Singolare, femminile ♀ #108: Gli spazi son desideri
Il prossimo weekend – dal 22 al 24 settembre – si svolge a Bologna l’edizione n. 15 del Some Prefer Cake. Per l’occasione, ospitiamo a Singolare, femminile la critica e giornalista Federica Fabbiani, che del festival è programmer: ci regala un’appassionante panoramica sulla storia del cinema lesbico, e ci anticipa alcuni titoli da non perdere alla rassegna bolognese.
Mancano ormai pochi giorni alla 15ª edizione di Some Prefer Cake, il festival internazionale di cinema lesbico che si tiene ogni anno al Nuovo Cinema Nosadella di Bologna. Dal 22 al 24 settembre un appuntamento imperdibile per una full immersion di visioni lesbiche declinate in molti modi: cinema, performance, arte, musica e libri. È una vera e propria esperienza sensoriale, il che molto racconta dell’importanza degli spazi fisici, beni comuni in costante erosione, e della necessità di sentirsi “comunità”. Perché questo è il vero senso di Some Prefer Cake: rendere vivo e pulsante uno spazio-tempo politico ed affettivo di incontro per lesbiche e per persone LGBTQ+ tutte. Ed è proprio “comunità” la parola chiave che mi/ci condurrà in questo breve excursus della rappresentazione lesbica sugli schermi.
È diventato molto difficile oggi parlare di rappresentazione lesbica, includendo in questa panoramica tutti i prodotti audiovisivi che passano sui vari schermi. Non solo cinema, ma anche serie tv/web. È indubbio che ci siano state notevoli trasformazioni nell’inclusione del lesbismo nei vari contesti sociali e culturali, e molto ci siamo allontanate dalle etichette associate alle politiche identitarie dei movimenti di liberazione omosessuale degli anni 70 e 80. Senza contare che più recentemente le nozioni fluide e anti-normative della sessualità queer hanno progressivamente sostituito quelle stesse categorie identitarie, soprattutto quella lesbica. Come osserva Clara Bradbury-Rance nel libro Lesbian Cinema After Queer Theory, per orientarsi meglio è necessario partire da tre considerazioni interconnesse: «In primo luogo, che il lesbismo è più visibile sullo schermo oggi di quanto non lo sia mai stato; in secondo luogo, che nonostante questo, la discussione sulla presenza delle lesbiche sullo schermo è inficiata da confronti con vecchi modelli di rappresentazione; in terzo luogo, che la teoria queer ha acceso con forza la discussione sulla sessualità negli ultimi tre decenni, ma ha contemporaneamente diminuito la rilevanza percepita del lesbismo come presenza politica».
In sintesi le lesbiche sono decisamente molto visibili, ma rischiano di costituire rappresentazioni datate e di scarso peso politico. È davvero così? Qualche anno fa in un libro sul cinema lesbico (Sguardi che contano, Iacobelli editore) concludevo che: «Dopo anni di visioni lesbiche, oggi (mi) rimane solo una domanda: il soggetto lesbica, al cinema, è ancora una soggettività politica?». Una domanda che ancora considero legittima in considerazione di una rappresentazione spesso obsoleta, bloccata nel passato, avvinghiata al cappio del lieto fine.
Quanto più la lesbica è diventata visibile, tanto più è stata data (politicamente) per morta.
E no, non è sempre e solo così. Si può decisamente raccontare anche un’altra storia di vita, di lotta e di resistenza, che consenta di tracciare un percorso che leghi le rappresentazioni del passato, quelle per intenderci in cui servivano veri e propri codici di decodifica per individuare la personaggia lesbica, ad alcuni prodotti audiovisivi di questi anni 20 del Duemila. Una storia che bypassa lo storytelling molto mainstream della storia d’amore tra donne, universale, che sia chiaro, e mai connotata da radicalità politica, che pure è servito in un certo periodo storico a sollevare il morale di chi, osservando impietrita lo schermo, si sentiva scivolare nel baratro del pozzo di solitudine. Oltre l’eccezionalità della singola che sfida norme e restrizioni dell’orizzonte patriarcale, per realizzare il sogno d’amore, unico, fusionale e indissolubile, che ben sappiamo da Lea Melandri quanto e come possa essere tossico. Anche quando è declinato unicamente al femminile. Un’altra storia che racconti, oltre la coppia, la comunità. Sono d’accordo con Céline Sciamma quando afferma che «quello che ci raccontano, che è meglio vivere in due, formando delle piccole unità chiuse, è certo rassicurante, ma anche fondamentalmente contrario all’idea di comunità. Per me è nei collettivi che si possono trovare i legami più autentici, più utili, profondi e anche più onesti rispetto a quelli che si creano in una storia d’amore o nelle famiglie» (Architetture del desiderio, Asterisco editore). Non una personaggia lesbica, ma un gruppo di donne, tra cui prevale un senso di solidarietà reciproca, a volte dopo aspri dissidi e contrasti, che ben si oppone ai contesti oppressivi in cui, tra finzione e realtà, tutte viviamo. Che, dice ancora Sciamma, «lo spazio culturale e lo spazio della finzione non sono un posto sicuro per le donne. Siamo ancora in quella stessa struttura patriarcale che dobbiamo manomettere e nel quale le donne non si sono mai salvate». Non da sole, almeno.
Rintracciando le origini del cinema lesbico, ci si ritrova catapultate immediatamente all’interno di spazi chiusi, principalmente collegi femminili o carceri. Luoghi di privazione e di sottrazione, in cui, eliminata per ovvie ragioni l’impossibile competizione con il maschio, si aprivano, paradossalmente, spazi di possibilità inconsuete per le personagge. Luoghi angusti e poco, pochissimo luminosi, all’interno dei quali donne imperfette, fragili, un po’ sgangherate, si autodeterminavano in modo autonomo. Non più inchiodate al mero ruolo ancillare in funzione del personaggio, bensì libere di essere se stesse, di aprirsi alle altre, di scoprire il valore di una relazione orizzontale. Dove prima c’era staticità, si è aperto un varco verso un’evoluzione imprevista.
Può sembrare un gioco di parole senza senso, eppure la via di uscita dal giogo di una rappresentazione malevole era già in quelle rappresentazioni, presente e in bella vista. Sappiamo che spesso lo sguardo era patologizzante, e non è sempre stato facile smarcarsi dalla vergogna dello stigma e della “cattiva” rappresentazione. Molta critica cinematografica lesbica è spesso stata troppo in affanno nel rincorrere una diversa (leggasi positiva) rappresentazione del lesbismo che operasse in due sensi: “noi buone per noi”, quindi un possibile modello edificante per la spettatrice cui un mondo ancora analogico relegava in una deprimente stanza (vuota) solo per lei e, come sottolinea la critica cinematografica B. Ruby Rich, “noi buone per loro”, quindi una potenziale forma di rassicurazione al pubblico eterosessuale. Che sia chiaro, non è piacevole “vedersi” sotto chiave nei collegi femminili o in qualche ameno spazio di reclusione, dove punizioni e sorveglianza continua minano ogni possibile visione di futuro, tuttavia è proprio da quegli spazi che si è manifestata la promessa di nuove opportunità di vita lesbica. Sullo schermo e nella realtà.
È così nel primo film lesbico del 1931, Mädchen in Uniform (Ragazze in uniforme) di Leontine Sagan. Come scrive B. Ruby Rich nel libro Chick Flicks - Theories and Memories of the Feminist Film Movement, un testo del 1998 che ancora attende una traduzione italiana, se si vuole capire del tutto questo film, bisogna tenere presente la società all’interno della quale fu realizzato. Era l’ambiente della Repubblica di Weimar, la Berlino con moltissimi bar – se ne contavano 50 lesbici in quel periodo – e varie riviste gay e lesbiche, quindi una città dalla tolleranza sociale diffusa che ben camuffava le varie restrizioni legali (che si sarebbero presto trasformate in repressione, spesso senza scampo). Il film si concentra sulla relazione tra due donne. Manuela, una quattordicenne che viene mandata dal padre in un collegio femminile, e Fräulein von Bernburg, una delle insegnanti della scuola, la più amata per i suoi metodi educativi compassionevoli e molto materni, assai distanti quindi dai rigidi codici prussiani della scuola. Che è appunto un ambiente che poco concede ai sentimenti, improntato a un rigore militaresco e autoritario dalla preside, convinta che la disciplina e la fame rafforzino il carattere delle giovani, il cui unico scopo nella vita è diventare madri di soldati. Tutte le alunne hanno una cotta per Fräulein von Bernburg, ma l’infatuazione di Manuela è più appassionata, e alza il livello della tensione omoerotica che pervade la scuola annunciando pubblicamente di amare l’insegnante. Ubriaca e vestita da uomo dopo una performance teatrale, Manuela brinderà all’amore di e per Fräulein von Bernburg. Manuela è la minaccia lesbica ed è pronta a sacrificarsi, lanciandosi dalla tromba delle scale. Ma la regista inserisce un elemento inedito, la forza di coesione e solidarietà delle compagne, una forma germinale di collettivo, che si oppone alla condanna dell’ignominia lesbica.
Non la singola personaggia, ma un gruppo di donne variamente rappresentato nelle tante differenze di genere, orientamento, età e, nei casi migliori, etnia, è dato dai film sulle carceri femminili, detti anche WIP (women in prison). Un genere a tratti anche molto prolifico, che passa a mani basse il test di Bechdel, e di cui ho avuto l’occasione di approfondire per un articolo sulla rivista “Leggendaria” (Leggendaria 157 – Corpi reclusi). Un numero elevatissimo di titoli, soprattutto per quel che riguarda la cinematografia americana, e anche un nutrito elenco di saggi critici, principalmente di studiose femministe d’oltreoceano, che analizzano l’arco temporale in cui questi film sono stati concepiti e girati e la loro ricaduta sociale, reale o auspicata. Suzanne Bouclin, docente universitaria canadese che si occupa di giurisprudenza femminista, ha analizzato il modo in cui questi film mostrano al pubblico le «molteplici forme di emarginazione, esclusione sociale e oppressione che sperimentano le donne criminalizzate». Anche nella consapevolezza che, spesso, dentro o fuori dal carcere, la donna non è mai veramente libera. Ovviamente sono molti gli stereotipi deleteri (la donna bianca inizialmente ingenua e ingiustamente condannata, la lesbica butch predatoria, la povera malata di mente, le non bianche criminalizzate) che, fino agli anni 2000 circa, hanno sottratto valore a questo tipo di rappresentazione; forte scarto con la realtà detentiva femminile con conseguente inefficacia nel denunciare la violenza intrinseca dell’istituzione carceraria. Secondo Judith Mayne, critica cinematografica femminista americana, ci sono alcuni elementi positivi di cui tener conto nell’analisi dei film women in prison; impossibile negare l’attenzione ossessiva sul corpo della donna, in carcere (più che altrove) sottomesso al regime massimo di osservazione gerarchica e sorveglianza continua. Tuttavia, osserva Mayne, questi film presentano legami femminili forti, non patologizzano, almeno non sempre, la rabbia delle donne, danno forma e visione a comunità femminili altrimenti poco esplorate dal cinema. E soprattutto mostrano qualcosa di inedito: «La possibilità che le donne osservino altre donne […]. Invero ciò che colpisce nei film WIP è la marginalità sostanziale degli uomini in molte delle trame, e come la sorveglianza coinvolga donne che guardano donne, donne che sorvegliano altre donne, donne che reificano altre donne. E questo è uno dei pochi generi in cui il lesbismo non è un’anomalia […]. Certo molti film WIP virano verso una pornografia softcore, e ci può essere il male gaze all’opera in queste rappresentazioni del lesbismo. Ma voglio suggerire che c’è qualcosa di più – che i film WIP offrono un’opportunità di andare oltre la rigida dicotomia dell’uomo che scruta la donna e di capire la complessità dei modi in cui le donne, attraverso le linee di divisione di sessualità e razza, vedono le altre donne».
Non c’è stato molto accordo da parte della critica nel valutare il genere WIP. Tropi e convenzioni di molti di questi film, pur nella diversità delle trame e della caratterizzazione delle personagge, li hanno relegati in un angolo assai angusto che è poi quello delle donne sullo schermo. Molto laterali, ai margini di quel centro che è l’uomo, a chi può interessare una storia di donne, molto spesso lesbiche? Considerati tendenzialmente offensivi e stereotipati, solo la messa in onda di alcune serie tv a partire dagli anni Duemila – Bad Girls (1999–2006), Wentworth (2013 – 2021), Orange Is the New Black (2013–19) – hanno cortocircuitato l’attenzione di critica e pubblico, avviando, almeno negli Stati Uniti, anche un dibattito sullo stato detentivo reale delle detenute, la violenza gratuita cui sono soggette, le disuguaglianze sistemiche che le opprimono. Non si tratta più, almeno non soltanto, di intrattenere spettatrici e spettatori con un format accattivante, lanciando qua e là qualche giudizio moraleggiante, e ipersessualizzando le personagge, rendendole feticci desiderabili per lo spettatore maschio. In Orange Is the New Black, ideata da Jenji Kohan, per esempio, pur concentrando l’azione su una protagonista – Piper Chapman – che è bianca, giovane, bella e benestante, la trama include donne di diverse etnie e nazionalità, vari orientamenti sessuali e di genere, generazioni diverse, raccontando storie fuori dai radar di molte e molti. «Secondo l’attivista anti-carceraria Victoria Law, che ha applaudito Orange Is the New Black perché riflette la situazione della vita reale delle detenute, questa serie ha catapultato l’incarcerazione delle donne nella coscienza della cultura popolare. Anche se la serie ovviamente non rivoluzionerà il sistema carcerario […]. Tuttavia, sta raccontando storie diverse su donne incarcerate a persone che altrimenti non intercettano le esperienze di donne emarginate […]. Dobbiamo inserire i film e le serie televisive del WIP come parte di un arsenale, insieme all’attivismo di base, alla teoria critica, alla mobilitazione politica e alla ricerca empirica. Questi film svolgono ruoli diversi, ma non meno rilevanti, nella lotta per porre fine all’incarcerazione di massa delle donne» (Suzanne Bouclin, Women, Film, and Law: Cinematic Representations of Female Incarceration, UBC Press).
Forme di solidarietà diffusa, aggregazioni non strutturate basate su condizioni di vita comune, momentanee e, soprattutto, coatte. Fino a Go Fish. Finalmente, dopo tanta attesa, il piacere della spettatrice viene investito e si àncora a un’intera comunità lesbica. Go Fish, il cui titolo significa sostanzialmente “andare a donne”, è un film del 1994 per la regia di Rose Troche e la sceneggiatura di Guinevere Turner, che interpreta la parte di Max, cappello da baseball, abiti larghi e voce narrante del diario in cui (ci) dice del desiderio di avere una storia d’amore “vera”. Go Fish è uno dei pochi film lesbici a essere annoverato all’interno della corrente del new queer cinema, fortunatissima espressione coniata da B. Ruby Rich in un articolo sul “Village Voice” nel 1992, e presto diventato il manifesto del nuovo cinema lesbico. Attingendo a piene mani dalla comunità lesbica di Chicago, Troche e Turner scrivono una storia convincente e verosimile con un budget di appena 91 mila dollari, girato in bianco e nero con attrici non professioniste in 45 giorni. Il film racconta le vite di un gruppo di lesbiche: Ely e Daria dividono l’appartamento e hanno come amica comune Kia, che sta con Evy, che divide l’appartamento con Max. Kia, Evy e Daria sono convinte che Max e Ely siano fatte l’una per l’altra e che potrebbero mettersi insieme: una commedia romantica e divertente in cui è naturale essere lesbiche. Nessun dramma legato alla diversità, ma “solo” una sessualità vissuta in libertà e con gioia. Diversità che è anche diversità tra le lesbiche; corpi diversi, non conformi, forse solo l’età ha poche sfumature. È interessante come nel film essere lesbica non costituisca un’identità rigida e, seppur resistendo attivamente all’eteronormatività egemonica, non cade nella trappola di un orientamento sessuale inevitabile. Si apre quindi la strada a una produzione dai requisiti originali, che nasce da una comune esigenza di provare percorsi inesplorati, guardando e interpretando la realtà da altri punti di vista. È lo sguardo che cambia e che porta una sensibilità differente con una nuova o altra percezione della sessualità, che lascia molto spazio alla fisicità e ai corpi incarnati di un intero gruppo di amiche: un “cinema del desiderio” che, con uno sguardo e pulsioni lesbiche, introduce un inedito linguaggio erotico.
Particolarmente interessante per l’analisi di come la comunità abbia a tratti cortocircuitato la rappresentazione sugli schermi schivando la favola (lesbica) dell’amore universale è il film, purtroppo ma non a caso poco noto, Itty Bitty Titty Committee (2007), per la regia di Jamie Babbit. Ne parla in maniera estesa B. Ruby Rich nel libro New Queer Cinema: The Director’s Cut, anche questo purtroppo mai tradotto in italiano. Il film racconta la storia di Anna e del suo “risveglio” politico (e sentimentale) quando entra in contatto con un gruppo di attiviste radicali lesbofemministe che combatte il sessismo della società maschilista americana. Molti gli elementi di interesse: la guerrilla art, il conflitto con il femminismo della seconda ondata, più incline al dialogo con le istituzioni, le dinamiche di gruppo e la costruzione di una diversa idea di comunità. La fonte, come analizza Rich, è il film cult Born in Flames (1983) di Lizzie Borden per rivitalizzare i giorni grintosi ed eccitanti del cinema lesbico-femminista degli esordi. Non quindi il solito racconto sullo stile di vita di un gruppo di giovanissime, ma il resoconto puntuale e senza sconti della rabbia e della capacità di reazione che tanto avevano caratterizzato i movimenti lesbofemministi negli anni 70 e nei primi anni 80. Born in Flames era il modello perfetto. Borden lavorava a New York in un momento storico di grandi contraddizioni e conflitti: c’erano il movimento di liberazione delle donne, l’epidemia di AIDS in crescita devastante, le lotte delle lesbiche per ottenere visibilità e diritto di parola (autonoma rispetto alle femministe), la politica di Reagan. Uno scenario politico e sociale molto diverso per Babbit che ha girato il film nel 2006 per rappresentare azioni e reazioni di un gruppo di lesbiche che vivono in un mondo post punk, pansessuale, anarchico, comunitario, anticapitalista. «Babbit», scrive Rich, «ha preso a cuore la lezione di Born in Flames». Una troupe quasi interamente femminile, una colonna sonora ugualmente coinvolgente, un Super 8 e i 16 mm per emulare i formati di produzione di Borden e di altri registi indipendenti dell’epoca, una produzione a basso budget come già era accaduto nel new queer cinema. «E naturalmente c’è il titolo, impossibile da nascondere (ma anche da tradurre, ndr), brandito come una spada infuocata di fronte al film stesso, che avverte tutti e tutte su cosa aspettarsi. […]. Babbit richiama poi un’intera serie di nomi nel film, un tuffo nel passato, come se avesse sintetizzato un mixtape di greatest hits lesbiche e femministe nelle forme, nella politica e nei sottotesti della sua sceneggiatura, nel tentativo di far vivere e respirare di nuovo idee un tempo potenti. La decodifica del suo film diventa un grande gioco per la spettatrice e un processo di illuminazione, una sorta di illuminazione lesbofemminista subculturale».
Nonostante qualche tentativo, anche riuscito, è indubbio che la spinta propulsiva del new queer cinema è finita da tempo e ha lasciato spazio ad altre narrative, qualcuna omologata, altre ancora dissidenti, tuttavia lo sguardo obliquo di quel periodo si è parecchio raddrizzato. Anche se l’obiettivo di allora non era certo l’accettabilità da parte della società e, soprattutto, del mercato, appare evidente oggi che questa è l’eredità lasciata in sorte alle nuove generazioni. Oggi molte personagge lesbiche transitano con alterne fortune sugli schermi, e tante si sono “normalizzate”. Le storie d’amore sono ormai universali, e poco è rimasto di una potente e disturbante radicalità. Bella presenza, glamour quel tanto che basta, classe medio-alta, astenersi perditempo. Le vecchie sfide si sono dissolte nell’omonormatività e si è a lungo passate a storie tendenzialmente di coppia, qualcosa che molto placa le ansie del “e vissero per sempre felici e contente”. Un passaggio ambiguo è stato fatto con The L Word, che ben rappresenta una comunità lesbica ma, appiattendone la rappresentazione in termini di classe, etnia ed età, molto si affida a una narrativa romantica omonormata. Al di là dei tanti difetti che si possono ascrivere a questa serie televisiva, alcuni dei quali trasportati anche nel recente revival The L Word: Generation Q, vorrei soffermarmi proprio sulla dimensione collettiva che tanto si concentra attorno a un luogo preciso: il bar The Planet (diventerà Dana’s nel sequel Generation Q). Lo spazio si apre, si esce dai luoghi chiusi e insalubri di collegi e prigioni, e ci si avventura finalmente nel mondo. Luoghi di incontro, di socializzazione, di formazione di comunità. In questo senso i bar sono stati fin dai primi anni 50 luoghi politici e non a caso sono stati proprio dei bar a segnare l’inizio del movimento LGBT. Non uno solo come spesso viene ricordato, ma due: la Compton’s Cafeteria di San Francisco che nel 1966 determinò, come sottolinea la studiosa Susan Stryker, il debutto della comunità transgender sul palcoscenico della storia politica americana, e lo Stonewall Inn di New York davanti al quale nel 1969 la butch Stormé DeLarverie e la trans Sylvia Rivera diedero il via alla rivolta. Spazi che si sono aperti, spazi che si sono di nuovo chiusi (nel senso che sono state definitivamente abbassate molte di quelle saracinesche), spazi comuni che è importante tornare a occupare per dare luogo a esperienze di resistenza e sovversione, tanto per citare bell hooks.
Di bar lesbici e spazi di comunità ha parlato il documentario di Alexis Clements All We’ve Got, proiettato durante l’edizione 2020 di Some Prefer Cake. Da Brooklyn, New York, dove vive la regista, a Oklahoma City e San Antonio, in Texas, il documentario esplora gli spazi e le comunità lesbiche per capire meglio perché è importante avere un posto tutto per sé, meglio se fuori casa. Lo scenario è sconfortante: negli Stati Uniti dal 2010 hanno chiuso più di 100 bar, librerie e spazi comunitari. E se anche qualcuna è riuscita a rimanere aperta contro qualsiasi pronostico, è come se la comunità si configurasse in qualcosa di sfuggente, di cui ancora non si comprende appieno il valore e l’importanza e a capire come e dove e quando tornare a renderla viva e propositiva. Lo so, lo sappiamo che la parola “lesbica” crea sempre un po’ di malumore, ma la si può continuare a usare e rivendicare aprendo la spazio a tutte le soggettività, rendendo gli spazi plurali e transfemministi. Soprattutto adesso in questi tempi bui di politiche familiste e revisioniste. Anche in Italia dove permangono realtà feconde che esistono e resistono. Se per il passato è impossibile non ricordare, e ne cito solo due, gli storici Cicip & Ciciap, circolo separatista di Milano fondato da Nadia Riva e Daniela Pellegrini, e Zanzibar, locale romano per sole donne fondato da Nicola Sivieri e Tiziana Mazzi, su cui è possibile vedere il documentario Zanzibar. Una storia d’amore per la regia di Francesca Manieri e Monica Pietrangeli. Per il presente penso, e ne cito a memoria solo alcuni, a luoghi di ritrovo che alle volte sono bar, come il Pop di Milano, alle volte sono librerie e spazi di socialità diffusa, come la libreria Tuba a Roma o Nora Book & Coffee a Torino, o librerie come la Libreria delle donne di Bologna, Antigone (a Milano e Roma), o ancora circoli, come il Cassero, il Maurice, il Mieli. E appunto i festival del cinema LGBTQ+. A questo tema ho dedicato Gli spazi son desideri, una puntata del mio podcast sul cinema lesbico Reno, 1959.
La questione è riuscire a stare al passo con i tempi, seguire il flusso delle trasformazioni. È quel che accade in Work in Progress, in tutto due stagioni prodotte da Showtime tra il 2019 e il 2021, nata da un’idea di Abby McEnany, al suo esordio in televisione alla non tenera età di 51 anni. Work in Progress non si concentra solo sulla storia d’amore: non la coppia, ma appunto la comunità emerge come spazio fisico e mentale indispensabile per affrontare gioie e dolori di chi si sente spesso fuori posto. Una comunità resistente, dissidente, in continua trasformazione. Sembra ancora di sentirlo lo slogan delle lotte LGBT degli anni 90: «We are here, we are queer, get used to it». È un’eco che risuona ancora forte e chiara in Work in Progress anche se molto è cambiato, e per fortuna. Quanto è cambiato McEnany non lo spiega a parole con un qualche monologo noioso e didascalico, ma lo mostra in molti modi diversi, tutti assai avvincenti. Anche tu, spettatrice, se lo ricordi, quel passato proiettato sullo schermo, e lo hai vissuto con un certo entusiasmo, non puoi non provare una forte attrazione per questo presente dinamico, aperto, irriverente. Un esempio? Seconda puntata della prima stagione: Abby e il suo compagno trans Chris, vanno in un locale una sera, un locale queer, punto di ritrovo della variegatissima comunità di Chris. Abby ha la sensazione di esserci già stata anche se non ricorda il nome: era un bar per lesbiche, nessun* ricorda neppure che sia esistito, e le serve un aiuto dai suoi dettagliatissimi diari per riacchiapparne il nome; ma ha dei flashback: lei, le sue amiche, le tante avventure. Le cose cambiano, gli ambienti si trasformano, le comunità evolvono; il punto è riuscire a trasformarsi, stare al passo con il cambiamento di sé, delle relazioni, di tutto quello che ci circonda.
Vorrei chiudere questa breve e fin troppo sintetica carrellata con qualche anticipazione di Some Prefer Cake 2023 che molto si allineano al tema della comunità e ai molti modi possibili di rappresentarla. Il 22 settembre alle 21 verrà proiettato La amiga de mi amiga, film del 2022 della regista spagnola Zaida Carmona. È una commedia, molto autobiografica, che sulla comunità lesbica di Barcellona, vera e propria celebrazione dell’essere lesbiche e queer oggi. Oltre le ascendenze dichiarate – Éric Rohmer in primis, da qui anche il titolo – impossibile non pensare anche a Go Fish, alla chart di The L Word, alle difficoltà del vivere di Work in Progress. Una rete di amiche in continuo movimento e trasformazione emotiva che sono già comunità per la condivisione di uno stile di vita gioioso e mai scevro da implicazioni sociali e politiche. Che poi la domanda è: le cinque o sei relazioni con le amanti che si alternano e si incrociano in continuazione costituiscono una base possibile per un collettivo o sono solo relazioni poliamorose senza connessione reale? Come ha dichiarato Cardona: «Per me era importante girare un film in cui ci riprendessimo un po’ e celebrassimo la nostra identità. Ci sono molti film a tema lesbico che amo, anche se sono drammatici. È normale all’interno dell’identità LGTBIQ+ trovare esperienze problematiche e dolorose, ma volevo creare qualcosa in cui ci divertissimo e dove le personagge facessero a volte la cosa sbagliata. Sembra che dobbiamo sempre creare personaggi esemplari e che il trauma giustifichi la loro identità. Volevo mantenere il tutto leggero pur rimanendo attivista. Ci divertiamo e possiamo anche disturbare».
Il 23 settembre alle 16.30 è la volta di La collina dove ruggiscono le leonesse (2021), esordio alla regia dell’attrice franco-kosovara Luàna Bajrami. Ambientato in Kosovo, è una storia di autodeterminazione fuori dai soliti schemi e senza cedimenti vittimistici di tre giovanissime ragazze – Qui, Li e Jeta – alle prese con sogni e desideri che si scontrano con un ambiente fortemente oppressivo e maschilista. Un ritratto di gruppo con sfumature thriller per una costante ricerca di libertà che per le donne non è ancora scontata. Se l’obiettivo è andarsene, unico spiraglio per la realizzazione di sé e delle proprie aspirazioni personali, non è detto che nel frattempo non si possa vivere e godere della forza che lo stare insieme crea e riproduce. Il film intreccia amicizia, sorellanza e lesbismo in modo molto efficace e mai banale, configurando forme di legami femminili stratificati che non si escludono a vicenda. E che a modo loro costituiscono una piccola comunità resistente.
Molte possibilità di rappresentazione, un forte desiderio: essere e sentirsi parte di una comunità che molto guarda al futuro e che sente forte anche il legame con la memoria. Non è un caso infatti che la programmazione di Some Prefer Cake si sia spesso concentrata sulla relazione tra identità, spazi e memoria, attraverso un lavoro di indagine da parte di molte registe sulle storie personali per fare emergere il senso di una collettività. Ed è per questo che concludo con il cortometraggio che apre questa edizione del festival: Luki, un’animazione di Marta Bencich e prodotto da Vivo Film. Le origini e la vita di Luki Massa, fondatrice, proprio con Marta, del festival Some Prefer Cake, che ha dedicato la vita a «celebrare la ricchezza del cinema lesbico». FEDERICA FABBIANI
Federica Fabbiani è giornalista e scrittrice. Attenta studiosa di cinema e tv attraverso lo sguardo della critica lesbica, ha firmato i libri Sguardi che contano (Iacobelli editore) e Zapping di una femminista seriale (Ledizioni), e ha curato Architetture del desiderio – Il cinema di Céline Sciamma (Asterisco edizioni, con Chiara Zanini). Collabora con la rivista “Leggendaria” e conduce il podcast sul cinema lesbico Reno, 1959. È programmer del festival bolognese Some Prefer Cake, che quest’anno si svolge dal 22 al 24 settembre: trovate la selezione di questa edizione qui.
Uno dei film più chiacchierati dell’estate è Bottoms, l’opera seconda di Emma Seligman, l’autrice di Shiva Baby, che torna a collaborare con la protagonista di quel film, Rachel Sennott, e con la Ayo Edebiri di The Bear. Definito da molti un «Fight Club queer» (oltre che in commedia), sul film la regista ha rilasciato un’interessante intervista al New Yorker (e, con le sue attrici, ha posato sulla copertina del New York Magazine) [in inglese].
Sul sito di Literary Hub, fino al 18 ottobre, sarà pubblicato ogni settimana un cortometraggio su Ursula K. LeGuin. Il primo – in cui l’autrice racconta la propria esperienza di aborto illegale – potete vederlo a questo link [in inglese].
È ripartita per l’ultima tranche di episodi la serie Erotic 90s del nostro amato podcast sulle storie segrete o dimenticate di Hollywood You Must Remember This. Insieme alla precedente Erotic 80s, ripercorre gli anni 80 e 90 del cinema americano attraverso la rappresentazione dell’erotismo, improvvisamente più “libera” rispetto ai decenni precedent: una lente che rivela moltissimo dei rapporti tra i generi e della loro trasformazione nell’immaginario popolare. Forse ci torneremo su, nel frattempo l’autrice parla di questo suo ultimo progetto, e del podcast in generale, qui [in inglese].