Che cos'è il male gaze? Come ha modellato la nostra esperienza di spettatori? E in che modo la rappresentazione del femminile sullo schermo è legata a pattern ripetitivi di svalutazione e abuso di potere nell'industria cinematografica? Sono alcune delle domande a cui risponde Sesso, cinema e potere - Brainwashed, su IWONDERFULL dal 9 maggio: un doc potente e provocatorio, in cui ci facciamo guidare dalla cineasta e docente universitaria Nina Menkes.
«Riprendetevi le vocali in fondo alle parole, ma ridateci il 20% di retribuzione. Pagate e mettete le donne in condizione di lavorare». Così Ambra Angiolini dal palco del concertone del Primo maggio, in un monologo che sminuiva e perfino colpevolizzava la battaglia per il riconoscimento dei termini professionali femminili. Perché apriamo questo numero della newsletter con questa dichiarazione, intorno alla quale da qualche giorno si è sviluppata una - non particolarmente fruttuosa - polemica? Perché dal 9 maggio, sulla piattaforma iWONDERFULL, arriva un documentario che a noi di Singolare, femminile sta molto a cuore, Sesso, cinema e potere - Brainwashed, che ha molto a che vedere con la miopia espressa da Angiolini in quella manciata di frasi. Perché quelle "vocali", la lingua, la norma che essa esprime, non sono una cosa diversa dal divario salariale con cui l'attrice chiede di "fare cambio": sono la stessa cosa, sono due emanazioni della società patriarcale e delle dinamiche di potere; sono, di fatto, strettamente legate, perché la resistenza alla declinazione al femminile di mestieri a cui tradizionalmente le donne hanno meno accesso non è una coincidenza, ma il segno di una visione del mondo che, ovviamente, passa anche dalla lingua. Se non possiamo dire i mestieri femminili, come possiamo pensare di occuparli, e di chiedere per essi la giusta retribuzione?
Veniamo allora al potente documentario della regista statunitense Nina Menkes, presentato al Sundance e alla Berlinale 2022 e ora in arrivo in streaming in Italia: la versione cinematografica di una conferenza che Menkes dal 2018 porta in giro per il mondo, tra festival, convention e altri eventi. Cineasta indipendente e docente universitaria, dagli anni 80 è autrice di film, molti dei quali interpretati dalla sorella Tinka Menkes, sperimentali e dichiaratamente femministi, come The Great Sadness of Zohara, Magdalena Viraga e Queen of Diamonds, e il suo interesse per la costruzione di un female gaze, uno sguardo femminile alternativo al dominante male gaze hollywoodiano (ovvero la rappresentazione di un femminile conforme e assoggettato allo sguardo desiderante maschile, così come lo ha teorizzato Laura Mulvey, che è tra le voci intervistate nel documentario), è all'origine anche di Brainwashed. Un film a tesi, in cui Menkes ci guida attraverso una serie di sequenze di cinema mainstream, che spaziano da classici di Orson Welles e Brian De Palma a prodotti contemporanei come Atomica bionda o Un weekend da bamboccioni (vedi foto sotto), per verificare la ricorrenza e la costanza di una serie di frequenti e ripetitivi elementi linguistici con cui le donne e le scene di sesso che le coinvolgono vengono messe in scena (vale la pena chiarire, ma è il film stesso a farlo, che è il linguaggio a essere al centro del documentario: non il valore artistico o culturale dei titoli, bensì l'apparato di inquadrature, musiche, luci e montaggio che li costituisce).
La regista li sintetizza in una lista:
il posizionamento della donna rispetto allo sguardo: il personaggio femminile è frequentemente in posizione di oggetto passivo osservato da un punto di vista maschile attivo
la frammentazione del corpo femminile: le inquadrature sezionano e offrono allo sguardo pezzi e segmenti del corpo di donna, sessualizzandone le singole componenti e negando la figura intera
i movimenti di macchina: panoramiche che accarezzano il corpo femminile, uso della slow motion per enfatizzare l'eros (in contrasto con l'uso che della medesima tecnica viene fatto per i corpi maschili: la slow motion è applicata spesso agli uomini quando entrano in azione, o compiono gesta epiche)
la direzione della fotografia: il volto femminile è illuminato in modo bidimensionale, fuori dal tempo e dallo spazio, in quello che Menkes definisce "spazio della fantasia maschile"
il punto di vista narrativo: anche quando la donna è la protagonista del film, i movimenti di macchina e la scelta delle inquadrature tendono a relegarla in posizione subalterna
Gli esempi portati sono innumerevoli, e rivelatori di una prassi consolidata, una vera e propria codificazione della rappresentazione del femminile che informa il linguaggio cinematografico; che si tratti di scelte consapevoli o inconsapevoli, di automatismi o perfino di implicite ed esplicite critiche al medesimo linguaggio, non ha importanza in questo campo di analisi, dove appunto Menkes prende in considerazione la grammatica del cinema e il suo effetto sul pubblico: la ripetitività e la costanza di queste scelte linguistiche ne hanno fatto una norma, modellando l'immaginario e la coscienza collettiva. Tutto questo apparato di inquadrature, montaggio e movimenti di macchina risponde alla logica patriarcale di disempowerment, di depotenziamento del soggetto femminile, cui viene sottratto il controllo della narrazione; la tesi di Menkes, argomentata nel documentario, è che questo linguaggio, e l'atto di fruirlo, non siano "innocenti", ma siano invece strettamente legati al divario professionale di genere nell'industria cinematografica (molte meno chance di assunzione per registe e professioniste, oltre che salari inferiori rispetto ai colleghi maschi) e al sistemico abuso di potere che si traduce frequentemente in molestie o violenze sessuali.
Lungo il percorso tra le immagini di 130 anni di cinema, guidate da Menkes (e dagli interventi, oltre che di Mulvey, di attrici come Rosanna Arquette e registe come Joey Soloway, Eliza Hittman, Catherine Hardwicke), ci sentiremo a volte contrariate: viene da dirsi che quel film non è "colpevole", quell'autore (o autrice: il male gaze non è prerogativa legata al genere biologico del regista) non è sessista, io non sono così ingenua da farmi mettere in posizione subalterna nella vita reale solo perché lo stesso accade a così tanti personaggi femminili. Tutte cose certamente vere, che non sono messe in discussione dal film: il "lavaggio del cervello" che provocatoriamente espone il titolo Brainwashed non è una sorta di condizionamento di massa, ma piuttosto il frutto di decenni di pervasività e normalizzazione della logica patriarcale nel linguaggio delle immagini. Un linguaggio che rispecchia - e al contempo conferma, e rende rassicurante per lo spettatore - l’asimmetria di potere alla base della società patriarcale, asimmetria che si riverbera in ogni squilibrio di potere, sia esso professionale, salariale, sessuale.
Il discorso che la regista imbastisce è dunque più ampio e complesso, totalmente slegato dal valore e dal contesto dei singoli titoli, e relativo, piuttosto, a un intero apparato di percezione e scrittura del femminile, e alla necessità di una lotta per occupare lo schermo con un female gaze, con un altro linguaggio, con un'altra dinamica. Abbiamo intervistato Nina Menkes per approfondire con lei alcuni di questi temi.
Prima di diventare un film, che ora sta a sua volta andando in tour con varie proiezioni da te presentate, questa era una conferenza, in cui ti metti in gioco in prima persona come donna, spettatrice, regista. Con che obiettivo hai dato vita a questo percorso?
Il mio obiettivo era mettere in luce una serie di problemi, perché credo davvero che la consapevolezza sia alla base della trasformazione. Una volta che si diventa consapevoli, si guarda in modo differente: a oggi, avendo portato il film in giro per il mondo, ho sentito davvero tante persone, di diverse nazionalità, di diverse età, raccontarmi di aver sentito modificata la propria percezione dei film dopo aver visto il documentario. La questione è rendersi conto di quali immagini e di quali narrative si consumano. Cosa succede dopo questa consapevolezza? Non sta a me dirlo! Io non ho alcuna intenzione di essere normativa o stabilire delle regole, di dire cose come “da ora in poi non filmerete mai più una donna in inquadrature che ne frammentano il corpo", né niente di simile. Io credo che più gli spettatori diventano consapevoli, più possono rendersi conto di quel che vedono e magari dirsi "ehi aspetta un attimo, sto vedendo di nuovo queste cazzate: no grazie, cerco qualcosa di diverso". Mi interessa però stare a vedere cosa succede se la coscienza collettiva di questi meccanismi aumenta. E credo davvero che ci sarà un cambiamento. Lentamente, sta già succedendo.
A proposito di questo, che ricezione ha avuto il film? Immagino ci siano state anche delle critiche negative, sono temi che sollecitano sempre polemiche, a volte non così centrate.
La risposta è stata in gran parte positiva, ricevo lettere tutti i giorni da persone che hanno visto il film e mi ringraziano; ogni volta che facciamo una proiezione pubblica c'è sempre qualcuno alla fine che sta piangendo, per quanto ne è stato toccato. Ma chiaramente il film è stato anche molto attaccato. Anche se è bizzarro, perché chi lo attacca usa spesso argomenti falsi o discutibili, come se non riuscissero veramente ad attaccarlo su altri piani: d'altronde quello che faccio in Brainwashed è semplicemente mostrare quello che è già presente nei film, quindi come potrebbero negarlo? Spesso mi sento dire "non considera il contesto!", ma questo è esattamente il punto del film, non considerare il contesto dei singoli titoli. Quello che facciamo nel film è analizzare la dinamica delle inquadrature attraverso i decenni, e quella dinamica si trova in film drammatici, western, horror; si ritrova in anni e generi e autori e contesti commerciali tra i più disparati. Brainwashed non ha niente a che vedere con una critica dei film che mostro. Un'altra questione che spesso viene sollevata è che io utilizzo i miei film come "buon esempio", che sfrutto il documentario come autopromozione, ma anche questo non è affatto vero, perché cito almeno una trentina di titoli che considero ottimi esempi di come fare le cose in modo diverso. Certo, ho inserito clip anche dei miei film, perché questa è una storia personale: sto parlando anche della mia vita, del mio percorso, ho voluto consapevolmente che fosse personale. Mi viene inevitabile pensare che se a fare il documentario fosse un regista maschio; poniamo, David Lynch che fa un doc sul surrealismo, e include clip dai suoi film, nessuno l'avrebbe accusato di autopromozione. Brainwashed è scaturito dalla mia esperienza personale di donna e dalla mia carriera di filmmaker, sarebbe assurdo che il mio cinema non fosse incluso in esso. È quasi come se alcune persone non avessero nemmeno visto il documentario, o come se, avendolo visto, si sentissero arrabbiati. Come se non riuscissero a fronteggiare il dolore che è presente nel mio film, e non sapendo come gestirlo passano all'attacco. E non si tratta affatto esclusivamente di voci maschili; su rogerebert.com l'ha recensito una critica che l'ha detestato, mi ha dato 1 stella su 4, accusandomi di essere egomaniaca. A volte emerge dell'odio da queste recensioni.
Ecco, questa della rabbia è una reazione che vedo e sento spesso quando si parla di femminismo e rappresentazione del femminile. Un esempio recente, che fra l’altro riguarda uno dei film che tu usi come “polo opposto”, ovvero come esempio di sguardo femminile non oggettificante, all’interno di Brainwashed, è Jeanne Dielman, 23, quai du Commerce, 1080 Bruxelles di Chantal Akerman, che lo scorso anno è stato eletto “miglior film nella storia del cinema” nel sondaggio della prestigiosa rivista “Sight and Sound”. Ho visto e sentito colleghi semplicemente indignati, a volte furiosi, per questa scelta, e pronti a giurare che si trattasse di una sorta di “broglio”. Perché si arrabbiano tanto, secondo te?
Questa è una bella domanda, davvero, perché sono così arrabbiati? Ovviamente non posso rispondere io, credo che il meccanismo sia simile, in effetti, a quello che Brainwashed ha innescato, ossia: come osi includere nel tuo discorso sull'oggettificazione della donna registi sacri come Hitchcock e Welles? Anche nel caso di Jeanne Dielman sembra una questione di lesa maestà: sappiamo che i grandi registi sono maschi, bianchi, eterosessuali, quindi se metti un film come Jeanne Dielman al numero 1, costringi a mettere in discussione un sacco di certezze. A mettere in discussione quella che per molto tempo è stata considerata l'essenza narrativa del cinema, ovvero la donna in una posizione di oggetto sessualizzato + l'uomo in quella di eroe. Jeanne Dielman ribalta completamente questa prospettiva, è tutt'ora rivoluzionario e non invecchia mai, è un classico. E non è meno "classico" di La donna che visse due volte; solo che questo è un classico che parla di un femminile arrabbiato e alienato, e la donna arrabbiata e alienata, storicamente, non ha mai avuto una posizione di rilievo sul pianeta Terra.
Mi ha colpito molto, nel film, la citazione di Audre Lorde fatta da una delle studiose intervistate: «Non si può abbattere la casa del padrone con gli strumenti del padrone». Bisogna, quindi, ripensare il linguaggio, ripensare lo sguardo: fai un esempio molto potente con Ritratto della giovane in fiamme di Céline Sciamma, che è quasi un teorema sull’argomento. Quali altri cineaste citeresti in questo senso?
Uno dei miei preferiti, che non è incluso in Brainwashed, è Senza tetto né legge di Agnès Varda. Un grande film femminista. Poi certamente le registe che ho incluso nel film: Eliza Hittman, che è anche tra gli intervistati, Céline Sciamma, appunto, Chantal Akerman, Helena Wittmann.
A proposito di interviste: compare anche Ita O’Brien, di professione intimacy coordinator, che ha curato le scene di sesso di serie tv bellissime come Normal People e I May Destroy You. Pensi che questo tipo di figura possa far evolvere in senso positivo la rappresentazione del corpo e del desiderio femminile sullo schermo?
Sicuramente sì. E mi pare interessante che tra chi, invece, è negativo al riguardo non ci siano solo registi maschi eterosessuali, ma per esempio un'autrice come Mia Hansen-Løve, che ha dichiarato di non voler mai utilizzare un intimacy coach. Il fatto è che, per come era abituale prima, le scene di sesso - ovviamente con molte eccezioni - erano al limite dell'aggressione sessuale: non diciamo niente agli attori, non coreografiamo niente, diciamo solo "ok ora vai dall'attrice e cerchi di stuprarla, strappale le mutandine", o "sorprendila, prendila alla sprovvista"; l'idea era che così fosse più autentico. È chiaro che portando all'estremo questa scelta se ne vedono i limiti; allora per rendere più autentica una scena di sparatoria, dovremmo sparare veramente a un attore? Quella sì che è autenticità! Tutto questo è assurdo. La violenza sullo schermo, violenza di ogni genere, non solo sessuale, non dovrebbe avere a che fare con l'autenticità sul set. Abbiamo avuto un esempio tragico di recente, l'incidente sul set di Alec Baldwin. Aveva una vera pistola e ha sparato alla direttrice della fotografia del film, ed è morta, ed è accaduto perché aveva un'arma autentica. E così è morta una delle poche direttrici della fotografia donne negli Stati Uniti. È semplicemente assurdo pensare di non voler avere almeno un minimo di controllo. Poniamo che si giri una scena di sesso, con un attore e un'attrice, e tu come regista preferisci che improvvisino; ok, magari pensi che coreografare e decidere ogni minimo movimento renda l’eros tropo meccanico; ma l'intimacy coordinator può comunque lavorare con questi attori. Può aiutarli a lavorare sui limiti che preferiscono darsi, o su come superarli insieme; voglio dire, perfino chi pratica bondage o altre pratiche erotiche BDSM ha una safe word per fermarsi quando supera un limite sgradito! Una persona può volere essere picchiata, legata, può volere che le si sputi addosso, ma è lei a decidere i suoi confini e la sua volontà, e a quello serve la safe word. Quindi avere un intimacy coordinator non significa affatto che si debba girare ogni scena di sesso con una sorta di manuale di istruzioni che le rende tutte uguali e normate. Non si tratta di guastare la libertà creativa di nessuno, si tratta solo di evitare che le scene di sesso siano aggressioni sessuali filmate in diretta. Si tratta di persone pagate per fare il proprio lavoro: si può essere estremamente creativi in proposito e senza coreografare niente, si può comunque discutere di cosa mette a disagio e cosa invece è fattibile, in modo molto aperto ed esplicito. Non vedo perché il realismo debba implicare che nessuno sul set sappia cosa sta per succedere.
Il tuo film si limita al linguaggio del cinema, ma credo che ad aver enfatizzato negli ultimi lustri l’oggettificazione del corpo femminile, e una percezione di sé problematica, siano anche i social media, che ci inducono a creare un’immagine di noi su cui proiettare lo sguardo.
Indubbiamente vero, pensa solo ai filtri con cui si modifica l’aspetto nelle foto e nei video: quei filtri sono sostanzialmente il male gaze automatico! Pelle perfetta, occhi enormi, labbra seducenti. È come attivare il male gaze con un click.
In Brainwashed si parla anche di film diretti da donne che incappano nello stesso tipo di linguaggio codificato e depotenziante: secondo te si tratta di aver introiettato quel tipo sguardo? O hanno molto peso anche le pressioni produttive in quel senso, secondo una logica commerciale?
Credo che siano certamente entrambe le cose: patriarcato interiorizzato e spinta esterna da parte dei produttori. Se guardi le opere prime e seconde dirette da donne molto spesso sono incentrate sul sesso, su giovani donne che scoprono il sesso, su spogliarelliste... viene da chiedersi perché: è quasi come se le donne dovessero promettere di fare un film davvero sexy per poter strappare a un produttore la chance di passare dietro la macchina da presa.
Un esempio di quello che hai appena descritto è Le ragazze di Wall Street di Lorene Scafaria, un film sulle spogliarelliste che un po’ mi ha stupito veder citato in Brainwashed, perché l’ho sempre visto come un tentativo intelligente di fare critica all’oggettificazione del corpo femminile.
Questo è un punto davvero importante che cerchiamo di isolare in Brainwashed: cosa arriva alle persone che vedono il film, uomini e donne, del mio discorso sulla oggettificazione, se intanto metto sullo schermo ulteriore oggettificazione? Il problema, per esempio, in un film come Le ragazze di Wall Street è che l'empowerment passa tramite una auto-oggettificazione della donna. Ma io credo, e non è solo una mia opinione, che l'oggettificazione non sia mai impoterante. Un altro esempio da manuale è Donne ai primi passi (il film Netflix di Maïmouna Doucouré su un gruppo di preadolescenti che si esibiscono in danze sensuali, prelevando movenze e pose proprio dall’immaginario di un femminile ipersessualizzato, nda): slow motion, panoramiche sui corpi, punto di vista di nessuno se non del caro vecchio male gaze… perché non metterci invece il punto di vista delle ragazze? Sono loro, le protagoniste, in fondo. Negli Stati Uniti c'è stato di recente questo grande studio sui disturbi degli adolescenti: depressione, tendenze suicide e gesti di autolesionismo, disturbi alimentari, dismorfismo corporeo... La proporzione è che ci sono due femmine che ne soffrono per ogni maschio. Il doppio delle ragazze soffrono di questi problemi, rispetto ai coetanei maschi. Nello studio questo veniva collegato anche, appunto, al forte utilizzo di social media. Ecco, l'auto-oggettificazione fa male alla salute. ILARIA FEOLE
Di Eliza Hittman, regista molto attenta alla costruzione di uno sguardo femminile e alla messa in scena dello squilibrio di potere sessuale, in Italia è stato distribuito in sala soltanto Mai raramente a volte sempre: vi riproponiamo la recensione dal n. 24/2020 di Film Tv.
Mai raramente a volte sempre
«Girl problem», un problema da ragazza. Una ragazza come Autumn, 17 anni, e un problema, come una gravidanza indesiderata, irrisolvibile in uno stato, quello della Pennsylvania, che in assenza del consenso genitoriale non permette l’aborto. Girl problem. Dietro a un modo di dire approssimativo, a velare la misura di quel che cela, a restringerne e ridurne il peso, c’è tutto un non detto che nel terzo magnifico lungo di Eliza Hittman, Orso d’argento alla 70ª Berlinale, trova una validazione esplicita, una visualizzazione compartecipe. Dietro alle quattro parole del titolo, Never Rarely Sometimes Always, una litania di risposte a un test tra le quali selezionare in automatico quella che più si confà alla propria esperienza, che ne schematizza e irrigidisce la complessità, c’è la trappola generalizzante di una prassi che il modus narrandi della regista americana, implicando e propagando quella complessità, dissolve. Nel suo calvario privato da una clinica all’altra, fra i cieli nebbiosi e le strade affollate di cartelli pubblicitari, indifferenza e smog, tra sotterranei, metropolitane, sale d’attesa tutte uguali e sale giochi rimbambenti, in una New York privata del patinato lucore da spot, Autumn non è sola: a tenerle una mano complice e solidale è una coetanea, sua cugina Skylar. E se la loro odissea può ricordare quella di due donne più grandi in una realtà - fino a un certo punto - agli antipodi in 4 mesi 3 settimane 2 giorni, c’è una significativa risonanza, una vicinanza in più tra Autumn, Skylar e Eliza, che sta accanto alle ragazze accarezzandone ogni passo, in una partecipazione silenziosa e affrancata da giudizi, manifesti, lirismi, prediche, manierismi ed etichette. Hittman cala le protagoniste (eccezionali Flanigan e Ryder, entrambe al debutto) nelle vibranti emulsioni in 16 mm di Hélène Louvart (La vita invisibile di Eurídice Gusmão), descrivendone le bracciate indocili per tenersi a galla - prive di bussola, ma con due dita intrecciate - nella marea dei rapaci sguardi maschili: l’uomo in metro, il cliente alla cassa, il datore di lavoro, il patrigno, anche un cortese, inconsapevole ragazzino sul bus. Come in Beach Rats e It Felt Like Love, Hittman scolpisce la lotta per una resistenza, di sé e per sé, lì veicolata per mezzo di corpo e sessualità, qui mediante una sorellanza. E un’alleanza di occhi, inclusi i nostri, chiamati a condividere e rivendicare tutte le incomprese, e perlopiù invisibili, conseguenze di un girl problem.
FIABA DI MARTINO
Iscrizioni aperte fino al 16 giugno per la terza edizione del Master in Series Development - Sviluppo e produzione creativa della serialità della Civica Scuola di Cinema Luchino Visconti con il sostegno di Netflix. Con 500 ore di alta formazione in aula, 25 stage garantiti, 14 borse di studio e 70 docenti tutti professionisti del settore, il Master forma il DEVELOPMENT EXECUTIVE, figura chiave che segue lo sviluppo di una serie, dall’ideazione alla messa in onda. Webinar di presentazione 3 maggio e 7 giugno.
(contenuto realizzato in partnership con Civica Scuola di Cinema Luchino Visconti)
Inseparabili, su Prime Video, è il remake seriale e gender swap del film di Cronenberg, con Rachel Weisz nei panni delle gemelle protagoniste: una serie che parla anche del corpo femminile e del racconto della gravidanza. Qui trovate una bella intervista a Weisz sul «glorious horror of pregnancy» di Alexandra Kleeman, autrice di Il corpo che vuoi e Qualcosa di nuovo sotto il sole [in inglese]
Nella recente classifica di “Hollywood Reporter” sui 50 migliori film dal 2000 a oggi ce ne sono 11 diretti da donne, e si è piazzato al terzo posto La vita è un raccolto di Agnès Varda: potete (ri)vederlo su MUBI nella rassegna Voilà Varda.
Parte il 5 maggio la decima edizione di Mente Locale – Visioni sul territorio, primo festival italiano di cinema documentario dedicato al racconto del territorio, in programma fino al 14 maggio nelle province di Bologna e Modena. Sotto la direzione artistica a Leena Pasanen, 17 film in lizza per il concorso ufficiale, tra cui le anteprime di Call Me Anytime I’m Not Leaving the House di Sanjna Selva, racconto della guerra nei dialoghi via FaceTime tra due sorelle ucraine, una artista a Brooklin, l’altra a Odessa.
Spero di riuscire a vedere il documentario: interessantissimo.
Per una lunga serie di ragioni, mi sono trovata a incuriosirmi rispetto all'offerta di freeporn. Anche lì, nel mondo del porno, con tutta l'attenzione ai gusti del pubblico e la totale libertà di ripresa, e la consapevolezza che sempre più donne si avvicinano a certi contenuti, pare rarissimo, rarissimo, un vero female gaze. Persino nelle categorie female friendly, l'occhio è maschile. Per trovare uno sguardo che si sofferma sugli uomini in un certo modo bisogna cercare nelle categorie omosex e bisex: che poi, oggettivamente, è sempre male gaze, no?
Questo mi ha spinto anche a riflettere sul coinvolgimento dei neuroni specchio delle donne (e degli uomini): nel caso dei film porno se ne può, se sensibili e aperti all'esperienza, provare fisicamente i risvolti e questo aiuta a comprendere la potenza del male gaze. Infatti senz'altro i neuroni specchio funzionano per aiutarci a "metterci nei panni di" ed ecco anche forse perché, come donne, spesso non ci rendiamo conto dell'imperversare del male gaze, confondendolo con un banale "sguardo esterno". Ma non è così. È uno sguardo esterno maschile. E il nostro uso dei neuroni specchio è un ripiego, anche pericoloso per il nostro "allenamento" alla vita e ai rapporti, non solo sessuali.