Singolare, femminile ♀ #079: The Last Dance
Su MUBI è disponibile Aftersun, il celebrato debutto nel lungometraggio della regista scozzese Charlotte Wells, con Paul Mescal e la giovane esordiente Frankie Corio: un lavoro sorprendente, insieme semplice e stratificato, capace di trasformare in cinema la sostanza della memoria.
Tra le cose che si sentono dire più spesso di Aftersun, l’esordio della regista scozzese Charlotte Wells approdato in Italia su MUBI nei primi giorni del 2023 dopo aver dominato tantissime classifiche dei migliori film del 2022, c’è la difficoltà, se non l’impossibilità, di spiegarlo. Lo dice il critico del “New York Times” A.O. Scott, nella sua recensione: «È difficile trovare un linguaggio critico in grado di rendere conto della delicatezza e dell’intimità di questo film. Questo avviene, in parte, perché Wells, con l’inalterata precisione di una poeta lirica, quasi reinventa il linguaggio del cinema, sbloccando il potenziale, spesso dormiente, di un medium in grado di dischiudere mondi interiori fatti di coscienza e di sentimento». Lo scrive Roy Menarini sul suo profilo Instagram: «È un film che mette in crisi la critica: come spiegare in termini razionali, analitici e discorsivi quella sensazione mista di malinconia e imminente tragedia che non molla mai lo spettatore, mescolata alla tenerezza di un home movie (per struttura e quasi di fatto)?». Lo si ritrova spesso anche nei commenti sui social, nelle mini recensioni su Letterboxd, o simili.: «Non trovo le parole per descrivere questo film», «le emozioni che mi ha suscitato», etc.
Detta così, Aftersun potrebbe sembrare un film costruito e affidato tutto all’istinto, un’opera principalmente sentimentale, e dunque, com’è spesso il rischio in questi casi, poco rigorosa, magari passionale ma acerba, imprecisa. Invece, la difficoltà di “spiegare” Aftersun sta anche nell’apparente contraddizione tra l’effetto emotivamente debordante che suscita nello spettatore (in molti spettatori, ma inevitabilmente non in tutti: c’è sempre il rischio soggettivo che la connessione emotiva non scatti) e l’impalcatura per tanti aspetti cerebrale, quasi astratta su cui il film si appoggia. Aftersun è, tra le altre cose, un film sulla memoria, una riflessione perfino filosofica sul tempo e la sua “imprendibilità” effettuata attraverso gli strumenti con cui cerchiamo quotidianamente di fissare il ricordo, di fermare il passato per renderlo presente, di registrare la nostra esistenza (cioè i video, le foto, i film) e quella di chi ci è caro.
Il film racconta una vacanza, e una vacanza come tante: in un resort abbastanza popolare, in una località della Turchia di cui non vediamo poi molto, tra turisti soprattutto britannici appartenenti alla classe media. Comincia con un trasferimento in pullman dall’aeroporto all’hotel, mentre fuori dai finestrini il profilo del paese straniero s’indovina solo dalle luci; prosegue tra tuffi in piscina, partite a calcetto o a videogame da sala giochi, ore di nulla a prendere il sole, qualche gita guidata, l’intrattenimento serale. A viverla sono Calum e Sophie, un padre e una figlia che qualcuno scambia facilmente per fratello e sorella, tanto appare breve la differenza d’età, poco più di 30 anni lui, 11 lei. Di loro – di lui, soprattutto – carpiamo via via qualche dettaglio: Calum legge libri sulla meditazione e pratica il tai chi, è separato dalla mamma di Sophie, vive a Londra (mentre la figlia e la ex moglie a Edimburgo), non ha una grande disponibilità economica, non riesce a immaginarsi a quarant’anni perché non pensava nemmeno che sarebbe arrivato a trenta. Con Sophie, che nel frattempo scruta con curiosità e desiderio l’adolescenza nei corpi e nei gesti dei ragazzi più grandi all’hotel, Calum è tenero e complice, anche se talvolta sembra travolto da bruschi cambi d’umore.
Sono i tardi anni 90, restituiti con un’accuratezza di dettagli d’ambiente e di costume precisissima eppure per nulla insistita, in consapevole opposizione alla rievocazione nostalgica o al fascino feticista da period drama. L’epoca rivive negli oggetti d’uso comune, maneggiati con la noncuranza banale della quotidianità, e nella musica: le canzoni, tutte in un modo o nell’altro diegetiche, sono la perfetta colonna sonora di un’estate europea dei tardi Nineties (dalla Macarena ai Chumbawamba, dalle All Saints a Drinking in L.A.), e allo stesso tempo talvolta rilucono dell’improvvisa significatività che un verso può assumere aderendo alla realtà e al sentimento di chi l’ascolta – è il caso della meravigliosa Tender dei Blur, nel suo ritornello gospel («Come on, come on, come on, get through it/Come on, come on, come on, love’s the greatest thing/That we have» potrebbe essere l’incoraggiamento che Calum fa a se stesso), o del karaoke triste di Sophie su Losing My Religion dei R.E.M. (che Wells racconta di aver scelto perché è la prima canzone di cui ha saputo a memoria tutto il testo, ma il cui passaggio «I thought that I heard you laughing/I thought that I heard you sing/I think I thought I saw you try» potrebbe riassumere efficacemente il tentativo di Sophie di ricostruire la figura del padre dentro i suoi ricordi di bambina), fino all’apoteosi di Under Pressure nel finale (ci torniamo poi; in calce alla newsletter, le traduzioni dei brani citati). Il paesaggio cinematografico messo in scena da Wells è in perfetta continuità con i “documenti” video e fotografici realizzati dai suoi protagonisti, i cui frammenti s’intersecano talvolta alla narrazione: con sottigliezza acuta, nella grana, nei colori e nella composizione delle inquadrature la regista ricrea i toni e le asimmetrie degli home movie, delle foto istantanee. Nello stesso tempo, inquadra spessissimo soprattutto Calum dentro i riflessi di vetri, specchi, superfici lucide, come a sottolineare subliminalmente il velo del ricordo, la necessità di andarlo a scovare nei margini, negli anfratti di una memoria lontana.
Un filo sotterraneo d’angoscia, un senso di tragedia incombente emergono tra l’azzurro sintetico della piscina e quello sconfinato del cielo che la giovane Sophie, “filosofeggiando”, trova rassicurante («è bello sapere che anche quando siamo lontani siamo sotto lo stesso cielo»). Ma dove si trovi quest’immensa tristezza, da cosa derivi questa sensazione disturbante di dolore costante non è immediatamente chiaro, e non lo sarà del tutto nemmeno alla fine del film. Quando scorrono i titoli di coda abbiamo però la certezza inconfutabile che quella cui abbiamo assistito è stata l’ultima vacanza insieme di Sophie e Calum, e che Calum sia morto poco dopo; eppure non c’è nessun dialogo, nessuna sequenza, nessun dettaglio, nessuna inquadratura che ce lo dicano esplicitamente. È un piccolo miracolo, che Wells ottiene solo ed esclusivamente con il linguaggio del cinema: le immagini, la musica, il montaggio, la recitazione, l’adesione a un punto di vista che lentamente si sdoppia, “si guarda” e “si cerca”, tra passato e futuro.
È un film, Aftersun, che insegna come dev’essere guardato mentre lo si sta guardando. Tra le tante sequenze indicative, verso la fine del film e della vacanza, c’è quella in cui Sophie e Calum si fanno scattare una polaroid. La macchina da presa poi inquadra dall’alto la fotografia, per tutto il tempo che serve a vederla svilupparsi: dallo sfondo indistinto emergono i contorni di Calum e Sophie, poi i loro sorrisi, i loro veri colori si fanno sempre più accesi, i loro dettagli sempre più chiari. E lo stesso accade allo spettatore davanti ad Aftersun: i veri contorni del film si rivelano solo davanti all’opera intera, osservata da una certa distanza, di spazio e di tempo. Quello che stiamo guardando non è il solo racconto di una vacanza: è il racconto del ricordo di quella vacanza, scandagliato da una Sophie adulta (alla stessa età di suo padre, un altro dettaglio che intuiamo prima ancora di saperlo) tra l’imprendibilità soggettiva della sua memoria e l’apparente oggettività dei filmini registrati con la videocamera in quei giorni turchi. E il modo in cui capiamo che stiamo guardando un ricordo è, a nostra volta, ricordando il film che abbiamo appena visto, mentre lo stiamo consegnando alla nostra, di memoria.
«L’elefante nella pagina», come lo chiama la stessa Charlotte Wells in un messaggio agli spettatori del suo film pubblicato sul sito della casa di produzione A24, è l’autobiografia: anche lei ha perso il padre da teenager, e all’argomento aveva già dedicato il suo primo cortometraggio, Tuesday (che si può vedere, insieme agli altri suoi due corti, Laps e Blue Christmas, sul suo sito charlotte-wells.com). Anche in Tuesday la verità e il lutto non vengono mai enunciati direttamente, ma lasciati desumere allo spettatore dall’affollarsi di particolari dissonanti nel contesto, e da qualcosa d’indefinibile che affiora nel pedinamento della giovane protagonista operato dalla camera (anche in Blue Christmas s’intravedono già tanti elementi fondanti di Aftersun: l’epoca passata – in questo caso i fine anni 60 scozzesi – evocata attraverso la musica e pochissimi e anti nostalgici dettagli d’ambiente, l’instabilità emotiva e psicologica di un genitore, una danza finale insieme lancinante e catartica).
Nel sopra citato messaggio sul sito di A24, Wells sceglie di regalarci una foto di sé e di suo padre alle stesse età di Calum e della giovane Sophie, e la somiglianza con gli attori scelti per il film – il bravissimo e dolente Paul Mescal di Normal People e la sorprendente esordiente Frankie Corio – è cristallina e innegabile. Così com’è innegabile la sensazione di continuità estetica tra quelle fotografie e il “tessuto” visivo di Aftersun.
Ma in tutto quello che il film dice senza mai dirlo, Wells trova la miracolosa intersezione tra la specificità dell’autobiografia e l’universalità di sentimenti archetipici e condivisi. Aftersun è un film che si apre all’interpretazione dei particolari – Calum soffre di una malattia mentale, o fisica, o entrambe? È costretto in un’identità che non gli appartiene? È schiacciato dal peso della depressione, del passato, dei rimpianti? O da una situazione attuale che gli pare senza via d’uscita? – ma che si poggia, nello stesso tempo illuminandole, su alcune verità del rapporto tra un genitore e un figlio (tra un padre e una figlia). Come in un doppio specchio, riflesso l’uno nell’altro, ci si cerca reciprocamente, ci si incontra e ci si afferra, (non) ci si comprende, eppure c’è sempre un margine incolmabile di distanza, la consapevolezza di un reciproco addio che, in un modo o nell’altro, arriverà, con la crescita, con l’età adulta e/o nella morte. In tutto ciò che il film non dice, sta lo spazio regalato allo spettatore di trovare se stesso, i propri genitori, la relazione con la propria memoria.
Con il potere e il linguaggio del cinema (per coincidenza, al centro di un discorso molto simile nel diversissimo The Fabelmans di Steven Spielberg), Charlotte Wells dà luce a un film parallelo, per esempio, a Petite maman di Céline Sciamma, e insieme complementare: nel bosco autunnale evocato dalla cineasta francese madre e figlia si ritrovavano bambine, si riconoscevano come anime gemelle eppure, proprio per questo, individui alla pari, indipendenti, entrambe forti di un futuro proprio e personale; tra le luci stroboscopiche della discoteca di Aftersun, nel cerchio perfetto che buca il tempo attraverso uno sguardo e serra, in una panoramica a 360°, i 31 anni di Sophie e i 31 anni di Calum, nei versi via via più laceranti di Under Pressure, quasi una preghiera disperata («Can’t we give ourselves one more chance?/Why can’t we give love that one more chance?/Why can’t we give love, give love, give love, give love/Give love, give love, give love, give love?/‘Cause love’s such an old-fashioned word/And love dares you to care for/The people on the edge of the night/And love dares you to change our way of/Caring about ourselves/This is our last dance/This is our last dance/This is ourselves»), Sophie e Calum si possono ritrovare adulti, vedersi e stringersi, sciogliersi in lacrime e grida, in rabbia e perdono, e in un ultimo abbraccio impossibile, in un tempo oltre il tempo, in un’inafferrabile eppure palpabile eternità. ALICE CUCCHETTI
«Nel punto fermo del mondo che svolta. Né carne né senza carne;
né da né verso; nel punto fermo, dov’è la danza,
né arresto né movimento. Non chiamarla fissità,
dove passato e futuro sono raccolti. Né movimento da né verso,
né ascesa né declino. Se non nel punto, nel punto fermo,
non c’è danza, e c’è soltanto danza».
[T.S. Eliot, Burnt Norton, Quattro quartetti, post scriptum del messaggio al pubblico pubblicato da Charlotte Wells sul sito di A24, traduzione di Elio Grasso)
Abbiamo dedicato ad Aftersun la copertina del n. 2/2023 di Film Tv. All’interno, un’intervista alla regista Charlotte Wells, che vi riproponiamo.
Ricordo di un’estate - Intervista a Charlotte Wells
È tra i debutti più sorprendenti dell’anno. Dopo i corti Tuesday (2012), Laps e Blue Christmas (entrambi del 2017), Charlotte Wells esordisce nel lungo con Aftersun, disponibile su MUBI, incentrato sul rapporto tra un padre e una figlia durante una vacanza in una località balneare in Turchia alla fine degli anni 90. La regista, anche sceneggiatrice, ci ha parlato del processo di gestazione e realizzazione di un film che ha già ricevuto numerosi riconoscimenti, tra cui il premio della giuria French Touch alla Semaine de la critique del 75° Festival di Cannes.
Da quanto tempo avevi in mente questo film?
È stato un lavoro piuttosto lungo, l’idea di Aftersun risale infatti al 2015.
In Aftersun, come nei tuoi corti, utilizzi spesso brani musicali. Qui per esempio la musica è fondamentale per caratterizzare il periodo in cui si svolge la storia, da Frankie Corio che canta Losing My Religion dei R.E.M. alla Macarena... Quanto è decisiva la colonna sonora?
C’è una precedente versione del film in cui la musica è ancora più predominante rispetto a quella attuale. Poi però mi sono trovata più a mio agio nell’usare una colonna sonora “tradizionale” composta da parti di brani scelti. Penso che in un film come questo, che per me è molto personale e intimo, i testi delle canzoni contribuiscano a raccontare sia la storia sia i personaggi. Dunque ho prestato molta attenzione alla scelta di brani significativi, come per esempio Under Pressure o Losing My Religion, proprio perché quelle parole hanno un ruolo nella struttura della vicenda.
Aftersun racconta anche del rapporto tra immagini e memoria, come suggeriscono gli inserti video che conservano i ricordi di una vacanza lontana nel tempo...
Credo che il video segni, all’interno del film, come dei punti di ancoraggio. Ci sono alcuni eventi che vengono registrati e si fanno quindi testimonianza, documentazione indiscutibile di ciò che è successo. Sono momenti che non contribuiscono necessariamente all’evoluzione della storia, ma per me rendono il film più solido. Mi interessava poi l’uso del video come strumento per mostrare il punto di vista dei personaggi rispetto a quello che accade: se in un’inquadratura l’azione del padre o della figlia è secondaria, il suo sguardo diventa però un elemento che rafforza la descrizione del rapporto tra i due protagonisti.
Infatti c’è una scena in cui Sophie e il padre Calum sono riflessi sullo schermo della tv...
Già dalla sceneggiatura mi attirava quest’idea di live feed della videocamera che si muove, gira in tondo e poi taglia la scena. Come se questa memoria andasse a completare ciò che manca.
Sempre sull’utilizzo del video come forma di memoria, ci sono dei cineasti che ti hanno ispirata?
All’inizio, durante la fase di scrittura, non avevo pensato a un regista di riferimento. Prima di girare il film ho però guardato un documentario argentino, El silencio es un cuerpo que cae, con immagini registrate su videocassetta da un padre prima della sua morte e poi ritrovate dalla figlia.
A proposito del cast, come mai hai scelto di affidare il ruolo del padre Calum a Paul Mescal, la star di Normal People? E poi come hai trovato Frankie Corio, che interpreta la figlia Sophie?
È stato un processo durato circa sei mesi. Siamo partiti dal personaggio di Sophie, per il quale si sono candidate 800 ragazzine! Ne abbiamo incontrate 16, e Frankie è stata una sorpresa enorme perché ha dimostrato un grande talento. Ha compreso al volo le istruzioni che le venivano date. Mi ha colpita in particolare la sua capacità di entrare e uscire dai diversi stati emotivi del personaggio: è stato stupefacente, soprattutto se pensiamo che si tratta di una ragazza giovanissima che non aveva mai recitato prima. Dopo abbiamo cercato l’attore per il ruolo del padre e Paul aveva alcune caratteristiche interessanti: un calore innato, un certo fascino e una fisicità adatta. Abbiamo parlato, ha fatto un provino dove ballava in cucina, una scena simile a quella del balcone che vediamo nel film. E poi ha capito la sceneggiatura più di qualunque altro.
A un certo punto proprio il padre dice: «Non riesco a immaginarmi a 40 anni. Sono già sorpreso di essere arrivato a 30». Quanto è importante, in Aftersun, la paura del tempo che passa, del futuro?
Calum sente che il suo tempo sta passando, mentre Sophie ne ha tantissimo davanti a sé. In qualche modo, questa paura rappresenta per il padre sia un senso di impotenza sia il bisogno di investire tanto nel futuro della figlia. Ho organizzato il film in base al tempo, seguendo la scansione delle giornate. Mentre la vacanza sta terminando, anche il loro rapporto è vicino alla fine. Ci immaginiamo che questa potrebbe essere l’ultima volta che i due si incontrano. Così si avverte una pressione crescente e forse percepiamo che padre e figlia prenderanno due strade diverse.
Qual è il film che ti ha avvicinato di più al cinema e che ti ha spinto a diventare una regista?
Alice nelle città di Wim Wenders, dove c’è sempre il rapporto padre-figlia. È così giocoso e lei è fantastica. Poi tutto il cinema di Terence Davies e i film di Chantal Akerman degli anni 70.
SIMONE EMILIANI
Aftersun è distribuito da MUBI, nella sezione Esordi, accanto ad altri interessanti opere prime contemporanee come Shiva Baby di Emma Seligman e The African Desperate di Martine Syms. Un percorso di catalogo “affine”, Prima i primi, recupera invece alcuni debutti di grandi autori e autrici oggi affermati: tra questi, sono disponibili Sweetie di Jane Campion, Unrelated di Joanna Hogg ed Estate 1993 di Carla Simon. Sul Notebook di MUBI (il magazine collegato alla piattaforma), c’è una lunga intervista [in inglese] a Charlotte Wells; la regista ha anche partecipato al MUBI Podcast, parlando soprattutto della colonna sonora di Aftersun [in inglese].
Esce domani nei cinema Babylon, l’ultimo film di Damien Chazelle, ambientato nella Hollywood degli anni 20 (ne parliamo su Film Tv n. 3, in edicola) e liberamente ispirato a Hollywood Babilonia, storia degli “scandali hollywoodiani” firmata da Kenneth Anger negli anni 50 (in Italia la pubblica Adelphi). Qualche anno fa la studiosa e podcaster Karina Longworth aveva dedicato una stagione del suo celebre programma You Must Remember This all’analisi dei fatti raccontati in Hollywood Babilonia, cercando di separare la realtà dalla leggenda: nelle appassionanti puntate di Fake News: Fact Checking Hollywood Babylon (disponibili sulle varie piattaforme di podcast) si parla di Marlene Dietrich e Claudette Colbert, di Clara Bow e di Mae West, di D.W. Griffith e Rudolph Valentino, di Fatty Arbuckle e Dorothy Dandridge [in inglese].
E, a proposito di Hollywood del muto, lo scorso 6 gennaio l’American Film Institute ha pubblicato un grosso studio incentrato sulle donne filmmaker nei primi decenni della storia del cinema: durata tre anni e concentrata su oltre 6.000 film, l’analisi rivela che nel periodo tra il 1910 e il 1930 la presenza di sceneggiatrici, registe e produttrici è stata maggiore che in tutti gli altri decenni del primo secolo di vita del cinema. Il 10,9% della produzione dell’epoca vedeva crediti femminili e il 27,5% era firmato da sceneggiatrici o co-sceneggiatrici. L’AFI ha messo online un ricco e prezioso sito su cui è possibile approfondire la materia e scoprire storie e lavori delle pioniere del cinema. [In inglese]
* (Traduzioni dei brani di canzoni citate nell’articolo inedito di questo numero:
1. Tender: “Coraggio, coraggio, coraggio, cerca di superarla/Coraggio, coraggio, coraggio, l’amore è la cosa più grande/Che abbiamo”
2. Losing My Religion: “Mi è sembrato di sentirti ridere/Mi è sembrato di sentirti cantare/Credo mi sia sembrato di vederti provare”
3. Under Pressure: “Non possiamo darci un’altra possibilità?/Perché non possiamo dare all’amore un’altra possibilità?/Perché non possiamo dare all’amore, dare all’amore, dare all’amore, dare all’amore/Dare amore, dare amore, dare amore, dare amore/Perché l’amore è una parola d’altri tempi/E l’amore ti sfida a prenderti cura di chi sta sul confine della notte/E l’amore ti sfida a cambiare/Il modo in cui ti prendi cura di te/Questa è la nostra ultima danza/Questa è la nostra ultima danza/Questi siamo noi”)