Singolare, femminile ♀ #106: Case di bambola
Vent’anni fa portava a Venezia il suo futuro cult Lost in Translation, quest’anno è in Concorso al Lido con il biopic Priscilla: ne approfittiamo per una ricognizione sul cinema di una regista che amiamo, Sofia Coppola. Capace di indagare, sotto la superficie di uno stile unico e ostentatamente “femminile”, la materia imprendibile di vuoti esistenziali.
La città era appesa alla mia finestra, piatta come un manifesto,
luccicante e ammiccante, ma per quanto mi riguardava
avrebbe potuto non esserci affatto.
Sylvia Plath, La campana di vetro
A vent’anni – precisi – da Lost in Translation, in Asteroid City Scarlett Johansson è ancora a una finestra, attorniata da un paesaggio che appartiene, più che al reale, all’immaginario. Nel film di Wes Anderson, nelle sale italiane dal 14/9, nella cornice quadrata di una finestra-polaroid, la diva frantuma la quarta parete (più d’una, in un film letteralmente, e vertiginosamente, a matrioska) e parla, con noi e con Augie Steenback/Jones Hall/Jason Schwartzman, dice «I think I see how I see us», sfoglia i significati di sé e del proprio personaggio, sull’orlo di una voragine con un set-città attorno, attraversata dalla ricerca di un senso (im)possibile («il senso dell’universo! Forse ce n’è uno»). Riccioli neri, labbra scarlatte, maturità piena, non potrebbe apparire più distante dalla sé diciassettenne che incarnava la sperduta Charlotte in Lost in Translation, e la superficie del film di Sofia Coppola – intima e realistica, in un lavoro che è anche puntellato di scene “rubate” tra la vera folla di Tokyo – non sembra a prima vista condividere nulla con la cartoonesca artificiosità dell’Asteroid City di Anderson.
Eppure, sarà anche per la coincidenza temporale – Sofia Coppola è in gara in questi giorni alla Mostra di Venezia con il uso ultimo lavoro, Priscilla: proprio vent’anni fa, sempre a Venezia, ma nella sezione che all’epoca si chiamava Controcorrente, presentava il suo secondo lungo, quello della consacrazione, Lost in Translation –, ci viene da allacciare fili tra Coppola e Anderson (pure lui, peraltro, oltre che a breve in sala con Asteroid City, è al Lido, Fuori concorso, con The Wonderful Story of Henry Sugar). Quasi coetanei (lui è nato nel 1969, lei nel 1971), appartenenti allo stesso clan familiare e creativo “allargato” (un solo esempio: il cugino di Sofia Jason Schwartzman è presenza ricorrente nella filmografia di entrambi) e alla stessa generazione registica (che è anche probabilmente l’ultima a formarsi in un panorama produttivo che consente al cinema d’autore budget medio-alti e un accesso diretto al mainstream), sono spesso accusati degli stessi mali dai loro detrattori: le loro estetiche personalissime sarebbero involucri vuoti e fini a se stessi, “pubblicitari” (la prova: entrambi gli autori intessono relazioni durature con il mondo della moda), immediatamente di maniera e ripetitivi (non a caso, spesso chi non li apprezza ama ribadire che non sono mai riusciti a fare un altro film bello come i primi). Entrambi, mettono in scena personaggi eternamente sospesi in una condizione di perenne adolescenza, loop esistenziali irrisolvibili, giri a vuoto cui le voci critiche vorrebbero ridurre anche i film stessi e la rispettiva poetica autoriale.
Pochi registi contemporanei, però, hanno saputo imporre un’idea di cinema (che, prima di tutto, è arte dell’immagine, e della sua costruzione) precisa, inconfondibile, irriproducibile (nonostante la schiera di imitatori, siano umani o intelligenze artificiali) quanto Coppola e Anderson, penetrando in profondità nella riconoscibilità collettiva, guadagnando fandom appassionati e trasversali. E se, nello specifico, l’ostilità allo stile di Wes Anderson qualche volta si confonde con una generale sottovalutazione di arti considerate “minori” (l’animazione, l’illustrazione, il design, la letteratura per ragazzi), Sofia Coppola patisce innegabilmente la propria adesione ostentata e consapevole a una femminilità totale, al punto di vista, estetico e sentimentale prima ancora che narrativo e contenutistico, dell’adolescenza femminile, della girlhood.
Qualcosa che spesso comincia già dalla scelta del carattere dei titoli di testa (The Virgin Suicides scritto come gli scarabocchi arzigogolati ai bordi dei diari di scuola; l’elegantissimo L’inganno, tutto graziato e in rosa) e che prosegue nell’affetto tangibile con cui la regista inquadra gli oggetti del quotidiano di una ragazza, quelli che arredano il suo mondo, che assumono nella sua esistenza un significato aumentato, quasi un potere magico. Le stanze affollate di soprammobili, dischi, fogli, bracciali delle sorelle Lisbon, i goduriosi montaggi su scarpe, stoffe e dolci di Marie Antoinette, gli abiti firmati, le borsette, gli occhiali da sole di Bling Ring: il feticismo della macchina da presa combacia, senza giudizio, con lo spirito di chi a quelle cose affida la propria identità in costruzione.
E come per Wes Anderson, anche quello di Sofia Coppola è un cinema di architetture, di case di bambola e di hotel labirinto, e dei paesaggi urbani (o della loro assenza) in cui sono situati. Si svolge in un albergo, e con una protagonista ragazzina, il cortometraggio Life Without Zoë, parte di New York Stories, diretto dal padre Francis Ford, e primo credito da sceneggiatrice di Sofia (al centro del racconto, guarda caso, un gioiello di cruciale importanza); e in hotel di lusso vivono i personaggi di Lost in Translation e Somewhere, film gemelli anche nel porre al centro del racconto la relazione tra una ragazza e un uomo maturo – ma opposti nello sguardo che posano sui propri luoghi: la Tokyo di Lost in Translation è aliena ma sottilmente affascinante, seducente; la Los Angeles di Somewhere, così come il leggendario hotel dei divi Chateau Marmont e l’esistenza quotidiana della star, sono scialbi e sciatti, polverosi, vuoti, spogliati di ogni glamour. In un hotel, naturalmente, resta imprigionato suo malgrado il malincomico Bill Murray nello special A Very Murray Christmas; nel penultimo On the Rocks sempre Murray ne attraverserà diversi, da Manhattan al Messico, con la “figlia” Rashida Jones.
I sobborghi di Il giardino delle vergini suicide sono per Coppola – l’ha dichiarato lei stessa – scenari esotici: cresciuta tra Hollywood e la fattoria di famiglia, la normalità borghese della Detroit degli anni 70 ha su di lei paradossalmente un effetto simile a quello che farebbero a noi le lussuose ville di Beverly Hills. O di quello che le ville di Beverly Hills fanno alle protagoniste di Bling Ring, che abitano a un passo dalla dorata fabbrica dei sogni, ad Agoura Hills, sulle colline attorno a Santa Monica. Il loro è un altro tipo di sobborgo rispetto alla Detroit middle class delle vergini suicide, e la permissività della cool mom Leslie Mann è l’opposto speculare della rigida ottusità di Kathleen Turner, eppure il tedio inaffrontabile di un’adolescenza di provincia sembra spingere in entrambi i casi le protagoniste verso scelte estreme. E poi ci sono i “castelli”: l’immensa reggia di Versailles di Marie Antoinette e la decadente magione di L’inganno (altri due film “gemelli”, non solo perché in costume) racchiudono strutture sociali codificate, gerarchie di potere opprimenti, macro e microcosmi violenti sotto la facciata della “buona educazione”, serrando le proprie protagoniste in una lotta per la sopravvivenza, metaforica e non, cui generalmente soccombono.
Non sono solo queste case acquario a rinchiudere le protagoniste coppoliane, ma anche, spesso, un senso di costante sorveglianza, la percezione di uno sguardo che dall’esterno le segue, vigilando su di loro, o tentando di scioglierne l’inconoscibile mistero. In Il giardino delle vergini suicide, il suo esordio nel lungometraggio, Coppola trova una perfetta corrispondenza con la voce narrante – una rara ma efficacissima prima persona plurale – del romanzo di Jeffrey Eugenides: le sorelle Lisbon sono le protagoniste della vicenda, ma non il punto di vista da cui viene raccontata; parlano pochissimo (come, in genere, tutti i personaggi coppoliani), mentre è la voce fuori campo dei giovani vicini, adoranti e affascinati, a descriverle, a provare (fallendo) a “spiegarle”. In Marie Antoinette i mille occhi della corte assediano la giovane delfina, nelle occasioni pubbliche così come nei momenti teoricamente di intimità, un panopticon che rinforza inappellabili le stringenti regole dell’etichetta (e che si riproduce, diminuendo di scala ma non in oppressione, in L’inganno, ed era già presente nella spietata gerarchia da high school del corto d’esordio Lick the Star). In Somewhere – che, come già Lost in Translation, sa annegare nel “lato noioso” di Hollywood, tra i momenti morti, i take infiniti, i junket vacui: curioso che una regista percepita e definita come “glamour” sia tanto interessata alla demitizzazione dello stardom, al centro anche dell’ultimo Priscilla – il divo Johnny Marco è “imprigionato” nella riconoscibilità ineludibile della propria celebrità.
In Bling Ring compaiono direttamente filmati di telecamere di sicurezza, ma è una delle sequenze più note del film a distillare, nella propria immobilità, la sottile angoscia della sorveglianza: quella in cui l’incursione del gruppo di giovani ladri è mostrata da lontano, in un’inquadratura fissa dalle colline hollywoodiane, dentro una villa dalle pareti di vetro trasparente. E in On the Rocks, che per diversi aspetti è un vero “film della maturità”, apparentemente, finalmente, la dinamica si ribalta: è la protagonista Laura, accompagnata dal padre Felix, a intraprendere un pedinamento, una sorveglianza del marito Dean, che sospetta d’infedeltà, in un nuovo “coming of age” che si esplicita nel paradosso di una scelta “immatura”.
L’inquadratura che Sofia Coppola non si fa mancare quasi mai, la sua (copiatissima) firma, è in fondo la sintesi di tutto questo: i suoi protagonisti osservano in silenzio l’esterno srotolarsi fuori dal finestrino di un auto (o di una carrozza, nel caso di Marie Antoinette). Sono riprese dalla qualità romantica, sospesa e sognante, come tutte le più celebri marche della regia e dell’estetica di Sofia Coppola – le sovraimpressioni, l’uso della luce naturale, le efficacissime colonne sonore tra elettronica, pop e rock’n’roll –, ma ancora una volta chiudono i personaggi dentro una prigione-acquario, separandoli dal resto del mondo attraverso una membrana di vetro. Eppure, contengono anche, sepolta nella propria suprema malinconia, un’insopprimibile scintilla di speranza: perché sono in movimento, e dunque nascondono implicitamente l’ipotesi, la possibilità di una fuga; e infatti sono spesso gli unici momenti che assomigliano a una quiete, forse perché sono anche quelli in cui sono i protagonisti a guardare, e a non essere guardati.
Quel che Coppola mette in pellicola è quel che la voce narrante di Il giardino delle vergini suicide (le parole sono prelevate esattamente dal libro di Eugenides) chiama «the imprisonment of being a girl», “la prigionia dell’essere ragazza”. Nelle sorelle Lisbon recluse dai genitori, nella neosposa Charlotte “abbandonata” nella stanza d’albergo di Tokyo, in Maria Antonietta alla corte di Versailles e nelle signorine del collegio sudista di L’inganno è messa a tema in modo trasparente e diretto; è più sottile e crudele in Bling Ring (l’unico atto di ribellione che le ragazze riescono a concepire è sterile e insensato come l’irriducibile noia in cui affogano); e – come dimostrano Somewhere, A Very Murray Christmas e On the Rocks – non è nemmeno necessario essere “una ragazza” per esperirla: si può anche essere “una celebrità” (condizione che sottintende una oggettificazione immediata), o semplicemente “una donna”, che in una moltitudine di “ruoli” e “funzioni” e “relazioni” sociali smarrisce se stessa, non sa ritrovarsi.
Perché sotto – anzi, meglio: attraverso – una superficie così “glamour”, così “pop” e riconoscibile, sotto la prettiness, la graziosità, la leggiadria, le suggestioni gotiche e il romanticismo “punk”, la materia che Sofia Coppola osa approcciare è sempre quella, struggente e sfuggente, di una tristezza profonda, di una solitudine esistenziale il cui placarsi può essere solo provvisorio, transitorio (proprio come un viaggio in auto, passato a guardare fuori dal finestrino). La vacuità che spesso le si contesta è il segno di una condizione umanissima, a cui nessuno è immune, ed è qui, anche, che ritrova l’universalità con cui spezzare il contesto di privilegio da cui proviene e che, immancabilmente, mette in scena. Costruisce le sue storie attorno a un vuoto (il cerchio che Johnny percorre ossessivamente con la sua auto di lusso ne è la rappresentazione più diretta), a un mistero che resta, fino alla fine, indecifrabile: come le parole inudibili sul finale di Lost in Translation, come le sorelle Lisbon («we knew that they knew everything about us, though we couldn’t fathom them at all», ma anche questa è una verità a metà: le ragazze non hanno mai saputo nulla). I suoi personaggi girano attorno a una domanda che non sanno formulare, la domanda, forse, sulla vita, l’universo e tutto quanto. Coppola ha l’audacia di indagarla con i mezzi e la prospettiva di una femminilità sfrontata, senza compromessi, con la sincerità disarmante e lo sguardo di una ragazza adolescente. Prima che l’età adulta smetta di pretendere dell’altro, un futuro, una spiegazione. Il senso dell’universo. «Forse ce n’è uno». ALICE CUCCHETTI
L’ultimo film firmato da Sofia Coppola prima di Priscilla è stato distribuito (in Italia; in Usa è passato anche in sala) direttamente su Apple TV+: On the Rocks è il lavoro coppoliano a maggior tasso di commedia (in double bill con A Very Murray Christmas), e noi ve ne riproponiamo la recensione, pubblicata su Film Tv n. 43/2020, invitandovi a recuperarlo, o rivederlo.
On the Rocks
«Credo di stare diventando sordo» dice babbo Felix, ricco gallerista, seduttore impenitente, amante del bel vivere. «Davvero?!» risponde ansiosa la figlia Laura, scrittrice col blocco, mamma di due bimbe, moglie di un uomo che, stando agli indizi raccolti, forse la tradisce. «Sento tutto benissimo, tranne le voci delle donne», chiarisce sornione Felix, ovvero un Bill Murray mai così bravo e canagliescamente affascinante. E in fondo il problema è tutto lì: non solo nel fatto che Felix non riesca a sentire le donne (né gli sia mai stato necessario per sedurle), ma soprattutto nel fatto che anche Laura è ormai incapace di ascoltare la propria voce di donna. Smarrita nel mezzo di un libro che ha venduto prima di scrivere e in un matrimonio di cui non riconosce più la forma, si lascia trascinare dal padre in un’indagine improvvisata, in cui pedinano il marito presunto fedifrago come maldestri detective, dalle vie di New York alle spiagge del Messico. Una commedia con guizzi screwball che rimbalza da un cocktail all’altro in una Grande mela radiosa anche di notte, fotografata in gustoso 35 mm: il film fa parte dell’accordo tra A24 e Apple, stipulato ben prima dell’emergenza sanitaria, e in Usa è stato distribuito anche in sala; ogni sua inquadratura chiama il grande schermo. Animato dal vulcanico personaggio di Bill Murray (e dalla sua ormai rodata complicità con la regista, che sa indugiare sulla sua impassibile faccia di bronzo per il tempo sufficiente a rivelarne crepe di emotività lancinante): uno che sullo scaffale ha foto di sé con Warhol e Obama, che porta caviale come snack per un appostamento, che non deve preoccuparsi se infrange limiti sfrecciando sulla Giulietta Spider rosso fuoco, perché saprà cucinarsi a puntino, col suo carisma, qualsiasi sbirro. Un padre colto, geniale, ingombrante: ne sa qualcosa Sofia Coppola, che torna a raccontare le sfumature dell’amore filiale dopo Somewhere, e ne sa qualcosa pure la protagonista Rashida Jones, figlia della leggenda della black music Quincy. Per questo il “giallo” sul tradimento rivela la sua natura di MacGuffin: in uno dei suoi film più “semplici” e sinceri, Coppola mette in scena il dilemma di una donna talentuosa e pragmatica, che si trova tuttavia ad ammettere di essere sempre, in qualche modo, appartenuta a un uomo, di aver sempre messo al primo posto il bisogno dell’altro di essere amato, compreso, desiderato. «I braccialetti sono un promemoria dei tempi in cui le donne erano proprietà degli uomini» sentenzia Felix guardando il polso di Laura, su cui prima il padre e poi il marito fanno scivolare simbolici orologi, in un movimento circolare che ricorda i tanti “giri a vuoto” del cinema di Sofia Coppola (dal turismo coatto di Lost in Translation ai cerchi nel deserto della Ferrari di Somewhere). On the Rocks mette in scena una possibile contrattazione, un compromesso tra possesso e solitudine, un’ipotesi di ascolto che superi le inconciliabili differenze tra le frequenze della voce femminile e di quella maschile. Un’illusione, certo; un paradosso felice, come quell’opera d’arte fatta di «rocce leggere come piume» di cui parla a Felix un’altra collezionista, le vere rocks del titolo. ILARIA FEOLE
Sono moltissime le interviste rilasciate negli anni da Sofia Coppola; tra le tante, su YouTube c’è una lunga chiacchierata sulla sua carriera in collaborazione con l’American Film Institute [in inglese]. In italiano, invece, è il saggio Just Like Honey – Il cinema di Sofia Coppola, di Cecilia Strazza e Martina Ponziani.
Prima che Priscilla accompagnasse a Venezia il biopic realizzato su di lei da Sofia Coppola, un’altra appartenente al clan Presley arrivava al cinema (purtroppo, per ora, solo in Usa e Gran Bretagna): Riley Keough, figlia di Lisa Marie e nipote di Priscilla ed Elvis Presley, ha esordito alla regia un anno fa, co-dirigendo insieme a Gina Gammell War Pony, premiato anche a Cannes 2022. Quest’estate è stato distribuito negli Stati Uniti e in Regno Unito: su Letterboxd Journal, le autrici svelano i segreti della lavorazione [in inglese].
Una delle più grandi pensatrici femministe italiane, Carla Lonzi, era da tempo introvabile in libreria, ma la casa editrice La Tartaruga ha finalmente deciso di ovviare a questa lacuna, ripubblicando la sua opera con la curatela di Claudia Durastanti. Si comincia con il suo testo più famoso, Sputiamo su Hegel, in libreria da ieri, 5 settembre.