Singolare, femminile ♀ #093: Le “due” inglesi e il continente
Ode a Rachel Weisz, meravigliosa attrice britannica che nel remake seriale, realizzato da Alice Birch, del cult cronenberghiano Inseparabili illumina lo schermo, nel doppio ruolo di Elliot e Beverly Mantle, con la performance dell’anno. Ritratto di un’interprete incomparabile, firmato per Singolare, femminile dalla guest star Marzia Gandolfi.
Il debutto di Inseparabili di Alice Birch è uno shock. Un colpo ben piazzato, e la sceneggiatrice di Lady Macbeth e Normal People polverizza il male gaze. È sufficiente il dialogo introduttivo tra le protagoniste e un cliente occasionale di un diner dove stanno consumando il loro pasto nudo. Mordendo due hamburger al sangue, le sorelle Mantle inghiottono in un sol boccone il cliché di un fantasma maschile e incestuoso. Beverly ride alle repliche di Elliot che schernisce l’uomo, caricatura di un porco che fantastica ad alta voce sulle gemelle e il sesso a tre. Lo sbeffeggia fino a terrorizzarlo, fino a piegarlo sotto le note degli Eurythmics (Sweet Dreams). «Some of them want to abuse you, some of them want to be abused…», il tono è dato, l’inversione di genere pure, non si torna indietro.
Elliot e Beverly Mantle, interpretati 35 anni prima da Jeremy Irons – il suo sdoppiamento fu una vera sfida tecnica per Cronenberg –, sono diventate, nella serie Prime Video, due gemelle altrettanto inseparabili e incarnate da Rachel Weisz. Questo gender flip incide profondamente sul racconto, invertendone la prospettiva. Non si tratta più di guardare gli uomini “sperimentare” sul corpo femminile ma di osservare donne prendersi cura di altre donne, ascoltarle, curarle, vivere sulla propria carne gli stessi sconvolgimenti fisici singolari. Perché nella serie è questione di inseminazione, di perdite, di menopausa, di aborti e di tutto quello che scuote inesorabilmente il corpo femminile e lo altera.
Diversamente dai titoli di testa del film omonimo, quelli della serie sono aggiornati ai tempi, tre decenni di evoluzione dei costumi hanno sortito il loro effetto. Agli oggetti ginecologici cronenberghiani, strumenti classici reinventati da un torturatore raffinato, belli come opere d’arte, fuori norma e pronti a frugare nella carne e a riflettere un’immagine spaventosa di una specialità medica dominata a lungo dagli uomini, succede la miniatura di un centro di nascita ultramoderno dove le donne assistono altre donne sulla voce di Annie Lennox. Il successo della serie è anzitutto formale: le immagini cancellano la vergogna associata per secoli al sesso femminile, senza edulcorare quel campo di battaglia culturale, emozionale e psicologico che costituisce la maternità.
Inseparabili restituisce l’esperienza della gestazione con le sue asprezze: smagliature, sangue mestruale, grumi cellulari, parto vaginale, taglio cesareo, dolore fisico del parto e depressione post partum. La serie non dimentica di integrare soggetti di attualità, con le mamme surrogate, il business dell’infertilità, le fecondazioni in vitro che trasgrediscono le regole del processo, puntando senza sconti le derive del progresso medico e della mercificazione della salute. Fatti i conti con le preoccupazioni attuali e fatta la reverenza al monumento body horror di Cronenberg, Alice Birch si lascia il film alle spalle senza cercare di imitarlo, ed è l’opzione migliore. La miniserie mantiene solo l’essenziale della storia: la discesa all’inferno di una gemellarità mostruosa, fusionale e tossica, in cui identità e alterità si confondono e annullano.
Ma, come nell’originale, adattamento del romanzo di Bari Wood e Jack Geasland (Twins), la grande attrazione è la performance dell’interprete principale, che riesce mirabilmente a distinguere due personaggi per rimescolarli meglio alla prima occasione. Rachel Weisz, attrice e produttrice della serie, decide di immaginare daccapo i Mantle, inseparabili gemelli ginecologi, ma soprattutto di ritagliare per sé la prodigiosa prestazione di Jeremy Irons, la costruzione di due caratteri a partire da un solo essere.
L’interpretazione dell’attrice britannica è concava. Lontana dalla spettacolare trasformazione alla dottor Jekyll e mister Hyde, Rachel Weisz rimanda direttamente allo spettatore che avanza in un territorio sconosciuto di minuscoli segnali morfo-psicologici per identificare le sorelle. La postura dritta di Elliot, l’estroversa, conferisce ai lineamenti dell’attrice l’arroganza di un rapace; le spalle leggermente a volta di Beverly, la più sensibile, la protezione di un guscio.
Le gemelle di Rachel Weisz avanzano nella ricerca clinica e in una ricerca di indifferenziazione esistenziale, fondata sul principio dell’escamotage e del rimpiazzamento. La completezza della coppia Mantle non può che palpitare nella messa in scena (e messa in opera) di una sostituzione, nel farsi passare l’una per l’altra. Processo patologico, perverso, truffaldino, peggio, illusorio, fatale, fallibile. Più che una variazione sul tema, la sua prestazione è una reinvenzione, declinata in sei episodi e in un ecosistema più propizio ad accogliere il dissidio e la bizzarria. L’estensione del dominio dei dottori Mantle comincia evidentemente col cambiamento di genere dei protagonisti.
Alle due forme opposte di sguardo maschile, la crudeltà scientifica di Elliot e la compassione terapeutica di Beverly, Rachel Weisz e Alice Birch aggiungono le possibilità che offre il doppio statuto delle sorelle, medico e paziente insieme. Perché l’edonista e ribelle Elliot si consacra essenzialmente “a dare” un figlio a Beverly, integerrima e irrequieta, che colleziona aborti come segreti. Rachel Weisz abita l’una e l’altra con un semplice lampo in fondo agli occhi e un gesto altrettanto elementare, sciogliere e legare i capelli. Perfettamente indistinguibili, le ostetriche Mantle vivono, lavorano e sognano insieme di fondare una clinica all’altezza del loro genio. Beverly attacca la chioma bruna e si attacca ai pazienti, ha il pieno controllo di sé ed è votata agli altri, Elliot la scioglie e si sbriglia come un puledro, divorando la vita e bruciando da entrambi i lati. Una differenza che l’attrice governa facendo miracoli in entrambi i ruoli, perché la sua maniera di passare da un’emozione all’altra, da uno stato all’altro, relativamente ai personaggi e alla scala di una sola scena, ha davvero del prodigioso.
Vero effetto speciale del film, l’essenziale è tutto nel suo “gioco”, sottile, distanziato, al debutto appena distinto. Poi negli occhi da gatta, sostenuti dalle sopracciglia di un nero intenso, si impongono progressivamente sfumature che ci permettono di identificare l’una o l’altra come faremmo nella vita con una coppia di gemelli familiari. Vertigine di sobrio virtuosismo, è l’organo erettile e il punto G della serie. L’introversione naturale dell’attrice rende la sua bellezza ancora più enigmatica mentre l’umorismo irritante di Elliot si stempera nella moderazione di Beverly, incapace di brillare in società. Elliot al contrario l’attraversa come un uragano, la perturba nella carne, trasgredendo le regole dell’etica per abolire i limiti imposti dal corpo alla riproduzione della specie. Rachel Weisz porta le due inglesi sul continente come una complementarietà, la flemma del suo paese natale come una seconda pelle, uno schermo perfetto per proteggersi nella vita.
Ma sullo schermo si prende tutti i rischi sfidando Emma Stone (La favorita) e soddisfacendo Olivia Colman, amando senza speranza l’altra Rachel, McAdams, (Disobedience) e incarnando quella “colpevole” di Daphne Du Maurier (Rachel), dove conferma ancora una volta la capacità di modulare a meraviglia le articolazioni complesse di un personaggio ambiguo. Del resto Rachel Weisz è l’incarnazione perfetta di quell’archetipo della fiction britannica: la sensuale seduttrice bruna che arriva nella campagna inglese per svelarne l’ottusa bellezza. È tutta una questione di potenza drammatica. E la forza drammatica non difetta a Rachel Weisz, che aderisce come un guanto al cinema reazionario (in senso estetico) di Terence Davies (Il profondo mare azzurro).
Elliot e Beverly, erotico e clinico, diavolo e mare blu profondo («between the devil and the deep blue sea»), Narciso e Orfeo, fusi in Cerbero nelle correnti di uno Stige metafisico, l’attrice ha lasciato depositare il tumulto emotivo di Vivien Leigh, che controlla con la distinzione naturale di Olivia de Havilland, ha camminato sul confine tra ragione e follia ma ne ha proposto una versione consapevole, quasi si fosse arresa all’evidenza del suo desiderio, dei suoi desideri, quasi potesse prevedere il declino sociale dei suoi personaggi (Hester, Beverly/Elliot, Sarah, Ipazia…), intuire i limiti dei suoi amanti e scommettere sui primi segni di un ritorno alla vita.
Attrice segreta che ha sposato James Bond (cioè Daniel Craig) senza complessi, disattende la carriera che Hollywood voleva apparecchiarle, intraprendendo progetti ispirati (Youth, The Lobster…) e incarnando eroine differenti (Agora, The Constant Gardener, che le vale l’Oscar, La favorita), lontane anni luce dagli archetipi polverosi. Negli ultimi dieci anni è sbocciata dentro ruoli che detonano la carica sovversiva del suo gioco, sparando alle anatre o alle industrie farmaceutiche, leccando le sue amanti reali o rientrando graffiata da una brutta cavalcata, cedendo ai suoi istinti primordiali o gattonando su un tavolo di resti commestibili, riunendo con una tecnica meticolosa due gemelle in un unico corpo o rivelando con parsimonia la deflagrazione della loro alleanza. Ma non c’è scheggia, graffio, taglio o cicatrice che possa scalfire la bellezza singolare del suo volto, plastico e illuminato dal di dentro. Capace di tenere perennemente in bilico lo spettatore, è lei il fantastico di Inseparabili, la malattia d’amore incurabile e mortale delle dottoresse in rosso di Alice Birch. È lei la sorellanza rosso sangue e bianco clinico che trasforma la clinica in uno spazio amniotico e aspira alla perfetta indistinzione. MARZIA GANDOLFI
Un altro incipit fulminante, un altro film con una doppia protagonista e una Rachel Weisz meravigliosa: vi riproponiamo la recensione di Disobedience, diretto dal regista cileno Sebastián Lelio e tratto dal romanzo Disobbedienza di Naomi Alderman (l’autrice di Ragazze elettriche). L’avevamo pubblicata sul n. 43/2018 di Film Tv (e, se volete recuperare il film, al momento lo trovate su Prime Video).
Disobedience
Come capita talvolta col buon cinema, l’incipit è fulminante ed è pure la chiave di lettura dell’intero film: un rabbino declama la natura imperfetta dell’uomo, ovvero l’unica creatura di dio - a differenza di angeli e bestie - dotata di libero arbitrio. Poi cade morto. Dall’altra parte dell’Atlantico squilla il telefono di Ronnie Curtis, nata però Ronit Krushka nella rigida comunità ebrea ortodossa di Londra: la figlia del rabbino. Rinnegata e rinata altrove, la sua estraneità è palpabile sin dal momento in cui varca la porta per le esequie. Tratto da Disobbedienza di Naomi Alderman, che in quella comunità è cresciuta, il film di Lelio è la storia di un amore proibito, quello tra la reietta Ronit e una donna che, invece, ha scelto di restare devota e di sposare il loro comune amico d’infanzia. Una passione in cui il regista cileno dispiega ancora una volta, dopo Gloria e Una donna fantastica, la sua sensibilità non comune nel raccontare il femminile: cattura epidermicamente l’irrequietezza delle protagoniste, in modi diversi costrette a reprimere parti di sé (che si tratti del “nome d’arte” o della parrucca che l’ortodossa Esti indossa per dogma), e in complicità con le due Rachel (Weisz e McAdams) ne mette in scena il piacere con autenticità mai pruriginosa. Ma Disobedience è anche e soprattutto una storia di fede, di doloroso posizionamento nei confronti del proprio credo, e in questo senso è cruciale il terzo vertice del triangolo, Dovid (Alessandro Nivola, che vorremmo vedere in più film). Nel finale quietamente rivoluzionario, si torna all’inizio e al libero arbitrio: per dire che l’unica vera forma d’amore è dare la possibilità di scegliere.
ILARIA FEOLE
Se del remake seriale Inseparabili avete apprezzato la scrittura della drammaturga Alice Birch, oltre a recuperare gli altri suoi adattamenti televisivi (Normal People, Conversations with Friends) e letterari (Lady Macbeth, Il prodigio), potete leggere Anatomia di un suicidio, sua pièce pubblicata da Il Saggiatore (e recentemente portata in scena al Piccolo Teatro: potete leggerne, per esempio, su Minima & Moralia). Nel 2016, il “New York Times” le dedicò questo lungo profilo [in inglese].
Dal 10 al 14 maggio, a Bellaria Igea Marina (Rimini), si svolge il 41° Bellaria Film Festival, diretto da Daniela Persico, dedicato al cinema indipendente italiano. Tra i film presentati, Marcel! di Jasmine Trinca, Il cerchio di Sophie Chiarello, La timidezza delle chiome di Valentina Bertani; tra gli eventi speciali, Human Flowers of Flesh di Helena Wittmann.
Stasera si assegneranno i David di Donatello 2023, i più prestigiosi premi dedicati al cinema italiano. Per le ambite categorie di miglior film e miglior regia, l’unica regista in gara è Charlotte Vandermeersch, in coppia con Felix Van Groeningen per Le otto montagne. Nella categoria “miglior regista emergente”, invece, la cinquina vede in competizione tre autrici: Carolina Cavalli con Amanda, Jasmine Trinca con Marcel! e Giulia Steigerwalt con Settembre. La cerimonia sarà in diretta su Rai 1 e RaiPlay, in prima serata.