Singolare, femminile ♀ #087: Donne che parlano
Premiata con l'Oscar per la sceneggiatura di Women Talking - Il diritto di scegliere, la canadese Sarah Polley è all'opera quarta dietro la macchina da presa, ma lavora nello showbusiness da quand'era una bambina: ritratto di un'artista che ha rivendicato se stessa.
Run Towards the Danger, corri verso il pericolo, si intitola il libro autobiografico del 2022 di Sarah Polley. Sottotitolo: Confrontations with a Body of Memory, ovvero, più che semplici "confronti", veri e propri Scontri con un corpo di ricordi; parole che, combinate, dicono di una rielaborazione complessa con il proprio passato. Un passato di enfant prodige, di giovanissima attivista, di attrice scrittrice produttrice, femminista, atea e, da pochi giorni, vincitrice di un premio Oscar, che Polley porta davvero scritto sul suo corpo e che continua a rivoltare, rielaborare, ri-liberare nel suo lavoro nell'audiovisivo.
Ultima di cinque figli, nata e cresciuta a Toronto (dove tutt’ora vive), Polley è attrice fin dall’età prescolare, aveva solo quattro anni la prima volta che è comparsa davanti a un obiettivo, e ne aveva soltanto otto quando si è ritrovata per mesi su uno dei set più complicati e pericolosi nella già tumultuosa carriera di Terry Gilliam, Le avventure del Barone di Munchausen, dove interpretava la piccola Sally Salt, schivando pezzi di scenografia in fiamme ed esplosioni. Un'esperienza traumatica perfino per gli attori maturi, figuriamoci per una bimba, che ci ha infatti messo anni a metabolizzare e che racconta proprio in uno dei saggi contenuti in Run Towards the Danger; Eric Idle, suo compagno di set dell'epoca, è apparso con lei sul palco alla cerimonia di uno dei numerosi premi che Women Talking - Il diritto di scegliere ha raccolto in questa award season, ricordando a distanza di 35 anni la lavorazione lunghissima e rovinosa di quel film.
Minuta, enormi occhi azzurri e viso sormontato da un caschetto paglierino, Sarah Polley tra la fine degli anni 80 e l'inizio dei 90 era già una star nel nativo Canada, protagonista delle serie tv Ramona (dai romanzi per ragazzi di Beverly Cleary) e La strada per Avonlea (dalla Lucy Maud Montgomery di Anna dai capelli rossi), autentico "tesoro" nazionale il cui successo le consente di raggiungere precocemente l'autonomia economica. Orfana di madre, l'attrice Diane MacMillan, dall'età di 11 anni, Polley abbandona gli studi e va a vivere da sola quando ne ha 15, con l’ausilio della Ontario Coalition Against Poverty, e diventa una giovanissima portavoce del Partito democratico; corre verso il pericolo già a 12 anni, quando durante una cerimonia pubblica indossa una spilla col simbolo della pace in segno di protesta contro la Guerra del Golfo, attirandosi le ire della Disney (distributore internazionale di La strada per Avonlea); ne ha 16 quando perde due denti in uno scontro con la polizia antisommossa, mentre prende parte a una protesta contro il governo conservatore di Mike Harris. Mette in gioco il suo corpo (già fisicamente provato da una complessa operazione chirurgica per risolvere la scoliosi, che l’ha costretta a letto per un anno intero) e la sua faccia in nome di una militanza che negli anni muta forma ma resta urgenza prioritaria.
Un capitolo della raccolta Run Towards the Danger si intitola La donna che rimase in silenzio, ed è dedicato al difficile processo psicologico affrontato da Polley per decidere di denunciare pubblicamente il musicista e presentatore Jian Ghomeshi. Polley aveva 16 anni e Ghomeshi 28 quando, durante un appuntamento, lui propose un "gioco" che per anni Sarah ha poi raccontato come una "buffa" storia di incontro disastroso, ma che solo crescendo si è resa conto essere stata una vera e propria aggressione, con le mani di lui strette intorno al suo collo. Nel suo saggio Polley esplicita tutte le complessità e le contraddizioni della vicenda; incapace, per autodifesa o per condizionamento sociale, di riconoscere in quell'avvenimento un abuso, l'artista ha mantenuto per anni un rapporto amichevole con Ghomeshi, comparendo anche come ospite nel suo podcast: come essere creduta, nel denunciarlo, dopo essere rimasta sua amica per così tanto tempo? La paura degli attacchi e delle controversie da cui potrebbe restare travolta la tengono zitta per parecchio tempo, ma nel 2022 decide, infine, di non essere più una donna in silenzio, bensì una donna che parla, come quelle cui ha dedicato il suo ultimo e blasonato film, attualmente in sala, tratto dal romanzo di Miriam Toews.
Un tema, quello delle donne che non vengono credute, che è le è caro sin dall'adolescenza: ha acquisito i diritti di L'altra Grace di Margaret Atwood quando aveva solo 17 anni, attendendo poi un paio di decenni per riuscire a trarne una miniserie (per la regia di Mary Harron, su Netflix), in cui la vicenda di una domestica accusata di omicidio si trasforma (siamo nel 2017 quando la miniserie viene distribuita) in una riflessione sulle parole femminili e il pregiudizio contro di esse che anticipa molti dei dibattiti innescati, pochi mesi dopo, dall'insorgenza del movimento #MeToo. La stessa riflessione che Women Talking, per il quale Polley ha vinto l'Oscar al migliore adattamento, trasforma in un vero e proprio forum, «un atto di democrazia radicale» nelle sue parole, un palcoscenico dove le donne agguerrite o terrorizzate, combattive o rassegnate discutono di se, come, quando reagire di fronte all'agghiacciante violenza di gruppo subita da parte di uomini della loro stessa comunità religiosa. Messe di fronte all'impossibilità di stare ancora zitte, all'urgenza di pretendere rispetto, le donne di Women Talking parlano, parlano, parlano per tutto il film, e sanno che non resta loro che un'opzione: correre verso il pericolo.
Proprio come Polley, il cui corpo ammaccato, aggredito, suturato, esposto alla macchina da presa da molto prima dell'età della ragione è diventato anche un campo di battaglia da lei rivendicato e messo in gioco, inizialmente come attrice dalla carriera eclettica e irrequieta. Per qualche anno assente dal grande schermo dopo il caos del set di Terry Gilliam, torna a recitare al cinema per il connazionale (di origine armena) Atom Egoyan nel 1994 con Exotica e raddoppia nel 1997, appena diciottenne, con Il dolce domani, dove si esibisce anche in numeri musicali nei panni di un'aspirante cantante paraplegica: un'altra, giovanissima, donna che parla, un'altra donna combattuta tra il testimoniare (in un processo sull'incidente che ha causato la morte di 14 suoi coetanei) e il tacere (riguardo le molestie subite dal padre).
Nel segno di uno slancio verso il "pericolo" anche attoriale, Polley recita in prodotti variegati, tra il suo Canada, Hollywood e l'Europa, dal fantamélo Mr Nobody di Jaco van Dormael al remake horror L’alba dei morti viventi di Zack Snyder; da eXistenZ di Cronenberg a Non bussare alla mia porta di Wim Wenders, da Le bianche tracce della vita di Winterbottom alla sci-fi di Splice di Vincenzo Natali, lavorando anche con registe come Kathryn Bigelow (Il mistero dell'acqua) e la catalana Isabel Coixet (La mia vita senza me, La vita segreta delle parole).
Il passaggio dietro la macchina da presa è semplicemente naturale, e dopo aver diretto alcuni corti Polley esordisce nel lungo nel 2006, con Away from Her - Lontano da lei (su Prime Video), un mélo che porta i segni del suo cinema a venire: la storia di una donna affetta da Alzheimer (interpretata da una meravigliosa Julie Christie, già compagna di set di Polley per No Such Thing di Hal Hartley e per La vita segreta delle parole), e del dolore di un marito che vede la loro storia svanire davanti ai suoi occhi, è anche un modo per mettere in scena la complessità e la fragilità delle relazioni, la spigolosità di personaggi femminili che non rispondono alle aspettative sociali, l'amore come ennesimo pericolo verso il quale correre.
Adattando un racconto di Alice Munro, Polley ottiene per il film anche la sua prima nomination all’Oscar, mentre si cimenta con la sua prima sceneggiatura originale col successivo, altrettanto bello, Take This Waltz. Una commedia sentimentale che flirta col dramma, intrisa di sole e colori saturi che nascondono i buchi inesorabili dell'anima, quei buchi in cui s'incaglia la coppia Michelle Williams-Seth Rogen (che proprio l'anno scorso è stata "ricomposta" da Spielberg per The Fabelmans) quando lei si infatua di un altro uomo. Ritratto femminile schietto e travolgente, sulla legittimità del desiderio, sull'incapacità di perseguire una gioia che non sia in coppia, sull'identità sfuggente di una donna capace di vedersi solo nel riflesso dell'altro, è un gioiello di scrittura servito da ottimi attori, che Polley sa dirigere con la complicità dell’(ormai ex) interprete.
Nel frattempo ritiratasi dalle scene come attrice dal 2010, l'artista affronta quello che, fino alla scrittura di Run Towards the Danger, è il capitolo più intimo e coraggioso del suo lavoro di scavo autobiografico: il documentario Stories We Tell (su IWONDERFULL), resoconto personalissimo e a cuore aperto della ricerca di Polley, fin da giovane, della verità sulla sua famiglia. Tormentata dalle voci e dagli scherzi dei suoi quattro fratelli sulla sua scarsa somiglianza col padre, l'ex attore britannico Michael Polley, Sarah inizia a 18 anni l'indagine per scovare il suo eventuale padre biologico, che sospetta possa essere uno degli attori compagni di set della defunta madre. Quando intervista il produttore Harry Gulkin è solo per ottenere da lui informazioni su quegli attori, ma quello che scopre nel dialogo è che proprio Gulkin aveva avuto una liaison segreta con sua madre, e il test del DNA lo confermerà: il suo vero padre è lui.
Presentato a Venezia, alle Giornate degli autori, nel 2012, il doc contiene interviste ai membri della famiglia di Polley e piccoli lacerti di finti home movies, Super 8 che ricreano momenti familiari con l'ausilio di attori, in un gesto creativo taumaturgico e viscerale che tenta di suturare segreti e rivelazioni in una storia di senso compiuto. Sopperendo con le sue indagini e le sue domande al silenzio di quella donna che non ha potuto dirle la verità, morta troppo presto, nel giorno dell'undicesimo compleanno di Sarah.
Sono passati dieci anni esatti tra il terzo e il quarto lungometraggio di Polley, anni in cui è diventata madre di tre figli, e in cui il suo corpo abituato a correre verso il pericolo ha subito un ennesimo colpo, un incidente che sarebbe solo grottesco se non fosse anche drammatico: un estintore staccatosi dal muro le è caduto in testa provocandole una grave commozione cerebrale che l'ha tenuta lontana dalla scrittura per quasi quattro anni, costringendola ad abbandonare il progetto di un Piccole donne che avrebbe anche dovuto dirigere, poi passato nelle mani di Greta Gerwig. Run Towards the Danger è nato da lì, e dal consiglio che un medico le ha dato, sul correre incontro a quegli stimoli audiovisivi che innescavano i suoi sintomi neurologici, invece che evitarli.
Women Talking è stato il suo ritorno alla sceneggiatura e alla regia, con un cast di star tutto al femminile (Rooney Mara, Claire Foy, Jessie Buckley, Frances McDormand, unico uomo presente Ben Whishaw), e alla notte degli Oscar, salita sul palco a ritirare la statuetta, radiosa in completo da sera maschile, Polley ha esordito ringraziando l'Academy «per non essersi mortalmente offesi per aver messo così vicine le parole "donne" e "parlare"». Il suo film si chiude con una promessa, «la tua storia sarà diversa», ed è una promessa che l'autrice si augura di poter estendere a tutte le donne e i bambini nell'industria: da ex enfant prodige - sottoposta a ritmi di lavoro impossibili per una ragazzina; sballottata tra set e tour promozionali a un'età in cui non poteva consapevolmente scegliere una carriera; nella surreale condizione di recitare un monologo sulla morte della madre finzionale poco dopo aver perso la madre nella vita reale - Polley sa che si può fare di meglio, si deve fare di meglio. ILARIA FEOLE
Ancora in sala, vi riproponiamo la recensione del film con cui Sarah Polley ha vinto l’Oscar, Women Talking - Il diritto di scegliere, apparsa su Film Tv n. 10/2023.
Women Talking - Il diritto di scegliere
Da un lato c’è la cronaca: tra il 2005 e il 2009, 150 tra donne e bambine appartenenti a una comunità mennonita in Bolivia sono state drogate (con un sedativo per bestiame) e stuprate mentre erano incoscienti da nove uomini della stessa congregazione. La storia è stata raccontata da Miriam Towes (a sua volta fuoriuscita, adolescente, da una comunità mennonita) nel libro Donne che parlano (Marcos y Marcos), che Sarah Polley adatta per lo schermo di suo pugno. Dall’altro lato c’è «un atto di immaginazione femminile», come recita il cartello che apre il film: la possibilità di creare uno spazio e un tempo (limitato: 36 ore) dove le donne, sole, abbiano facoltà di discutere, di confrontarsi, e infine di decidere come agire, a fronte di tre sole pensabili alternative. Ovvero perdonare; restare ma combattere; oppure andarsene. Ciascuna delle opzioni è, a suo modo, impensabile, ciascuna prevede pro e contro dolorosissimi che le donne, analfabete per dogma religioso, chiedono all’unico uomo in scena (l’insegnante dei ragazzi della comunità, mite e roso dal suo privilegio) di appuntare su grandi fogli. Donne che parlano, appunto, senza freni, senza remore, senza uomini che le mettano a tacere: questo è il nucleo sovversivo che sta già nelle premesse, e da cui si sviluppa un forum di impianto teatrale, ciascuna delle protagoniste principali chiamata a incarnare una precisa posizione davanti alla violenza subita. C’è chi vorrebbe la vendetta, anche cruenta (Claire Foy, la migliore in campo), chi non riesce a scrollarsi di dosso le regole seguite per tutta una vita (Frances McDormand, poco più di un cameo), chi sogna di rifondare una comunità al femminile (Rooney Mara, dolcemente “assente”) e chi ha il terrore di cosa dovrebbe affrontare un gruppo di donne sole (Jessie Buckley, grintosa ma limitata). In quella porzione di tempo rubato le donne sviscerano ogni tema, dalla dolorosa consapevolezza di una complicità attuata tramite troppi perdoni alla possibilità di educare al rispetto i maschi adolescenti - o è forse troppo tardi? Il fienile è un palcoscenico, stretto come l’orizzonte schiacciato delle protagoniste; la fotografia è desaturata sino alla bicromia, priva di colori come l’esistenza di queste donne mutilate di ogni scelta; ogni scelta stilistica di Polley sembra dettata da un’urgenza autentica di invito alla riflessione (e all’azione), ma pure da un indomabile istinto a rendere il “messaggio” comprensibile a tutti. Così, la messa in scena, sulla carta rigorosa e claustrofobica, si apre a continui, brevi flashback esplicativi che mettono in immagini le parole pronunciate: niente resta non detto, niente resta non visto, come se quelle women talking non fossero, infine, sufficienti e evocare un mondo di violenza patriarcale fisica e psicologica. Per paura che qualcosa si smarrisca, nella sua già limpida metafora che trasforma una manciata di donne sottoposte a rigidissima condotta religiosa in sineddoche dell’universale oppressione del femminile, Polley sceglie - come tanto cinema contemporaneo - la via del didascalismo; dando vita a un film giusto, ma mai grande.
ILARIA FEOLE
Restando in tema Oscar: oltre a Sarah Polley, e alle attrici Michelle Yeoh e Jamie Lee Curtis per Everything Everywhere All at Once, le altre (poche) donne premiate sul palco della 95ª edizione sono state la co-scenografa di Niente di nuovo sul fronte occidentale Ernestine Hipper, la costumista di Black Panther: Wakanda Forever Ruth E. Carter (divenuta così la prima donna nera nella storia a vincere due Oscar), Judy Chin e Anne Marie Bradley dal team di truccatori di The Whale e Kartiki Gonsalves, regista del miglior corto doc Raghu, il piccolo elefante: potete leggere qui una sua intervista [in inglese]
Chi invece è tornato a mani vuote è Cate Blanchett, e in generale il bellissimo TÁR, ritratto di un femminile “mostruoso” come la sua interprete: vi proponiamo la bella lettura di Daniela Brogi su DoppioZero.
Marie Kreutzer, regista di Il corsetto dell’imperatrice, è a Milano giovedì 16 marzo, alle ore 19 al cinema Arlecchino nell’ambito di Sguardi altrove, per presentare in sala il suo potente dramma al femminile The Ground Beneath My Feet, in gara alla Berlinale 2019 e inedito in Italia.