Singolare, femminile ♀ #107: In fila per due
Conclusa l’80ª Mostra del cinema di Venezia, percorriamo - a partire dal Leone d’oro Povere creature! - gli sguardi al femminile e sul femminile che l’hanno animata, mettendo in dialogo fra loro coppie di titoli diversamente gemelli.
Venezia 80 si chiude con l'incoronazione di uno dei film più amati dalla critica durante la Mostra, quel Povere creature! di Yorgos Lanthimos dato tra i favoriti sin dalla sua proiezione nei primi giorni del Concorso; il Premio speciale della giuria è andato ad Agnieszka Holland, unica donna in palmarès (eccezion fatta per Cailee Spaeny, Coppa Volpi per Priscilla) e per qualche tempo data a sua volta per probabile vincitrice, grazie a un film, The Green Border, che denuncia le condizioni disumane affrontate dai profughi sul confine tra Polonia e Bielorussia (un film più giusto che grande, più necessario che bello, ma di grande precisione e potenza). Di sguardi e di ritratti femminili, comunque, ce n'erano non pochi, disseminati qua e là nelle sezioni, e come di consueto dedichiamo questo primo numero post-Venezia alla ricognizione sulle voci di donna più interessanti del festival, che quest'anno ci son sembrate più che mai parlarsi l'una con l'altra, fare "rete" e creare connessioni tramite film anche molto diversi tra loro, ma fruttuosamente complementari.
Ve li raccontiamo così, due per volta, come fossero allo specchio, scegliendo otto "duetti" che ci sembrano più rilevanti tra i tanti presenti alla Mostra.
Non fare l'isterica: Povere creature! + We Should All Be Futurists
Il Leone d'oro è andato al film più femminista di questa edizione, manifesto di libertà ed empowerment firmato da Yorgos Lanthimos e interpretato da una fenomenale Emma Stone, nei panni di una "creatura" forgiata da un novello Frankenstein, una Candide al femminile che si aggira nell'Europa vittoriana imparando (e rigettando) le assurdità dei compromessi e delle ipocrisie sociali. Bella Baxter fa attrito col suo corpo affamato e liberissimo, scopre le gioie del sesso e si domanda, giustamente, come mai la gente «non faccia questo tutto il giorno»; sperimenta con avventure romantiche e con la prostituzione, scopre i confini del proprio desiderio e le gabbie che cercano di contenerlo e inibirlo.È uno scandalo ambulante, un'anomalia in corpo di donna, un magnifico mostro cui Emma Stone regala la migliore interpretazione della sua carriera, trasformandosi nell'arco di due ore e mezza da bimba scoordinata a intraprendente esploratrice (del mondo e di sé), tra amplessi sguaiati, occhi sgranati e movenze cartoonesche in cui la diva di La La Land eccelle. Il film, senza di lei, non sarebbe esistito, ha dichiarato Lanthimos; ed è interessante collocare Povere creature! nell'ambito di una trilogia forgiata dall'attrice insieme allo sceneggiatore Tony McNamara, che qui adatta le pagine di Alasdair Gray e che, dopo aver scritto il copione di La favorita (sempre di Lanthimos, con un trio di attrici clamorose che vede Stone arrembante outsider in mezzo ai personaggi di Olivia Colman e Rachel Weisz) ha co-firmato anche la Crudelia di Craig Gillespie (sua pure la bellissima serie The Great, che si muove nella medesima direzione). Abigail, Estella/Cruella e Bella sono tre versioni della medesima "mostruosità", donne fuori canone e fuori dalle regole, che si fanno strada facendo a brandelli le convenzioni e accogliendo - affermando - la propria diversità, e Stone presta a tutte e tre la sua fisicità goffa e sensuale insieme, fanciullesca eppure perturbante.
Chi scrive non è stata la prima a notare l'assonanza del film di Lanthimos con un corto in gara alla Settimana della critica, We Should All Be Futurists di Angela Norelli, interamente costruito con frammenti di cinema muto rimontati e contrappuntati da un'ironica voce narrante che racconta le gioie della scoperta del piacere femminile; il titolo gioca con il celebre slogan titolo del Ted talk e saggio di Chimamanda Ngozi Adichie, We Should All Be Feminists, e proprio come in Povere creature! il progresso scientifico e tecnologico in mano al patriarcato si rivela inatteso - e felicemente incontrollabile - grimaldello dell'emancipazione femminile.
Il filo nascosto: Priscilla + Maestro
In parecchi hanno storto il naso all'annuncio della vittoria della giovanissima Cailee Spaeny per la sua interpretazione di Priscilla Presley; ma, al di là degli effettivi meriti di un'attrice promettente, è giusto sapere che nel gioco dei palmarès i premi agli attori sono spesso "strumentali", ovvero servono a dare risalto a un titolo che, nello scacchiere della giuria, non ha magari trovato posto altrove.
Per questo ci sentiamo di dire che quel premio è soprattutto un premio a Sofia Coppola e al suo soffocante ritratto di una relazione tossica in interni color pastello: la storia dell'adolescente Priscilla, sedotta dalla rockstar Elvis e da lui "inglobata" nel suo stile di vita e nella sua magione di Graceland, è un potentissimo teorema sullo squilibrio di potere, sulla pratica del grooming sulle giovani fan (quel che nel film si vede fare a Elvis, che elargisce alla quindicenne Priscilla promesse e pasticche, non è molto diverso da ciò di cui è stato accusato Marilyn Manson) e sulle dinamiche relazionali che spesso soggiogano l'indipendenza femminile. La vera Priscilla è produttrice del film nonché autrice dell'autobiografia da cui è tratto, il cui titolo era significativamente Elvis and Me, con il Re davanti a tutto, a schiacciare l'individualità e l'indipendenza della giovane innamorata. Presley rimodella Priscilla, le tinge di nero i capelli, sceglie per lei vestiti e colori, piccole pistole abbinate agli outfit: non fa posto per lei nella sua vita, semplicemente la trasforma in un prolungamento della sua estetica e del suo arredamento. Il film sembrerà violento e ingiusto ai fan di Elvis, ma lo scopo di Coppola non è (solo) demistificare l'icona: chiunque abbia vissuto una relazione tossica riconoscerà i meccanismi di premio e svalutazione che Elvis attua con la giovane compagna, impedendole di andarsene eppure non lasciandola mai realmente avvicinarsi.
Qualcosa di molto simile avviene in un altro biopic "musicale" in Concorso, il Maestro di Bradley Cooper, dove una magistrale Carey Mulligan interpreta la moglie di Leonard Bernstein, l'attrice Felicia Montealegre. La quale s'innamora, ricambiata, del rampante compositore e direttore d'orchestra, scegliendo consapevolmente di vivere al fianco di un uomo omosessuale, e dunque accettando, per tutta la durata del matrimonio, le sue avventure con altri uomini. Il film è raccontato in gran parte dal punto di vista di Felicia, facendo di Leonard un personaggio opaco e talvolta respingente, e inquadrando invece con precisione il sacrificio autoimposto di una donna che - come tante altre prima e dopo di lei - crede possibile aggiustare tutto con la sola forza del proprio amore e della propria tolleranza, solo vagamente consapevole di stare attuando verso di sé e verso il proprio talento un totale autosabotaggio che lascerà il suo desiderio, la sua carriera e la sua felicità appoggiati in un angolo dell'affollata vita del Maestro.
Giovani streghe (e stregoni): Holly + City of Wind
I romanzi di formazione non mancano mai ai festival, e molto spesso sono diretti da donne (è uno dei generi attraverso i quali è più facile l'accesso all'industria per le registe): è il caso di due titoli speculari a Venezia, accomunati dalla curiosa variazione "spirituale" sul tema del classico coming of age.
Holly, firmato dalla regista fiamminga Fien Troch e presentato in Concorso, rende ambigua e straniante la figura dell'eponima quindicenne, bullizzata a scuola ed etichettata come "strega", ma forse realmente dotata di preveggenza, o almeno di un sesto senso: la sua capacità di intuire e lenire il dolore altrui è un dono che il prossimo prima scopre con sorpresa, poi consuma avidamente, lasciando l'adolescente frastornata e incapace di indirizzare il suo, di dolore. Tra il Vox Lux di Brady Corbet e le atmosfere liquide di Bas Devos, il film galleggia tra il mistero della fede e l’invincibilità del senso di colpa, suggellando la parabola con un finale al contempo enigmatico e naïf, un po’ frettolosamente archiviato come risibile dalla critica al Lido.
Fa da ideale controparte maschile a Holly il protagonista di City of Wind (il giovane Tergel Bold-Erdene, incoronato migliore attore nella sezione Orizzonti), diretto dall'esordiente mongola Lkhagvadulam Purev-Ochir: diciassettenne, Ze studia nella frenetica e moderna Ulan Bator, ma la sua vita è diversa da quella di ogni altro coetaneo, perché lui, smessi i panni dello studente modello, indossa quelli di sciamano, perpetuando una tradizione ancestrale e offrendo complessi, coreografati rituali propiziatori alle famiglie che hanno bisogno di un "miracolo". Come in Holly, anche qui il "dono" somiglia più a un fardello, e nel contrasto fra le due vite di Ze (la cui disciplina viene fatta implodere integralmente dalla forza del primo amore) sta un'acuta rappresentazione della Mongolia moderna, da parte di un'autrice di cui è bene appuntarsi il nome.
Tutte le famiglie felici si somigliano: Felicità + Hoard
E ogni famiglia infelice, invece, è infelice a modo proprio. L'esordio dietro la macchina da presa della diva nostrana Micaela Ramazzotti (presentato in Orizzonti Extra e in sala dal 21 settembre) è stato, per chi scrive, tra le sorprese della Mostra: uno sguardo inedito, fra empatia e un registro grottesco figlio della tradizione della commedia all'italiana, su un tema che nel nostro cinema di rado fa capolino, ovvero la salute mentale.
La storia di due fratelli, della depressione che affligge il minore e del trauma che riaffiora, in modi più subdoli, anche nella maggiore (interpretata dalla stessa Ramazzotti); la storia di una famiglia che non sa, non vuole, dirsi infelice, e soprattutto la storia di due genitori (interpretati dai mostruosi, in tutti i sensi, Anna Galiena e Max Tortora) che si corazzano dietro il proprio egoismo e la propria ottusità senza vedere le conseguenze che le loro scelte hanno avuto sui figli. Tra ricoveri e sedute di analisi collettiva, Ramazzotti racconta la congenita recalcitranza italiana ad affidarsi alla terapia per i disturbi mentali, mettendo in scena un nucleo caotico e, pur nella cifra di un mélo familiare venato di satira, spaventosamente realistico.
Un altro trauma familiare è all'origine di Hoard, dell'esordiente Luna Carmoon, trionfatore della Settimana della critica con i premi del pubblico, della giuria under 35 e con menzioni alla regia e all'attrice protagonista, la folgorante Saura Lightfoot Leon. Un'altra madre “snaturata", secondo le regole della società, eppure tessitrice di una coltre d'amore spessa fino a soffocare, quella incarnata da Hailey Squires è una donna affetta da disturbo dell'accumulo, che cresce la piccola Maria in un nido malsano e pericolante di oggetti e scarti, il loro «catalogo d'amore». Carmoon, rielaborando il proprio vissuto, mette in scena in due atti - infanzia e adolescenza - la vita di Maria che, allontanata da sua madre dai servizi sociali e affidata a una casa famiglia, sente riaffiorare i segni del trauma, innescato dal risveglio del desiderio sessuale e raccontato con soluzioni visive che rasentano il genere e non temono la provocazione.
(Non) è la fine del mondo: L'ordine del tempo + 21 Days Until the End of the World
90 anni compiuti, la grande Liliana Cavani ha ricevuto a Venezia80 il Leone alla carriera, e ha portato Fuori concorso il suo ritorno al lungo di fiction (ben 21 anni dopo Il gioco di Ripley).
L'ordine del tempo, attualmente in sala, è tratto dal saggio di Carlo Rovelli e mette una manciata di personaggi - colti e borghesi, molti con precisa preparazione scientifica - di fronte alla minaccia di un meteorite che, pure se in basse percentuali, potrebbe impattare con la Terra. In attesa della fine del mondo, vanno in scena piccole e grandi crisi personali, rimorsi e rilanci, filmati da Cavani da placida distanza, come un teatro semiserio dell'apocalisse.
È del tutto immaginaria anche la fine del mondo paventata dalla macedone Teona Strugar Mitveska nella bizzarra e a tratti esilarante autofiction 21 Days Until the End of the World, alle Giornate degli autori: un video-diario da tempi del lockdown trasformato in conto alla rovescia per la catastrofe, dove le stagioni si alternano senz'ordine e dove la regista filma se stessa, il proprio corpo nudo, il proprio senso di colpa di madre, senza filtri e senza pudore, sormontato da ingombrantissimi elementi tipografici che colmano lo schermo come nuvolette impazzite di un fumetto.
Maternità spezzate: Milk + Malqueridas
Alle Giornate degli autori l'esordiente olandese Stefanie Kolk ha portato Milk, un titolo diretto quanto la sineddoche che abita il film. Storia di Robin, giovane donna che dà alla luce un bimbo morto, e la cui elaborazione del lutto è resa ardua e lancinante dalla risposta fisiologica del suo corpo, che continua cocciutamente a produrre latte per un figlio non più esistente.
Robin si aggrappa a quest'unica rimanenza di maternità e decide di non sprecare quel nutrimento, ma di donarlo a donne che hanno difficoltà ad allattare al seno: il tortuoso percorso burocratico è cadenzato dalla simbolica moltiplicazione dei flaconi pieni di latte, dolorosa presenza incapace di colmare un’assenza abissale, in un racconto di maternità negata che, pur nella forma di un educato film "da festival", illumina angoli ancora troppo bui del vissuto femminile.
Sono madri negate, madri legate, quelle del doc Malqueridas di Tana Gilbert, vincitore della Settimana della critica e costruito montando immagini filmate illegalmente, in prigione, da detenute cilene. I loro figli crescono altrove, nel mondo fuori, ma il film vuole essere, prima che un atto di denuncia, un inno alla vitalità e alla forza delle donne perfino in condizioni avverse: come sintetizza la regista presentando il film, «mai sottovalutare il potere collettivo di chi al potere non ha accesso».
Mi esibisco, dunque sono: Backstage + About Last Year
Inizia come un documentario, Backstage, con una lunghissima sequenza di teatro-danza che vede sul palco la compagnia teatrale protagonista, ma prosegue come un'odissea notturna, complice un autobus in panne e una foresta dai contorni nebulosi. Scritto dalla ballerina e attrice marocchina Afef Ben Mahmoud e da lei diretto insieme a Khalil Benkirane, il film, presentato alle Giornate degli autori, si muove - o meglio, danza - proprio sul confine tra fiction e realtà, con i performer protagonisti alle prese con conflitti che dal palcoscenico esondano inesorabilmente a toccare questioni identitarie.
Ed è invece un documentario che si guarda come un romanzo di formazione About Last Year, unico film italiano in gara alla Settimana della critica, diretto a sei mani da Dunja Lavecchia, Beatrice Surano e Morena Terranova, che hanno lavorato per anni al loro ritratto della scena delle ballroom torinesi. Ancora poco nota in Italia, la cultura delle ballroom si fonda su esibizioni e competizioni animate da membri della comunità LGBT+, in un gioco di maschere, travestimenti e "categorie" che mette in scena in modo plateale e liberatorio la trasgressione rispetto alle gabbie identitarie (la serie Pose di Ryan Murphy racconta la scena newyorkese). About Last Year stringe l'obiettivo su tre giovani donne, Celeste, Giorgia e Letizia, registrandone le performance, le prove costume, l’ansia e la necessità dell’autorappresentazione, filmando i loro corpi con un female gaze sensuale e liberatorio, mai oggettificante, cercando l’universale dentro il particolare di una generazione, di una comunità e di un luogo (la periferia torinese).
Grazie, Patrizia Cavalli: This Is How a Child Becomes a Poet + Le mie poesie non cambieranno il mondo
Programmati (ma non nello stesso slot) entrambi alle Giornate degli autori, i due omaggi alla grande poeta scomparsa nel 2022 sono davvero opposti e complementari: il cortometraggio di Céline Sciamma This Is How a Child Becomes a Poet si fonda tutto sull'assenza, sulla casa di Cavalli che diventa un vuoto con la memoria intorno; stanze disabitate, fotografie come uniche protagoniste, la musica e la poesia a braccetto.
E il filo rosso dell'identità queer, assai caro alla regista, che attraversa il tempo e le immagini, a partire da una foto con (finto) autografo di Kim Novak.
Il doc di Annalena Benini e Francesco Piccolo, in questi giorni in sala, è invece saldamente imperniato sulla presenza dell'autrice, intervistata dai registi che la lasciano libera di raccontarsi a piacimento, tenendo al centro le sue parole - i suoi testi, i suoi reading, le sue dichiarazioni in frammenti di repertorio - e la sua inconfondibile fisicità, l'ironia e quel pragmatismo paradossale di chi fa poesia consapevole che «non salverà il mondo». ILARIA FEOLE
In attesa di Povere creature!, che arriverà nelle sale italiane solo il 25 gennaio, vi riproponiamo la recensione (dal numero 4/2019 di Film Tv) della precedente fatica di Yorgos Lanthimos & Emma Stone, la satira in costume La favorita.
La favorita
Giochi di potere a tre, in un interno: fatti di soprusi, umiliazioni, concessioni, parole non dette e sguardi fin troppo espliciti, sfide e blandizie, occhi che frugano oltre la luce tremolante delle candele e mani e lingue che si spingono nei recessi più intimi. Questa è la storia di Queen Anne, prima regina del regno di Gran Bretagna (dal 1702 alla morte, nel 1714), ultima degli Stuart, di intelligenza mediocre e salute cagionevole, golosa nonostante la gotta, e delle due amiche/consigliere/amanti che si contesero il ruolo di favorita, Sarah Churchill, duchessa di Malborough, e Abigail Hill, la giovane cugina decaduta che Sarah aveva introdotto a corte. Malizie e perfidie femminili, per gestire potere, ricchezza e privilegi (e le stesse sorti dello stato), in un universo chiuso in cui gli uomini, con guance e labbra dipinte ed enormi parrucche incipriate, si trastullano tra giochi cretini (la corsa delle anatre, il tirassegno con melagrane marce a un nobile nudo), agguati erotici nei corridoi e l’errata convinzione di essere loro a manipolare l’esercizio del comando. Chi comanda è lady Malborough (tra l’altro, suo marito sembra l’unico maschio con un’occupazione “seria”: guida gli eserciti in guerra), intelligente, forte, decisa, forse davvero amica di Anne; mentre Abigail, che piano piano le subentra nel letto e nella fiducia della regina, arriva troppo dal basso (quando aveva 11 anni suo padre l’ha venduta per pagare una scommessa) per mostrare qualche traccia di sentimento. Ma è giovane, bella e astuta. Quanto a Anne, la dolente, insofferente, dispotica, vorace, capricciosa regina, solo all’apparenza è inconsapevole del proprio ruolo (in questo senso, la scena finale è emblematica). È bello La favorita, imprevedibile period drama di Yorgos Lanthimos, che in realtà non è un dramma, ma una stilizzatissima e crudele commedia grottesca, costellata di battute, occhiate e sgambetti feroci, affogata nel sesso e nella merda (dalla quale arriva a corte letteralmente ricoperta la giovane Abigail), intrisa di un cinismo che non è né maschile né femminile, ma solo un umano requisito nella lotta per la sopravvivenza. Strette nei costumi (tutti giocati sul bianco e nero) di Sandy Powell, Rachel Weisz, Emma Stone e Olivia Colman (l’autentica dominatrice, che sta vincendo ogni premio) tessono un gioco di ruolo stizzito e impudico che si avvale delle armi affilate della femminilità, della quale trapelano a tratti lampi di dolore (la regina, con i 17 conigli che rimandano ai 17 figli abortiti, nati morti o morti in tenera età), di autentica solidarietà (Sarah) o di maldestra ingenuità (Abigail). Lanthimos distorce le prospettive con sontuosi grandangoli, riprende le sue “eroine” ostinatamente dal basso, ingigantendole o cogliendone in primi piani silenziosi le interne macchinazioni, le guarda danzare una surreale rivisitazione dei balli di corte settecenteschi, le ammira, in fondo, tanto quanto disprezza o deride i cortigiani che le circondano. E, insieme a loro, diventa carnale e vitale come non è mai stato. EMANUELA MARTINI
A proposito di Liliana Cavani: la regista sarà la prima donna a ricevere il Premio Fiesole ai Maestri del cinema, riconoscimento conferito dal Comune di Fiesole in collaborazione con il Sindacato nazionale critici cinematografici italiani gruppo toscano e la Fondazione Sistema Toscana, con la direzione artistica di Simone Emiliani. La premiazione sarà il 23 settembre, al Teatro di Fiesole, aperta alle 20.30 da un incontro con Cavani.
Fondato e diretto da Giovanna Taviani, è giunto alla 17ª edizione il Salina Doc Fest, quest’anno dedicato al tema Donne oltre confini, sull'isola delle Eolie dal 13 al 17 settembre. Oltre ai sei titoli in concorso, in programma, incontri, spettacoli dal vivo e un omaggio ad Agnès Varda. Tra le ospiti, Valeria Golino e Francesca Marciano (al timone della serie Sky Original L'arte della gioia, da Goliarda Sapienza) e Isabella Ragonese, al debutto da regista con il documentario su Rosa Balistreri.
Per chi vive a Milano e dintorni sarà possibile recuperare in anteprima alcuni dei titoli della Mostra di Venezia di cui parliamo in questo numero (tra cui Holly, Milk e il corto This Is How a Child Becomes a Poet), con la consueta iniziativa di AGIS Lombardia Le vie del cinema. Prevendite e programma dal 15 settembre su leviedelcinema.lombardiaspettacolo.com