coinvolge occultismo e psicologia e l’attenzione nel mettere in scena la tensione tra tradizione e contemporaneità, anticipa alcune delle caratteristiche di quello che oggi definiamo folk horror. Adam Scovell, nel saggio Folk Horror: Hours Dreadful and Things Strange (2017), tra i primi a isolare gli aspetti formali di questo filone sviluppatosi in Gran Bretagna tra gli anni 60 e 70, arriva a identificarlo come il primo esempio completo di orrore popolare. Scovell traccia un ponte tra le epoche tra il documentario di Christensen e il found footage a bassissimo budget di Daniel Myrick e Eduardo Sánchez, The Blair Witch Project (1999), identificando nell’adesione al linguaggio documentaristico di entrambe le opere l’occasione per produrre «un orrore psicologizzato e profondamente efficace attraverso il potenziale di una sociologia rurale alternativa, invisibile e sotterranea».
La strega, dunque, trova una sua centralità proprio in un filone, il folk horror, caratterizzato da una certa ambiguità nei confronti della sua materia narrativa. Ma cos’è, di fatto, il folk horror?
Prima di iniziare, una precisazione: quando parliamo di folk horror ci troviamo di fronte a un termine retrospettivo, inizialmente riferito a una tipologia di film per il cinema e la tv in voga nel Regno Unito negli anni 60 e 70. La sua prima ricorrenza si deve al regista Piers Haggard, autore di La pelle di Satana (The Blood on Satan's Claw, 1971), in una sua intervista del 2003 apparsa su “Fangoria” ed è tornato in auge nel 2010 grazie ad A History of Horror, documentario di Mark Gatiss di BBC. Proprio La pelle di Satana, insieme a Il grande inquisitore (Witchfinder General, 1968) di Michael Reeves e The Wicker Man (1973) di Robin Hardy, che insieme formano l’unholy trinity del cinema britannico, sono stati presi a modello per isolare alcune caratteristiche identitarie del folk horror. Non sono certo i primi né gli unici film inglesi costruiti intorno a motivi folklorici, ma sono quelli che hanno avuto il maggiore impatto culturale e presentano tratti comuni sostanziali.
Innanzitutto potremmo definire un folk horror come una narrazione costruita intorno a quello che il docente e critico Mikel Koven, riprendendo un concetto formulato dal professore di storia e cultura cinese Juwen Zhang, chiama filmic folklore, "folklore filmico”: un insieme di credenze popolari spesso ispirate a contesti sociali, storici, geografici e culturali reali, altre volte ibridate o del tutto inventate, che funzionano da sostrato per impostare un racconto dell’orrore. Scovell per primo ha rintracciato nei folk horror alcuni elementi identitari, come la rurality, “ruralità”, non intesa come mero scenario, ma come ambiente non familiare che nasce dalla mescolanza del contesto contadino concreto e la presenza dell'elemento weird, strano, insolito, perturbante. Aspetto che, proprio per questo motivo, si può rintracciare anche in film come Kill List (2011) di Ben Wheatley, folk horror di ambientazione urbana che ha rilanciato il genere in Inghilterra. La ruralità, in qualche modo, ha a che fare con la situazione di isolamento, fisica e psicologica, che ogni protagonista di un folk horror si trova ad affrontare nel corso della narrazione.
L’altro elemento fondante di un’opera appartenente al filone è l’hauntology, concetto coniato dal filosofo Jacques Derrida e poi utilizzato da Mark Fisher e Simon Reynolds per descrivere una precisa estetica musicale. Anche l’hauntology si riferisce a una situazione di disgiunzione, questa volta non spaziale ma temporale. È “ciò che non è né presente, né assente, né morto" e potremmo semplificare il concetto descrivendolo come il passato che infesta il presente. Ed è proprio attraverso l’hauntology che in un folk horror si costruisce quel conflitto tra antico e contemporaneo che ci permette di impostare una riflessione critica nei confronti di quello che vediamo sullo schermo, anche quando nella narrazione emerge una certa ambiguità del racconto. La verità, tuttavia, è che non si tratta solo di mettere in scena uno scontro tra il vecchio e il nuovo, ma di evidenziare come queste siano tutte problematicità che persistono nella società. Nel sottotesto di questi film, infatti, si possono rintracciare temi ricollegabili a dibattiti sociali in corso nel momento della loro realizzazione, che emergono attraverso la contrapposizione di differenti sistemi etici o religiosi.
Due dei film di questa trilogia ideale popolare, Il grande inquisitore e La pelle di Satana, forniscono una rappresentazione della strega satanica nell’Inghilterra rurale del XVII secolo, mentre in The Wicker Man, ambientato in epoca contemporanea, tale figura viene legata a un contesto neopagano, ispirata dalle teorie - affascinanti ma prive di fondamento scientifico - di Margaret Murray, che vedeva nella stregoneria il residuo di un antico culto pre-cristiano della fertilità. La presenza delle streghe, in queste storie, non costituisce solo un elemento dell’intreccio, un’occasione per suscitare nel pubblico le emozioni forti e viscerali che stanno alla base del linguaggio orrorifico, ma funge da prisma: a seconda di come lo si guarda, svela una realtà sfaccettata, capace di evidenziare diversi aspetti sia del contesto che ha prodotto queste opere, sia della portata simbolica di tale motivo all’interno di una narrazione.
D’altronde, il folk horror non è un sottogenere tradizionalmente incline a fornire soluzioni, fissare direttive morali o etiche, dare messaggi univoci. È un tipo di narrazione che rinuncia a tracciare confini tra giusto e sbagliato. È ambiguo, esattamente come l’immagine della stregoneria che spesso troviamo al suo interno, e si presta a essere riletto attraverso diverse lenti, anche utilizzando gli strumenti della critica femminista. Inutile dire che queste letture, talvolta opposte, finiscono sempre per essere incredibilmente stimolanti. Molti critiche e critici hanno notato come questi film, in cui spesso gli apparenti antagonisti sono proprio gruppi sociali che rifiutano le norme della struttura dominante, possano essere interpretati allo stesso tempo come reazionari o progressisti.
È chiaro che, come nel caso della figura della strega, attribuire ai folk horror letture manichee non solo è formalmente scorretto, ma non è nemmeno interessante. Il filone, infatti, emerge proprio negli anni della controcultura, della liberazione culturale e sessuale, caratterizzati dalle proteste operaie e moti giovanili: un periodo storico in cui le persone, soprattutto giovani, hanno smesso di credere nei valori della vecchia generazione e ne hanno rigettato i costumi. Il folk horror britannico degli anni 60 e 70 si colloca quindi in questa intersezione di sentimenti contrastanti. Talvolta, per il modo in cui mette in evidenza la crisi dell’autorità patriarcale a più livelli, sembra manifestare un certo interesse per le istanze controculturali, senza comunque mai aderirvi.
In Il grande inquisitore, horror che affonda le sue radici nella tradizione gotica in stile Hammer nel raccontare le nefandezze di Matthew Hopkins (Vincent Price) proclamatosi “inquisitore” nell’Inghilterra del 1645, viene delineata un’immagine del potere istituzione corrotta e crudele. E anche quando Reeves sembra guardare al passato storico delle persecuzioni, rivolge invece lo sguardo verso il proprio presente, mettendo il pubblico di fronte a un racconto in cui riconoscere la propria misoginia. In La pelle di Satana, invece, il male emerge dalle profondità del paesaggio, letteralmente dalla terra, quando un agricoltore scopre alcuni resti misteriosi mentre sta arando un campo. In seguito nel villaggio iniziano a verificarsi fatti strani che culminano nella possessione demoniaca collettiva della gioventù locale: catalizzatore di questa attività demoniaca è l’adolescente Angel Blake, strega attraente, malvagia ed erotizzata, soggiogata da un’influenza maligna, che via via assume connotati grotteschi e che sembra aderire allo stereotipo che stiamo analizzando qui. Guardando più da vicino, anche in La pelle di Satana è presente il tema dell’instabilità dell’autorità, incarnata da un giudice locale, che riesce a imporsi soltanto dopo aver annientato quell’elemento non conforme allo status quo che ha osato metterlo in discussione.
Infine, The Wicker Man sembra fare un ulteriore sforzo nel portare avanti una critica più strutturata del potere, attraverso la contrapposizione di due sistemi sociali, religiosi ed etici. La visione cristiana e puritana del sergente Howie, arrivato dalla terra ferma sull’isola di Summerisle per indagare sulla misteriosa sparizione di una bambina, e quella della gente locale che pratica una religione ispirata all’antico culto solare di Nuada, sono in qualche modo l’una lo specchio dell’altra. È interessante sottolineare un particolare che spesso sfugge a una lettura superficiale dell’opera: la religione pagana praticata sull’isola, che rievoca l’atmosfera di liberazione della controcultura, è una costruzione artificiale filtrata da un immaginario vittoriano. Si tratta infatti di una strategia messa in atto dall’agronomo proprietario dell’isola, il nonno del bizzarro leader di Summerisle interpretato da Christopher Lee, per aumentare l’appagamento e quindi la produttività di lavoratrici e lavoratori. È proprio attraverso il confronto che questi due sistemi rivelano le reciproche problematicità, ma è indubbio che sia molto più facile simpatizzare con la gente di Summerisle che con Howie, troppo impegnato a negare ferocemente che possa esistere un’esperienza religiosa diversa da quella cristiana.
E così il sergente, che dovrebbe essere l’eroe, è caratterizzato da una certa sgradevolezza, un cieco bigottismo e alla fine assume il ruolo del fool, il matto. In questo contesto è possibile isolare alcune figure femminili assimilabili a streghe, presentate come membri stimati e influenti della comunità, all’interno di un culto istituzionalizzato. Queste donne mostrano indipendenza ed emancipazione, associate a una spiccata libertà sessuale. Willow, personaggio femminile centrale interpretato da Britt Ekland, acquisisce quasi i connotati di una divinità della fertilità. L’autonomia di queste figure, però, si rivela illusoria nel momento in cui appare chiaro come anche loro siano chiamate ad aderire a una forma di religione soggetta all’autorità di un leader, peraltro di genere maschile, che costituisce, analogamente a quella cristiana, una forma di controllo. In ogni caso, l'ambiguità di The Wicker Man nel delineare l'orizzonte etico e la ricchezza del suo sottotesto, permettono di dare al film un’interpretazione progressista, almeno nella critica che viene portata avanti verso il potere - che, di fatto, è un costrutto patriarcale - e di suggerire alcune riflessioni di carattere femminista sulla figura della strega.
Di contro, il remake di The Wicker Man del 2006 con Nicolas Cage, uscito in Italia con il titolo Il prescelto e diretto da Neil LaBute, fa il madornale errore non solo di non comprendere appieno la complessità del sottotesto del modello, ma di fraintenderne lo stesso spirito. LaBute, che firma anche la sceneggiatura, trasforma infatti la comunità dell’isola in un matriarcato crudele e sadico dedito alla stregoneria neo pagana con a capo Sorella Summerslsle (Ellen Burstyn), raccontando una storia reazionaria e misogina in cui i rapporti di potere vengono ribaltati ed emergono tutte le paure maschili di “castrazione” incarnate dal mostruoso femminile teorizzato da Barbara Creed nel saggio The Monstrous-Feminine (1993), passaggio obbligato per chiunque voglia utilizzare gli strumenti della critica femminista nell’analisi del cinema horror.
Ciononostante, il folk horror nell’ultimo decennio ha trovato nuova forza propulsiva ed è stato declinato attraverso diverse esperienze culturali. Parallelamente, la figura della strega è stata esplorata da nuove angolazioni, aggiungendo ulteriori capitoli alla lunga storia della sua rappresentazione. Centrale, in questo percorso, è sicuramente The Witch, film del 2015 scritto e diretto dal regista statunitense Robert Eggers con Anya Taylor-Joy nel ruolo di Thomasin, adolescente del New England nel XVII secolo, viene costretta ad allontanarsi con la famiglia dalla comunità puritana di appartenenza a causa dell’estremismo religioso del padre predicatore. Insieme alla famiglia si stabilisce in una fattoria isolata ai limiti di un fitto bosco, per coltivare granturco. La sventura sembra abbattersi su di loro quando il fratello neonato Samuel, affidato alle cure della ragazza, svanisce nel nulla. Nella famiglia comincia a serpeggiare non solo il sospetto che Samuel sia stato rapito da una strega dei boschi, ma che Thomasin abbia firmato il libro del Diavolo.
Eggers, anche attraverso una ricerca attenta sulle fonti, diari e atti giudiziari dell’epoca, si affianca alla tradizione del folk horror inglese degli anni 60 e 70, riuscendo a reinterpretare in maniera originale e personale alcune delle caratteristiche fondative del filone. In modo particolare, si concentra sulla rappresentazione della strega, frutto di secoli di stratificazione, contestualizzata all’interno di una costruzione folklorica e storica rigorosa e inedita. Il regista accoglie nella narrazione lo stereotipo della strega satanica, per indagarlo con gli strumenti formali del linguaggio cinematografico, in particolare del genere horror: si affida al perturbante per impostare il tono, attraverso immagini evocative e una grande cura del suono, elementi capaci di suscitare nel pubblico risposte fisiche ed emotive istintive e profonde. Eggers sceglie la strada della ricostruzione minuziosa, non solo della realtà storica, ma soprattutto dell’esperienza magica. Ricrea l’ambientazione, i costumi e i rituali e cura in modo particolare la lingua, utilizzando per i dialoghi un inglese arcaico e inserendo nella sceneggiatura interi stralci presenti nella documentazione d’epoca. La cura nel ricostruire il contesto sembra rispondere a una chiara esigenza: calarsi in quello che lo storico delle religioni Ernesto de Martino chiama “mondo magico”, ovvero un’idea che colloca in un quadro storico un certo tipo di esperienza collegata alla dimensione dell’irrazionale e della superstizione. Peraltro, la particolare attenzione di The Witch alla ricostruzione storico-religiosa porta immediatamente alla mente un capolavoro spesso dimenticato del cinema italiano, Il Demonio (1963) di Brunello Rondi, in cui il complesso magico-rituale lucano viene accuratamente ricostruito basandosi sull'indagine etnologica proprio di Ernesto De Martino documentata nel saggio Sud e Magia (1959). Anche in quel caso la realtà storica e la sensibilità magica si mescolavano nel raccontare la vicenda di Purif, una donna dalla potente carica erotica e dal comportamento non conforme alla moralità vigente, percepita come pericolosa per l’ordine patriarcale e accusata di essere una strega posseduta da demoni.
Per chi fa parte di questa dimensione culturale, il soprannaturale permea la vita quotidiana ed è reale sia a livello soggettivo che collettivo. Analogamente, la magia rituale, che comprende anche le pratiche religiose atte a scacciare il male, rappresenta un insieme di tecniche elaborate dall'essere umano per difendersi dalla “crisi della presenza”, dal rischio di “non esserci più” a causa di forze negative e incontrollabili. In questo quadro, il femminile diventa, come sostiene Julia Kristeva nel seminale saggio Poteri dell'orrore (1981), «sinonimo di un male radicale che deve essere soppresso». All'interno di questo orizzonte, la strega figura come una manifestazione di questo negativo: è il mostro femminile connesso alla sessualità che incarna le paure maschili di castrazione, espressione dell’abiezione che «turba un’identità, un sistema, un ordine». Eggers sceglie di mostrarci la strega come appare nell’immaginazione di chi si sente minacciato da lei. Come scrive il filosofo francese René Girard nel saggio Il capro espiatorio (1982), «i persecutori raffigurano la loro vittima così come la vedono veramente e cioè colpevole, ma non nascondono le tracce oggettive della loro persecuzione». Nemmeno Robert Eggers, nella messa in scena di quello che di fatto è un dramma familiare, nasconde le tracce della logica persecutoria, ma anzi le rappresenta in modo letterale, violento e brutale, traducendo in immagini la psicosi collettiva legata alla suggestione che interessa tutta la famiglia di Thomasin e che trasforma la giovane, adolescente, che sta vivendo un cambiamento sia fisico che psicologico, in una vittima della persecuzione.
The Witch, da questo punto di vista, costituisce un’opera interessante perché non si limita a indagare lo stereotipo della strega, ma porta avanti un lavoro critico sul contesto in cui le stesse streghe sono create, mettendo in scena un mondo dominato dalla paura, alla continua ricerca di un capro espiatorio, nel costante tentativo di sopprimere desideri e impulsi, in particolare femminili.
Così, nel corso della narrazione partecipiamo al “dramma esistenziale magico”: osserviamo una donna anziana e solitaria, che vive ai margini del bosco, spalmarsi un unguento ricavato, esattamente come quello citato nel Malleus Maleficarum, dalla carne e il sangue di un bambino; vediamo un altro fratello di Thomasin, Caleb, in preda a un delirio mistico dopo essere stato sedotto da una giovane nel bosco che si è trasformata sotto i suoi occhi in una creatura avvizzita; sentiamo i gemelli Mercy e Jonas mentre conversano con Black Phillip, il caprone nero di famiglia; compartecipiamo all’allucinazione della madre Katherine, convinta di allattare il suo neonato, mentre un corvo le sta beccando il seno; infine, accettiamo l’invito di Black Phillip a “vivere deliziosamente”, partecipando al sabba delle streghe, in un atto di ribellione che ci permette, insieme a Thomasin, di liberarci dall’oppressione delle strutture patriarcali familiari e religiose. In quest’ultimo momento, il meccanismo di costruzione del racconto si svela, il punto di vista cambia, usciamo dalle logiche persecutorie e adottiamo lo sguardo della protagonista oppressa, riuscendo a problematizzare l'esperienza appena fatta.
Dunque, se The Witch ci permette di immergerci nel "mondo magico", facendoci partecipare all'angoscia collettiva derivata dalla crisi della presenza e mettendo in scena le fantasie persecutoria nel New England puritano, Il sabba (Akelarre, 2020) di Pablo Agüero, co-scritto insieme a Katell Guillou, ambientato nel 1609 nei Paesi Baschi, ci mostra i meccanismi alla base della creazione dei resoconti presenti negli atti dei processi alle streghe. Nonostante Il sabba formalmente non si presenti come un folk horror, e non abbia la complessità di The Witch, rappresenta quasi il suo reciproco. Agüero e Guillou costruiscono l'intera narrazione sul conflitto generato da punti di vista opposti: da una parte Ana e altre ragazze accusate di stregoneria, legate ancora alla dimensione dell'infanzia, tra canti e danze; dall'altra l’inquisitore Rostegui, detentore del potere patriarcale, caratterizzato dalla corruzione e da una frustrazione di natura sessuale. Quando questa tensione arriva al culmine, Ana è costretta a descrivere con minuzia di particolari un sabba mai avvenuto, trasformando i canti e i balli dell'infanzia in litanie rituali di evocazione. Così, la realtà delle donne perseguitate e le fantasie dei loro persecutori si mescolano in una narrazione discordante che trasforma il racconto orale in immagine, in modo simile a quanto accadeva nel film di Eggers. Da questo punto centrale nella costruzione di Il sabba, Ana decide di assumere il ruolo che Rostegui le attribuisce, ovvero quello di una strega, una bruja, rivendicando per sé e per la sorellanza quella sensualità considerata dagli inquisitori la manifestazione di una forza distruttiva e sovversiva femminile. In questo mio percorso sulle tracce della strega nel folk horror risulta chiaro che, nonostante tale stereotipo sia frutto di una mentalità patriarcale, la sua contestualizzazione all’interno di un preciso folklore filmico ci permette di valutarne la portata culturale, creare percorsi all’interno dell’evoluzione dello stereotipo, in un cammino di decostruzione e ricostruzione per poterci riappropriare di una figura certamente ambigua, ma dall’enorme carica sovversiva.
CRISTINA RESA (co-conduttrice del podcast Incompetenti, autrice per IGN Italia, collaboratrice della newsletter Ghinea; qui il suo profilo Letterboxd)
A Bologna, dal 31 ottobre all'11 novembre è tempo di Gender Bender Festival: danza, arti visive, cinema, e letteratura per esplorare gli immaginari culturali e artistici legati al corpo e al genere. Tra gli eventi di questa edizione: la mostra fotografica di Jess Dugan, la prima nazionale di Atlas da Boca della coreografa trans brasiliana Gaya De Medeiros, e tanto cinema, tra cui la première italiana del doc Acsexybility di Daniel Gonçalves, su sessualità & disabilità, l'erotismo surreale di Piaffe di Ann Oren, e il Conan rivisitato in chiave femminile da Bertrand Mandico in She Is Conann.
Parte il 1° novembre, alle 21.10 su RaiStoria, la quarta edizione di Il segno delle donne, serie di interviste fittizie a figure femminili esemplari della Storia italiana. Sei attrici, intervistate da Angela Rafanelli, incarnano altrettante donne che hanno lasciato il segno sulla cultura e la società italiane, tra cui Tosca D’Aquino nelle vesti di Titina De Filippo, Donatella Finocchiaro in quelle di Maria Montessori e Ilenia Pastorelli come Marta Abba.
Si intitola La salute femminile va in scena la collaborazione nata fra il Teatro Carcano di Milano e il centro Humanitas per lei dell’ospedale Humanitas San Pio X di Milano: dal 28 ottobre, due laboratori teatrali gratuiti in ospedale, con l'obiettivo di sensibilizzare sulla prevenzione e di abbattere il tabù sulla salute femminile. Il primo laboratorio, in programma sabato 28 ottobre, è dedicato alla menopausa; il secondo, sabato 18 novembre, alla maternità. Partecipazione gratuita con prenotazione obbligatoria su www.humanitas-sanpiox.it
Per approfondire i temi trattati in questo numero da Cristina Resa, ecco una bibliografia essenziale:
● Scovell, Adam. 2017. Folk Horror: Hours Dreadful and Things Strange, Auteur Pub
● Koven, Mikel J. - Sherman, Sharon R. 2007. Folklore/Cinema: Popular Film as Vernacular Culture, University Press of Colorado, Utah State University Press
● Russell, Sharon (1984); The Witch in Film: Myth and Reality, in Barry Keith Grant, ed., Planks of Reason: Essays on the Horror Film, Metuchen, NJ: Scarecrow.
● Creed, Barbara. 1993 The Monstrous-Feminine: Film, Feminism, Psychoanalysis, Routledge
● Creed, Barbara. 2022 Return of the Monstrous-Feminine: Feminist New
Wave Cinema, Routledge
● Kristeva, Julia. 1981. Poteri dell’orrore. Saggio sull’abiezione, Spirali, 1981
● Corsi, Dinora. 2013. Diaboliche maledette e disperate: le donne nei processi per stregoneria (Secoli XIV-XVI). Firenze: Firenze university press.
● Hutton Ronald. 2021. Streghe. Una storia di terrore dall’antichità ai giorni nostri. Milano: Il Saggiatore.
● Girard, René. 2020. Il capro espiatorio. Milano: Adelphi.
● De Martino, Ernesto. 1973. Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo. Terza Edizione (2007). Universale Bollati Boringhieri. Bollati Boringhieri
Singolare, femminile si prende una pausa per Ognissanti, ci rivediamo l’8 novembre.
È spettacolare sentire parlare così bene di un genere e di come riesce a evolvere costruendo, distruggendo e ricostruendo le sue figure. Viva le streghe!