Singolare, femminile ♀ #111: Donne in carriera
Il thriller Fair Play di Chloe Domont, su Netflix, inquadra in modo impietoso la guerra dei sessi in un ambito aziendale ultra competitivo: cogliamo l’occasione per stilare un elenco di film e serie tv che hanno impresso nell’immaginario collettivo la figura - la fatica, l’ambizione, le contraddizioni - della businesswoman.
«È tanto difficile credere che ho avuto il posto perché sono più brava?» esplode esasperata Emily, la protagonista di Fair Play, su Netflix, esordio nella regia di un lungo per la californiana Chloe Domont, classe 1987, una carriera da regista televisiva (tra le tante serie, Ballers e Billions), che con questa sua opera prima è stata in gara al Sundance Festival 2023. La risposta alla domanda di Emily (interpretata dall’ottima Phoebe Dynevor di Bridgerton) è, tristemente e ovviamente, sì: sì, è difficile per tutti credere che la promozione di una giovane donna nell’arrembante società finanziaria dove lavora sodo da due anni, e dove è una delle pochissime donne assunte, sia davvero frutto della sua superiore efficienza o bravura. Nonostante Emily non abbia raccomandazioni né santi in paradiso, nonostante abbia spesso lavorato il doppio dei colleghi maschi, solo per ottenere a malapena la medesima considerazione, l’opinione generale è che probabilmente per accaparrarsi il posto abbia ceduto alle avance del capo, oppure che il suddetto capo l’abbia promossa nella speranza di ottenere successivi favori sessuali.
Erroneamente venduto come “thriller erotico”, Fair Play è in realtà un ritratto impietoso e affilato del mondo lavorativo e delle infinite sfumature che alimentano il gender gap, la distanza - non solo economica - tra uomini e donne nel medesimo posto di lavoro. E non solo sul lavoro: quello del film è un dramma che si consuma soprattutto tra le mura domestiche, perché Emily, all’insaputa di chiunque in ufficio, è fidanzata con un collega, Luke (Alden Ehrenreich); ogni giorno fingono indifferenza, ciascuno seduto alla propria postazione nello stesso open space, prima di tornare ogni sera nell’appartamento che condividono e ai sogni che coltivano insieme. Si amano, convivono e progettano di sposarsi, ma devono tenere nascosta la relazione, che andrebbe contro la rigida policy aziendale. La promozione della donna a un ruolo per il quale entrambi i componenti della coppia erano ipoteticamente in lizza (Luke, anzi, era dato per favorito, prima che il capo scegliesse invece Emily) innesca un gioco al massacro subdolo e sinistramente realistico nel suo crescendo, che vede la complicità dei due cedere il passo all’invidia, al sospetto, infine alla vera e propria violenza.
Domont costruisce il film con la virulenza di un manifesto femminista che non fa sconti a nessuno, nemmeno alla sua protagonista, rapidamente risucchiata nel gioco di esasperato e immaturo “celodurismo” che la sua nuova posizione le richiede, e decisa a mantenere i favori dei colleghi (tutti maschi, a quel livello) comportandosi come una di loro: cinica, volgare, non batte ciglio quando si tratta di andare a coprire di banconote le spogliarelliste di un night, e non esita a ubriacarsi ogni sera con loro per dimostrare di essere una dei ragazzi. Adattarsi, aderire alle aspettative è l’unica strategia che Emily conosce, l’unica via di sopravvivenza in un mondo del lavoro sessista e iper competitivo, e il quotidiano, logorante gioco di rimodellamento di sé sui desideri e sulle proiezioni dei maschi intorno a lei (i colleghi come il compagno) è l’aspetto più terrificante del film. Roso dall’invidia, dalla sensazione che quella opportunità sia stata scippata a lui, e ferito nell’orgoglio virile dal fatto di avere, ora, una compagna che guadagna più di lui e può offrirgli cene in ristoranti stellati, Luke esercita, più o meno consapevolmente, ulteriori pressioni su Emily, instillandole per esempio un gratuito senso di vergogna per il suo modo di vestire sul lavoro, elegante e castigato ma sempre molto femminile, spingendola addirittura a rimpiazzare le camicie di satin rosa con punitivi dolcevita neri.
L’intesa erotica tra i due, dipinta come fortissima all’inizio del film, si inabissa con l’emergere dello squilibrio di potere nella coppia, con Luke - vero e proprio emblema, ai limiti del didascalico, di tutto ciò che possiamo etichettare sotto il nome di fragile masculinity - di colpo incapace di provare desiderio per una donna che, ora, è più potente, più ricca, più promettente di lui, e che per di più ha la chance di mettere una buona parola per la promozione di lui. In una significativa scena, Emily cerca di riconquistare il compagno proponendogli una fuga romantica; digita e cancella diversi messaggi, tentando un approccio ironico, uno sessualmente provocante, uno sottomesso, e così via… cercando di indovinare quale versione di sé sarà quella più accettabile. Il fair play, ovvero la correttezza, la sportività, è un obiettivo irraggiungibile in un campionato falsato, dove ogni giocatore di sesso maschile si sente legittimato a vincere, dà per scontato il proprio valore, e dove invece ogni outsider di sesso femminile deve prima diradare il sospetto di non essersi guadagnata quella stessa vittoria. In un crescendo di colpi bassi il film racconta la spirale inesorabile lungo la quale i protagonisti discendono, fino alla conclusione raggelante (per chi scrive tra le cose più interessanti), dove tutto si riduce alla necessità di esigere dagli uomini ciò che gli uomini sanno fare peggio: chiedere scusa.
Nel suo militante schematismo, nella sua semplificazione delle situazioni - che però non corrisponde a un appiattimento dei caratteri, tra cui spicca anche lo spregevole, ma azzeccatissimo, capo incarnato da Eddie Marsan (solo vagamente, svogliatamente sessista, ma invero perfido con tutti i suoi sottoposti, indipendentemente dal genere) - Fair Play delinea uno scenario survoltato ma tristemente familiare, che mette in fila situazioni crudelmente realistiche e apparentemente senza scampo: cosa può fare una donna per guadagnarsi la legittimità della sua bravura e della sua carriera? Quanto lo sguardo altrui incide sulla sindrome dell’impostore che investe tante affermate professioniste? E qual è il prezzo - emotivo, familiare, relazionale - dell’essere “donna di potere”?
Il film ci ha dato lo spunto per tracciare una sintetica storia della businesswoman nell’audiovisivo, in 15 tappe (giocoforza non esaustive, ma emblematiche) tra piccolo e grande schermo. 15 esempi di manager, dirigenti, CEO, avvocate, lobbiste o squali della finanza, che hanno dato forma - nel bene e nel male - alla figura che il nostro immaginario evoca quando si parla di “donna in carriera”.
Mary Tyler Moore creata da James L. Brooks, Allan Burns 1970-1977
«You’re gonna make it after all» cantava la sigla di questa serie seminale, esaltando da subito le qualità di una donna capace di farcela «per conto suo», e il personaggio di Mary Richards fu una vera rivoluzione nella rappresentazione del femminile sul piccolo schermo, introducendo nei salotti di tutta America (e non solo) la figura di una donna single, ambiziosa, determinata sul lavoro. Con una vita sentimentale e sessuale attiva, ma non sposata; con una carriera nella produzione televisiva per la quale combatteva, chiedeva aumenti, e dalla quale ricavava soddisfazione.
Dalle 9 alle 5… orario continuato di Colin Higgins 1980
Segnalata ben due volte nella nostra newsletter speciale dell’8 marzo, questa commedia degli equivoci con un trio di portentose interpreti (Dolly Parton, Jane Fonda, Lily Tomlin) mette in scena un’ironica utopia femminista dove tre segretarie, preso in ostaggio il tirannico capo, ne simulano la presenza in azienda approfittandone per migliorare significativamente la qualità del lavoro. Donne in carriera dal grande potenziale, nascoste dietro la sagoma di un padrone fantoccio, ma molto più capaci di lui. Su Disney+
Baby Boom di Charles Shyer 1987
Da businesswoman a madre (per caso): una strepitosa Diane Keaton è la classica donna in carriera degli edonisti Eighties, rampante e abituata a uno stile di vita costoso, finché non le casca addosso la responsabilità di una bimba di cui è l’unica parente in vita. Nei toni e ritmi da commedia si innesta la rappresentazione dell’inconciliabilità (socialmente indotta, non reale, eppure ineludibile) della carriera con la maternità; la protagonista è costretta a lasciare New York e il suo lavoro, ma si reinventa imprenditrice di apprezzate pappe per neonati, (ri)costruendosi uno status a dispetto delle regole sessiste dell’industria.
Una donna in carriera di Mike Nichols 1988
Un classico del genere, e un film ancora assai attuale, dove Nichols delinea con la sua consueta, strabiliante precisione per gli ambienti (quella memorabile, eloquente inquadratura finale che relega la protagonista a una casella su mille della giungla d’asfalto) le ipocrisie e i veleni del mondo della finanza. Mettendo a confronto due modelli di career girl: la dispotica boss interpretata da Sigourney Weaver e l’arrembante Tess di Melanie Griffith, che si finge dirigente per difendere le sue talentuose e inascoltate idee. Con Harrison Ford irresistibile spalla comico/romantica, nonché oggetto sessuale conteso. Su Disney+
Rivelazioni di Barry Levinson 1994
La premessa di Fair Play ricorda moltissimo quella di uno dei thriller erotici più significativi degli anni 90, tratto dalle pagine di Michael Crichton: anche qui l’affermato Michael Douglas si vede “soffiare” la promozione che credeva di avere già in saccoccia da parte di una collega, interpretata da Demi Moore. Ma in questo caso la donna approfitta senza scrupolo dello squilibrio di potere, molestando sessualmente il sottoposto e ricattandolo, in un ribaltamento dei ruoli che trasforma la vorace femme fatale nell’incarnazione (controversa: la critica del “New York Times” Janet Maslin disse che, a differenza di Jurassic Park, in questo caso era l’autore a essere «un dinosauro») del terrore maschile di fronte al potere femminile in ambito aziendale. Su Rakuten Tv
Funny Money di Donald Petrie 1996
Era l’epoca di Mrs Doubtfire, e una Whoopi Goldberg in “white face” oggi ci lascia forse un po’ perplessi, ma questa satira en travesti di un quarto di secolo fa aveva un’angolazione non lambiccata: l’unico modo per una donna nera di trovare un lavoro all’altezza delle sue aspettative è… spacciarsi per un uomo bianco. Quella incarnata da Goldberg è un’analista finanziaria molto simile alla Emily di Fair Play: brava, efficiente, seria, ma continuamente scavalcata dai colleghi maschi. Per essere presa sul serio le tocca inventarsi un “socio” che interpreta grazie a parrucca e protesi, ma sbarazzarsi di questo collega maschio, perfino se tecnicamente inesistente, si rivela molto più complicato del previsto. A suo modo, un film emblematico.
Ally McBeal creata da David E. Kelley 1997-2002
Single e in carriera, la nevrotica Ally/Calista Flockhart è per molti versi l’erede seriale della pioniera Mary Tyler Moore, avvocata rampante i cui guai professionali e sentimentali (e sessuali, in questo caso) vanno di pari passo nella struttura narrativa dello show. Che mette in scena la guerra dei sessi in ambito aziendale con piglio innovativo a partire dalla trovata, assai fertile nel corso delle annate, del celebre bagno unisex: toilette non divise per genere, che diventano ambientazione di alcuni dei momenti clou della serie.
Cuore sacro di Ferzan Ozpetek 2005
Uno dei pochi veri casi di rappresentazione della businesswoman nel cinema italiano (la questione è culturale, ma affonda ovviamente nella schiacciante minoranza di donne dirigenti nel nostro paese), il film più anomalo nella filmografia del regista italoturco attinge a piene mani dal mélo per raccontare la parabola di Irene Ravelli (una dolente Barbora Bobuľová), manager spietata e distaccata che vive una vera e propria conversione affettiva (un burnout, in fondo, raccontato con toni mistici) ai limiti del francescano, spogliandosi (letteralmente) di tutto. Su Disney+
Il diavolo veste Prada di David Frankel 2006
Di dirigenti di sesso femminile, invece, ne abbiamo ormai viste tante nella commedia americana degli ultimi 20 anni, ma nessuna è diventata - e rimasta - icona quanto Miranda Pristley/Meryl Streep. Algida e anaffettiva, impeccabile e disincantata, dietro la piega perfetta cela forse un cuore spezzato, ma non lo darà mai a vedere. Di commedie che hanno giocato - ora in modo ironico, ora in modo irricevibilmente reazionario - con l’inconciliabilità dei ruoli professionali e affettivi per una donna ce ne sono a iosa: citiamo, tra le tante, la Sandra Bullock in cerca di finto fidanzato di Ricatto d’amore, la multitasking Sarah Jessica Parker di Ma come fa a far tutto? e la fraudolenta Melissa McCarthy di The Boss. Su Disney+
Mad Men creata da Matthew Weiner 2007-2015
Nella serie capolavoro di Weiner, le donne per ogni passo avanti sono costrette a farne due indietro: Peggy e Joan, efficienti e ambiziose, talentuose e cocciute, lottano con tutte le forze per ottenere, prima ancora che un salario equo, il rispetto dei colleghi maschi nell’agenzia pubblicitaria al centro della serie. E spesso lottano invano. Ma le loro parabole di emancipazione, che le portano infine a unirsi fuori dai corridoi dell’agenzia dove, per anni, per loro non c’è stato mai un “grazie”, sono tra le più significative di una serie che parla dei Sixties ma tanto dice del nostro presente. Su Prime Video, NOW
The Good Wife creata da Robert King, Michelle King 2009-2016
Un procedurale giudiziario, con i classici “casi di puntata”; ma sotto la superficie del legal drama si sviluppa, nel corso delle stagioni, l’arco di trasformazione della protagonista, l’avvocata Alicia Florrick (la magnifica Julianna Margulies), che da moglie modello muta pelle in una career woman, affrontando le proprie contraddizioni, la propria ambizione, il proprio desiderio di non essere più solo wife e certamente non solo good. Su Paramount+
Enlightened creata da Mike White, Laura Dern 2011-2012
Laura Dern/Amy Jellicoe è la scheggia impazzita nella grande azienda per cui lavora: il burnout la spedisce in riabilitazione, lei torna e vorrebbe riprendere la scalata alle promozioni, ma finisce relegata nel seminterrato tra le persone “normali”. Come fare la differenza, allora? Come essere speciale? Denunciando ciò che di marcio si nasconde nella scintillante ditta. Tra i primi, coraggiosi personaggi femminili sgradevoli e difettati della serialità contemporanea, è un ritratto impietoso di una donna in carriera ipocrita e contraddittoria, incapace di affrontare il suo personale vuoto e decisa a colmarlo col raggiungimento di uno status, ad ogni costo. Su NOW
Miss Sloane - Giochi di potere di John Madden 2016
Lobbista formidabile, dotata di una buona dose di pelo sullo stomaco, la gelida Sloane di Jessica Chastain si muove sicura e affilata come un coltello tra gli intrighi di Washington (in questo senso è parente stretta della dark lady seriale per eccellenza dei nostri tempi: la Claire Underwood incarnata con perfetta assenza di empatia da Robin Wright in House of Cards), relegando la sua vita “privata” a una ulteriore questione economica: sesso a pagamento con costosi escort, solo una pratica da espletare. Su Prime Video
Vi presento Toni Erdmann di Maren Ade 2016
Una donna votata al lavoro, dimentica di sé, che torna a vivere grazie all’amore insistente di un padre/clown, creatura ingombrante e comica: l’opera terza della tedesca Maren Ade racconta una rinascita che passa, proprio come in Cuore sacro, da un momento di “svestimento”, come se quello di “donna in carriera” fosse, prima di tutto, una sorta di costume, di maschera/armatura da indossare per ricoprire un ruolo, ma sempre a rischio di coprire se stesse. Su Prime Video
Succession creata da Jesse Armstrong 2018-2023
Non solo l’erede Siobhan Roy (Sarah Snook), machiavellica spin doctor dal cuore criogenicamente isolato dal mondo; ma anche l’imperscrutabile, ultra-efficiente Gerri (J. Smith Cameron), le leader Sandi Furness (Hope Davis) e Nan Pierce (Cherry Jones) e la diabolica Rhea (Holly Hunter): nell’epocale serie che ha raccontato il potere tra farsa grottesca e tragedia di uomini (e donne) ridicoli, sono diverse le figure di leadership femminile che segnano il racconto. Spesso all’ombra di uomini (padri, mariti), altrettanto spesso più spietate e furbe dei rivali maschi, tutte invariabilmente abitate dalla fame di arrivare in cima. A costo di essere beffate. Su NOW
ILARIA FEOLE
Enlightened è stata una delle serie più importanti degli anni 10, per certi versi pure sinistramente profetica, eppure in Italia è arrivata con dieci anni di ritardo: vi riproponiamo la nostra presentazione della serie al momento del tardivo sbarco sui piccoli schermi italiani, dal n. 19/2021 di Film Tv.
Le buone intenzioni
Sono passati dieci anni dall’inizio della messa in onda statunitense di Enlightened, eppure guardatela ora, quando dal 12 maggio 2021 approderà su Sky Atlantic e su Now: non è invecchiata di un giorno. Anzi, per molti versi si è rivelata profetica, per come ha lucidamente descritto e messo alla berlina certo attivismo posticcio, il fenomeno del greenwashing (l’ecologismo di facciata), la dissociazione tra il vero sé e la costruzione di un’immagine a prova di follower. Ma andiamo con ordine. Parlare di Enlightened significa parlare di Mike White, misconosciuta figura chiave della scena indie del XXI secolo. Californiano dal fototipo scandinavo, corpo attoriale abbonato ai ruoli di eccentrico, White (partito dalla scuderia di Dawson’s Creek) ha firmato copioni per Miguel Arteta (Chuck & Buck, The Good Girl, Beatriz at Dinner), Richard Linklater (School of Rock), Jared Hess (Super Nacho), Jake Kasdan (Orange County). Acuto osservatore della società americana, è specializzato nella creazione di pesci fuor d’acqua, di (anti)eroi bizzarri e spesso in preda a dissonanza cognitiva; la sua scrittura è il lato amaro dell’indie, dove non vale l’equazione fra strambo e adorabile. Enlightened White l’ha scritta tutta da solo, senza writers room, ma l’ha ideata in tandem con Laura Dern, produttrice e protagonista assoluta della serie, che ha segnato il suo ritorno alla popolarità dopo gli anni un po’ bigi seguiti a Inland Empire. Si può dire che la “Dernaissance”, il suo rinascimento di attrice con tanto di Oscar nel 2020, sia cominciato proprio nei panni dell’alienata Amy Jellicoe, antieroina armata di abiti pastello e ottime intenzioni con cui lastricare la strada per l’inferno. Reduce da un esaurimento nervoso sul lavoro, ossia la tentacolare azienda di prodotti chimici Abaddonn (termine che nella Bibbia indica la distruzione), Amy affronta una lussuosa riabilitazione alle Hawaii, dalla quale ritorna, appunto, illuminata: sarà portatrice di cambiamento, un agente del Bene, all’interno della ditta e del mondo. Infarcita di melliflue banalità new age, con cui la sua voce narrante incornicia gli episodi, Amy tenta invano di convertire la Abaddonn a una coscienza ecologica, ma viene invece spedita nel seminterrato insieme agli altri paria; da lì guiderà la sua sgangherata rivolta contro il sistema. Rivelandosi ingenua e ciecamente ottimista, ma al contempo manipolatrice e ipocrita, incapace di riconoscere che il suo desiderio di essere «portatrice di cambiamento» cela un’avidità e una superficialità annichilenti. Il suo è un pensiero magico che confina con il disturbo mentale, un’immagine fasulla da proiettare sugli altri ma minata da insicurezze profonde, che la costringono a un continuo esercizio di riscrittura di sé tipico della società da social network (ancora agli albori all’epoca della serie, dove si cita il solo Twitter); proprio il ruolo del web, ottusamente visto dalla protagonista come luogo dove operare per il Bene, si rivela profetico rispetto ai due lustri successivi. Brillante e amarissima, Enlightened era avanti sui tempi anche nella struttura delle stagioni, che si concedono a parte dedicati a personaggi collaterali (come l’episodio sulla mamma di Amy, la vera madre di Dern Diane Ladd, o quello incentrato su Tyler, il solitario personaggio incarnato da Mike White), e nella costruzione di un personaggio femminile prismatico e sgradevole, a volte spietato, mai “carino” (in anticipo sulla piccola rivoluzione operata in tal senso da Phoebe Waller-Bridge). Come valore aggiunto, i camei alla regia di autori come Jonathan Demme (il suo episodio con Robin Wright co-protagonista è tra le migliori cose televisive girate dal grande regista) e Todd Haynes (che firma l’episodio 2x06, All I Ever Wanted, un vero e proprio mélo in miniatura), e le incalzanti musiche del wesandersoniano Mark Mothersbaugh. Abbiamo aspettato dieci anni, ma ne valeva la pena. ILARIA FEOLE
Si inaugura domani, 12 ottobre, e dura fino al 14 all'Università di Sassari l'appuntamento con FAScinA, il Forum nazionale delle studiose di cinema e audiovisivi che mette in dialogo ricercatrici provenienti da atenei italiani ed esteri. Coordinata da Lucia Cardone, docente di storia e critica del cinema dell'Università di Sassari, questa edizione si concentra sui costumi, esplorando le icone che hanno rivoluzionato il modo di vestire al femminile, come Katharine Hepburn, il legame tra moda e industria audiovisiva, l'importanza del vestire le attrici.
Quello dell'intimacy coach, o intimacy coordinator è un ruolo molto discusso nell'industria audiovisiva, e che sta prendendo sempre più piede: una figura che possa coordinare, coreografare, agevolare le scene di sesso e di intimità al fine di creare un ambiente sicuro per tutti i professionisti coinvolti. Grazie all'Anica Academy ETS, che organizza percorsi di formazione nelle professioni del cinema e dell’audiovisivo, ora è nato il primo corso in Italia di intimacy coordinator (con il contributo di Sky Studios e Netflix): studentesse e studenti saranno guidati nella gestione delle scene di intimità sul set, nella comunicazione con le attrici e gli attori e nel rispetto delle normative e dei diritti.
Non è mai troppo presto per pensare ai regali di Natale, e se avete appassionati di Sofia Coppola a cui elargire doni il voluminoso coffee table book (quasi 500 pagine per quasi 2 kg di peso) appena dato alle stampe per Mack dalla regista (il cui firmacopie ha generato code apocalittiche di fan nelle librerie) è il dono ideale: cover rosa confetto vergata solo dalle parole (in font Futura) SOFIA COPPOLA ARCHIVE, contiene foto, aneddoti, appunti, schizzi e racconti dal set di 25 anni di carriera.