Singolare, femminile ♀ #110: Vedere per credere
Tra le più entusiasmanti protagoniste di quest’annata seriale ci sono le eroine di due serie ancora inedite in Italia: Mrs. Davis e Poker Face. Vi presentiamo sorella Simone e Charlie Cale, e cogliamo l’occasione anche per fare un breve punto sullo stato dello streaming e su algoritmi e intelligenze artificiali.
Chi preferireste veder spuntare all’orizzonte, nel mezzo del polveroso deserto del Nevada, se vi trovaste in una situazione compromettente: una suora a cavallo, in tonaca azzurra e cappello Stetson, con la battuta pronta e l’aria da vendicatrice? O una fuggitiva dalla chioma fulva e la voce arrochita dal fumo di mille sigarette, con la battuta altrettanto pronta e l’abitudine testarda di voler arrivare sempre al fondo della verità? In ogni caso, fareste la conoscenza di due tra i più entusiasmanti personaggi femminili del 2023, accomunati anche da un’altra sfortunata coincidenza: le serie di cui sono protagoniste sono entrambe inedite in Italia, e ancora, a oggi, senza una data di distribuzione in vista.
Parliamo di Mrs. Davis e di Poker Face. Entrambe sono targate Peacock, la piattaforma streaming del network statunitense NBC, che al momento non è ancora davvero sbarcata in Italia: nonostante “ufficialmente” sia disponibile su Now e SkyGo per gli abbonati, un’occhiata al catalogo (peraltro sepolto tra i mille altri titoli Sky) rivela che la “collezione Peacock”, in questo momento, si compone di soli 12 titoli, quattro dei quali sono Real Housewives di qualche città. L’abitudine alla visione in streaming attraverso varie piattaforme, sempre più diffusa e trasversale negli ultimi anni, ci ha “regalato”, tra le altre cose, l’illusione che qualsiasi prodotto – soprattutto televisivo – arrivi e sia accessibile ovunque, contemporaneamente; uno sconfinato buffet dell’intrattenimento, esplicitato dalle home page senza fondo delle piattaforme, affollatissime di miniature su cui cliccare, di titoli che pare possibile scorrere all’infinito.
La verità, e ce ne stiamo accorgendo sempre di più negli ultimi anni, è diversa: certo, soprattutto per alcune piattaforme (Netflix e Prime Video, ma anche la più “nuova” Paramount+) l’offerta è davvero ricca, almeno in quantità, ma l’aumento esponenziale di servizi streaming differenti corrisponde anche a una frammentazione sempre più parcellizzata della distribuzione. Ogni “major” si tiene stretta i propri titoli, qualche volta addirittura ne produce di “concorrenti” (un esempio lampante è la recente miniserie Netflix Painkiller, che racconta la medesima vicenda dell’omologa Hulu Dopesick presente in Italia su Disney+; e non è l’unico caso), e il rischio è duplice: che uno spettatore non si avventuri mai fuori dai confini dei cataloghi a cui è abbonato (e d’altronde nessuno può ragionevolmente abbonarsi a tutte le piattaforme!), e che opere meritevoli non raggiungano mai i paesi in cui non arriva la loro piattaforma. Insomma: nell’apparenza di un’offerta più grande, il mondo in realtà si restringe. Fa niente, dirà qualcuno: i cataloghi di Prime e Netflix, come si diceva, sono pozzi senza fondo, che bisogno c’è di altra roba? Vediamo.
La Mrs. Davis di Mrs. Davis è un algoritmo. Un’intelligenza artificiale, un’entità apparentemente senziente e onnisciente. Quasi tutti i personaggi della serie utilizzano per lei il pronome “she”, e in qualche paese l’appellativo “mamma” o “madonna”. Ma, prima di tutto, Mrs. Davis è un’app, realizzata con l’obiettivo di «rendere felici» i suoi utenti. Mrs. Davis c’è sempre, sa tutto, e – se porti a termine i compiti che ti assegna – ti dà tutto quello che le chiedi. È come la tua maestra delle elementari (il nome “Mrs. Davis” la co-autrice Tara Hernandez l’ha rubato proprio a una sua vecchia insegnante), oppure come Dio. «Not “she”: “it”» è la risposta secca e implacabile che sorella Simone, la protagonista della serie, interpretata da una favolosa Betty Gilpin, dà a chiunque cerchi di convincerla a parlare con Mrs. Davis: l’intelligenza artificiale, ovviamente incorporea, utilizza i suoi utenti anche come “proxy”, come provvisori “avatar all’incontrario” per incarnarsi nel mondo reale, utilizzando la loro voce per proferire le parole che lei sussurra loro all’orecchio via auricolare.
L’episodio pilota di Mrs. Davis è uno dei più atipici degli ultimi anni, per certi versi ricorda quello di Watchmen, e infatti l’altro co-creatore della serie è Damon Lindelof (responsabile, naturalmente, anche della serie spartiacque Lost e dell’altrettanto weird The Leftovers). Comincia nel Medioevo, con un rogo di templari e una sequenza di combattimento esageratamente sanguinolenta tra soldati e suore armate di lunghi spadoni; si sposta ai giorni nostri ma su un’isola deserta (!) sulla quale ci sono solo un naufrago di nome Schroedinger e ovviamente un gatto di; poi salta nel deserto, appena fuori Reno, a bordo di una decappottabile, e non vi diciamo di più, se non che il “fattore WTF” è assicurato. È a questo punto che compare sorella Simone, a cavallo, come un eroe solitario del vecchio West: siamo a un terzo di puntata, ma è solo l’inizio di un viaggio folle e imprevedibile, che a ogni tappa chiede allo spettatore di ricalibrare la sua idea del mondo narrativo in cui si sta inoltrando, e del tono con cui viene messo in scena.
Anche e soprattutto per questo il pilot di Mrs. Davis è atipico, come poi tutto il resto della serie (il modo migliore di approcciarvisi è non saperne nulla e godersi le montagne russe): se si appoggia a dinamiche e convenzioni note è solo per trasgredirle immediatamente, il già citato “fattore WTF” non serve a far deflagrare momenti superficialmente scioccanti o banalmente “memabili”, ma a coinvolgere chi guarda nella costruzione e, insieme, decodificazione dell’universo che lo show sta mettendo in scena. Seppur con un modo e uno stile molto diversi, è la “tecnica Lost”, l’intreccio di mystery box perfezionato da J.J. Abrams (qui, tra l’altro, utilizzando il MacGuffin dei MacGuffin: il Sacro Graal): un meccanismo narrativo estremamente difficile da gestire, come se tutte quelle mystery box contenessero davvero delle metaforiche bombe sul punto di esplodere disastrosamente. L’effetto può facilmente scivolare nella frustrazione e poi nella delusione (come saranno pronti a giurarvi tanti ex fan di Lost, del tutto disamorati), ma se maneggiato con intelligenza, competenza e (sì, anche) affetto è ancora uno degli strumenti più entusiasmanti che l’arsenale del linguaggio seriale ha a disposizione. La possibilità di sviluppare un racconto su più puntate, non pensate per il binge watching ma possibilmente programmate di settimana in settimana, corrisponde perfettamente all’edificazione di un mistero che si svela (e/o si complica) un episodio dopo l’altro, generando attorno a sé un mondo-esperienza in cui immergersi.
E, soprattutto, sviluppi, situazioni, personaggi nuovi, eccitanti, sorprendenti. Il cortocircuito alla base di Mrs. Davis è quello di essere una “serie sull’algoritmo” che un algoritmo non avrebbe probabilmente mai potuto scrivere. Fin dagli albori di Netflix, il servizio che ha iniziato la cosiddetta “rivoluzione dello streaming”, l’“algoritmo” è stato presentato come punto di forza e chiave di volta del nuovo scenario mediale: l’algoritmo di Netflix, prometteva la promozione aziendale, sapeva suggerirti perfettamente cosa vedere, sapeva trovare per te proprio la serie e il film che avevi voglia di guardare in quel preciso momento. C’era, sapeva tutto ed era lì per farti felice. L’evoluzione dell’algoritmo, negli anni, ha ampliato la sua funzione, dalla selezione è passato alla creazione: Netflix (e con lei le altre piattaforme) usa “l’algoritmo” – ovvero i dati che può raccogliere, dettagliatissimi, sulle abitudini e le scelte di visione dei suoi utenti – per determinare che tipo di nuove produzioni mettere in cantiere, costruendole “su misura” dei desideri degli utenti – o, almeno, questo è il piano. Ed è stato uno dei nodi cruciali del contendere durante i 148 giorni dello sciopero degli sceneggiatori appena concluso: grazie all’“algoritmo” i dirigenti dei servizi streaming sono neanche troppo segretamente convinti di poter eliminare, o almeno ridurre drasticamente, il lavoro degli sceneggiatori umani. Prefigurano il futuro, per nulla inverosimile, immaginato in una recente puntata di Black Mirror (per paradosso, proprio su Netflix): quello in cui una piattaforma può “generare” all’istante un film o una serie o un “contenuto” per il singolo utente, rispondendo a una sequenza di input, e utilizzando le scansioni digitali di attori in carne e ossa (ed è per questo che le questioni legate alle intelligenze artificiali sono al centro anche dello sciopero degli attori, ancora in corso anche se, pare, in via di risoluzione).
Ma, anche se, come è molto probabile, le attuali “intelligenze artificiali” riuscissero in un prossimo futuro a migliorare mostruosamente la qualità di quel che producono, quello che prova a dirci una serie come Mrs. Davis è che ciò che pensiamo di desiderare non è quasi mai ciò che vogliamo davvero. La similitudine tra l’app Mrs. Davis e la religione (specificamente quella cristiana) è uno dei potenti fili conduttori dei suoi otto episodi (e d’altra parte Damon Lindelof ormai da due decenni porta avanti coerentemente l’indagine del concetto di “fede” attraverso narrazioni squisitamente pop), suggerendo la sostanziale inutilità di una fede che – sia l’entità superiore in questione una divinità soprannaturale o una AI onnipotente – svolga sostanzialmente le funzioni di un “customer service”. La soddisfazione totale del cliente c’entra davvero qualcosa con la felicità? O con il senso della vita?
Da un punto di vista strutturale e narrativo, Poker Face non potrebbe essere più diversa da Mrs. Davis, nonostante un inizio geograficamente contiguo (o almeno: nello stesso, comunque vasto, stato degli Usa). La protagonista Charlie Cale – una Natasha Lyonne in forma spettacolare – è praticamente il tenente Colombo, nonostante sia una civile, femmina, diffidi degli sbirri e possieda comunque un più spiccato senso dello stile rispetto allo storico personaggio interpretato da Peter Falk. Ma la serie, in cui il creatore Rian Johnson riversa la sua passione per il giallo già dimostrata nei due capitoli della saga cinematografica Knives Out, ha la stessa leggendaria costruzione di Colombo: non semplicemente quella di un procedurale in cui in ogni puntata ci sono un delitto e un colpevole da scovare, ma quella più specifica che nella prima parte dell’episodio mostra al pubblico sia il delitto sia il colpevole, lasciando poi al/la protagonista il compito di ricostruire i fatti, incastrare il malfattore, ottenere giustizia. È un meccanismo che contiene in sé, sin dal principio, un piacere metanarrativo: il punto, per chi guarda, non è partecipare all’indagine per scoprire (magari addirittura anticipare) chi è l’autore dell’omicidio, ma godere dello svolgimento del racconto, della furbizia del detective, dell’altalena d’emozioni legata alle sue intuizioni e ai suoi errori.
Come la prima serialità – terminologia che per decenni è corrisposta al concetto di “fatto in serie”, dunque di ripetizione di una formula nota – il divertimento di Poker Face non sta (solo) nella scoperta dell’ignoto, ma nelle sorprese che si annidano nella ripetizione di qualcosa che si conosce già. Che, in questo caso, non è solo la detection, ma una generale impostazione episodica: la protagonista Charlie Cale, una donna in grado di comprendere istintivamente se qualcuno sta mentendo, è in fuga da un boss della mala che ha promesso di ucciderla (una premessa raccontata nell’ottimo pilot, che, come i pilot-prototipi di un tempo, pone le basi per la ripetizione della formula mentre illustra la formula stessa). Ogni puntata ha dunque un’ambientazione diversa, personaggi nuovi, spesso anche più o meno sottili variazioni di stile e genere. Non solo: solitamente, per tutto il primo atto – cioè quello che mostra il delitto – non vediamo Charlie, anche se (proprio perché conosciamo bene la struttura del racconto) sappiamo che c’è, da qualche parte. E dunque, mentre ci acclimatiamo nel nuovo micromondo dell’episodio, non possiamo fare a meno di chiederci, o di provare a indovinare, da dove potrebbe sbucare, e quando, Charlie. Poker Face potrebbe scriverla un algoritmo? Forse, tra qualche tempo, un algoritmo molto ben sviluppato: d’altronde questo tipo di serialità trae la sua forza dall’infinita ricombinazione di elementi ricorrenti. Ma forse nessuno chiederebbe a un algoritmo di farla: perché, proprio come Mrs. Davis, seppur in modo opposto, la scrittura di Poker Face è l’antitesi di quella “da binge watching in streaming”, che è pensata già in partenza per la visione con “second screen” (ovvero: per esser fruita distrattamente mentre si guarda lo smartphone o un altro schermo), e che tenta di allungare la permanenza dell’utente davanti allo schermo piazzando strategicamente i suoi (rari) colpi di scena a fine episodio per spingerlo a cliccare il tasto “guarda il successivo”.
Come dicevamo all’inizio, e com’è facile intuire fin qui, oltre che dalla diffusione su Peacock (che, sì, è una piattaforma streaming, ma in entrambi i casi la pubblicazione è stata settimanale, non in un’unica soluzione “da binge watching”), dalle sperimentazioni con il linguaggio seriale e dall’anima metanarrativa (in Mrs. Davis resa diegetica in un esilarante episodio in cui Simone e il compagno Wiley ascoltano una lunga storia interrompendo il racconto urlando «WOW!» e «WHAT THE FUCK!»), Mrs. Davis e Poker Face sono accomunate dalle proprie straordinarie protagoniste. Che sono entrambe, in modi diversi, eroine profondamente imperfette: Simone (che prima di prendere i voti si chiamava Elizabeth, Lizzie, e così è appellata da diversi personaggi) entra in scena, come abbiamo raccontato all’inizio, con coolness ammirevole, ma srotolando la sua backstory scopriamo un’infanzia traumatica e una notevole mole di daddy e mommy issue (c’è pur sempre Damon Lindelof dietro le quinte); Charlie ostenta un altro tipo di coolness, apparentemente più distaccata e tranquilla, ma il suo superpotere, oltre a quello di essere una «macchina della verità umana», è soprattutto la testardaggine con cui rifiuta che un innocente possa esser punito e un colpevole farla franca. Entrambe sono istintivamente allergiche all’autorità, a qualcuno che dall’alto possa dettare leggi entro cui costringerle o da seguire ciecamente (com’è facile immaginare, questa sua natura crea a Simone più di un cortocircuito con la propria fede). Sono personaggi femminili forti, ma di una forza credibile, tangibile, giustificata anche dalle tante vulnerabilità che le percorrono, ed esplicitata non dall’impossibilità del fallimento (che, anzi, le investe più volte), ma dalla tenacia irremovibile con cui perseguono i propri obiettivi.
E poi, in maniere e con parole diversissime, Mrs. Davis e Poker Face finiscono per esplorare territori filosofici molto simili, per studiare entrambe i meccanismi su cui si costruisce e con cui si regola una società (nello specifico: la nostra). Ogni episodio di Poker Face cambia scenario: da una stazione di servizio in mezzo al nulla alla villa milionaria di una celebre artista, dal dietro le quinte di un teatro a una casa di riposo, dai casinò del Nevada alle montagne innevate del Colorado, il “doppio” racconto del delitto prima ci forza nei panni dell’assassino/a, poi ci costringe a riguardare tutto “da fuori”, riconoscendo l’ineludibile “mediocrità” delle motivazioni che quasi sempre spingono il colpevole all’omicidio, e l’irreparabilità dello strappo sociale che un’uccisione sempre comporta. Il “doppio” viaggio di Mrs. Davis tra le similitudini che accomunano algoritmi e religioni, pure, ci porta a un punto d’arrivo non distante: cioè al riconoscimento dell’importanza ineludibile della responsabilità, individuale e collettiva. Un “peso” che, sì, forse si può delegare all’algoritmo (oppure a Dio): ma siamo sicuri di apprezzare il mondo che otterremmo in cambio? ALICE CUCCHETTI
Prima di interpretare la protagonista di Poker Face, Natasha Lyonne ha conquistato il piccolo schermo con Russian Doll, serie di cui è anche autrice insieme a Leslye Headland e Amy Poehler. Disponibile su Netflix, vi riproponiamo la recensione della prima stagione, pubblicata su Film Tv n. 8/2019.
Russian Doll: Stagione 1
Nadia risorge. Non è Gesù, però, o almeno non dovrebbe: programmatrice di videogame, newyorkese di origini russe, un’esistenza tutta sesso droga & rock’n’roll, investita da un taxi mentre insegue il suo gatto (di Schrödinger?), non necessita dei tre giorni di prammatica per ritrovarsi inspiegabilmente rediviva dove tutto è iniziato, cioè davanti allo specchio di un bagno, durante la festa per il suo 36° compleanno, mentre qualche invitato bussa insistentemente alla porta e Gotta Get Up di Harry Nilsson risuona nell’aria. Nadia muore: ancora, e ancora, in modi creativi e vari, dopo pochi minuti o dopo molte ore, e ogni volta, un istante dopo il decesso, è di nuovo lì, davanti allo stesso specchio; scartate le ipotesi “trip andato male” ed “esaurimento nervoso”, e constatata l’apparente impossibilità di spezzare il ciclo o sopravvivere più di un giorno, che fare di quest’inedita condizione esistenziale? Sì, Russian Doll è tipo Ricomincio da capo (non a caso Netflix ha deciso di pubblicarla il 1° febbraio, quando il 2 è il Giorno della marmotta), con qualche tono in più di umorismo nero e una sfumatura in meno di (classico) romanticismo; ma è una serie, non un film, e dunque parla un linguaggio intrinsecamente costruito sulla ripetizione e la variazione dell’identico (come la vita? A un certo punto ce lo suggerisce anche Nadia stessa: è sulla reiterazione di schemi, sulla routine che edifichiamo le nostre identità), peraltro di questi tempi messo a dura prova dall’abitudine del binge watching che tende a trasformare gli show tv in lunghi film. Russian Doll, tra le altre cose, tenta una risposta al paradosso: è certo una visione da streaming, otto puntate da meno di mezz’ora, da consumare a sorsi veloci per meglio apprezzare i modi in cui molti dettagli dialogano tra loro nel corso della stagione; ma non rinuncia a sfruttare la dimensione episodica, per amplificare un gag (le tante “buffe” morti iniziali) o per sorprendere ribaltandolo in corsa (il momento in cui morire diventa davvero drammatico, e ogni carica slapstick scompare), per scivolare in un nuovo punto di vista (la rivelazione a fine terzo episodio) o per zigzagare tra i generi (è una commedia nera? Fantascienza? Body horror? Dramma psicologico, o familiare? Tutto quanto?). Creata dall’attrice protagonista Lyonne (strepitosa) con la sceneggiatrice Headland (The Wedding Party) più un ulteriore input creativo-produttivo di Amy Poehler, Russian Doll, a pensarci bene, dice già tutto di sé dal titolo: che può riferirsi alla sua eroina (a tutti gli effetti, una “bambola russa”) come alla sua struttura a strati (cioè a matrioska), che a sua volta rispecchia la scrittura iterativa videoludica e la sovrappone alla prigionia ripetitiva del trauma irrisolto e dell’ossessione, lasciando anche un margine interattivo allo spettatore, che può decidere da sé a quale livello giocare. Che poi, un passaggio dentro l’altro, Russian Doll riveli la propria principale debolezza in un’essenza derivativa, fa niente: anche al cuore della matrioska, lo sappiamo, c’è solo un’altra bambola, più piccola. Resisteremo per questo alla tentazione di aprirla e guardarci dentro? ALICE CUCCHETTI
A Parigi comincia l’11 ottobre, e prosegue fino al 28 gennaio alla Cinémathèque Française la mostra Viva Varda!, che ripercorre 70 di carriera della cineasta attraverso film, installazioni, fotografie, materiali d’archivio e costumi.
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