Singolare, femminile ♀ #078: Fuori dai margini
Su Netflix è arrivato La vita bugiarda degli adulti, coming of age immerso nella vischiosa vitalità della Napoli anni 90 tratto dall'ultimo romanzo di Elena Ferrante. Tra la carta e lo schermo, cogliamo l'occasione per gettare uno sguardo sui complessi personaggi femminili scaturiti dalla penna della scrittrice.
«Mia madre annegò la notte del 23 maggio, giorno del mio compleanno, nel tratto di mare di fronte alla località che chiamano Spaccavento, a pochi chilometri da Minturno».
È il 1992 e su questo incipit, raggelato e folgorante come saranno quelli di tutti i libri successivi, Elena Ferrante apre il suo romanzo d’esordio, L’amore molesto. All’epoca di lei non si conosce nulla, eccetto il nome: nella lettera che accompagna il manoscritto l’autrice manifesta agli editori Sandro Ferri e Sandra Ozzola di Edizioni E/O l’intenzione di preservare il proprio anonimato, dichiarandosi disposta a comunicare con la stampa soltanto il minimo indispensabile e per giunta in forma esclusivamente scritta. «Il testo è un organismo autosufficiente», dice, «in sé ha già tutte le domande e tutte le risposte».
30 anni, sette romanzi e tre raccolte di saggi più tardi i suoi libri sono diventati bestseller, dai suoi lavori sono gemmati tre film e due serie tv, il “Time” l’ha inserita nel gotha delle “persone più influenti al mondo” ma Ferrante no, non ha cambiato idea: alimentando inevitabilmente una curiosità direttamente proporzionale al successo della sua opera, continua a rifiutarsi di «mettere in vendita la propria intera persona insieme al libro». Non è la prima né l’ultima, certo: di autori che per una ragione o per l’altra scrivono sotto pseudonimo è piena la storia della letteratura; a ben vedere, il suo caso non pare poi così singolare. Piuttosto, “singolare” risulta lo sforzo profuso dai media nel tentativo mai sopito di fare luce sull’identità della scrittrice, un’accanita, sensazionalistica corsa che dalle complesse analisi stilometriche di chi ha scelto i libri stessi come pista di partenza arriva alle indagini di chi, addirittura, si è messo a setacciare i movimenti finanziari di E/O alla ricerca di una qualche traccia che conduca al suo vero nome (il tutto con vette d’isteria al limite del risibile: nel 2015 Sandro Veronesi, giurato al premio Strega, minaccia di dimettersi dal ruolo se lei non accetta di uscire allo scoperto, perché «se decidi di non esistere allora non vai allo Strega»).
Una saggista napoletana, una coppia di editori, una docente di Storia e, con eloquente gender swap, persino un celebre critico: Elena Ferrante può essere chiunque purché sia qualcuno, e in questo senso a poco varrà la pubblicazione di La frantumaglia, la raccolta di saggi, lettere e interviste data alle stampe dall’autrice nel 2003 con l’intenzione manifesta di fare chiarezza su una decisione - quella di «fissare soltanto attraverso la scrittura quanto di sé merita di diventare pubblico» - tanto trasparente quanto, evidentemente, “inaccettabile”. In uno dei testi di La frantumaglia Ferrante parla di un «desiderio nevrotico di intangibilità», per poi accostare l’atto di scrivere a una «perquisizione priva di rispetto» in seguito alla quale non si desidera che di «riacquistare la propria integrità». L’immagine cattura bene l’essenza di una scrittura - rigorosamente in prima persona, perché per Elena Ferrante non si dà altro modo di raccontare («la terza persona mi sembra un artificio di scarsa utilità, un travestimento rozzo dell’autobiografismo» ha detto in un’intervista) – che si concede interamente ai propri personaggi, facendo delle loro vive voci le porte d’accesso all’esplorazione di psicologie femminili ambigue e sfuggenti, colte nel momento del loro affacciarsi sul caos dell’esistenza, tra perdita stordente dei margini e tentativo di preservare un ancoraggio ultimo alla realtà nell’elaborazione di autonarrazioni alternative.
È il caso di Delia, la protagonista di L’amore molesto, richiamata a Napoli dalla morte di sua madre in circostanze torbide e oscure. L’indagine sulla scomparsa della donna prende la forma di una calata multisensoriale nelle viscere di una città rifiutata e cancellata - «una città di litigi improvvisi, di mazzate, di lacrime facili, di piccoli conflitti che finivano in bestemmie, oscenità irrefrenabili e fratture insanabili, di affetti così esibiti da diventare insopportabilmente falsi», «un luogo di scomposizione, di disarticolazione» - attraverso la quale elaborare il lutto e soprattutto rifondare la propria esistenza, ritrovando una possibile definizione di sé oltre l’ambivalenza di un legame madre-figlia morboso e contraddittorio. Tre anni dopo la pubblicazione del romanzo sarà Mario Martone a portare sullo schermo questo viaggio tanto letterale, carnale quanto simbolico e mentale, con la collaborazione di Ferrante stessa alla stesura della sceneggiatura (il film è disponibile su Chili e Rakuten): il carteggio “fermoposta” fra i due illustri concittadini, del quale sono proposti alcuni bellissimi stralci in La frantumaglia, aiuta a sciogliere i nodi dell’irrisolta relazione tra l’opera di Ferrante e i suoi adattamenti, non senza aprire fertili spazi di riflessione attorno al rapporto tra letteratura e cinema tout court.
A dispetto dei timori della scrittrice, che in una delle lettere si dirà turbata nel vedere il proprio libro spogliato della «veste letteraria», con la voce narrante di Delia giocoforza chiamata a fare i conti con il proprio corpo-oggetto esposto sullo schermo, nel film di Martone le parole di Ferrante trovano una sintesi felice, dal vistoso abito rosso che accende i riflettori sul movimento impazzito di Anna Bonaiuto lungo le geometrie ctonie della città alla battuta, limpida e potente, con cui il regista risolve sul finale il percorso interiore del suo personaggio, quando un giovane sul treno chiede a Delia come si chiami e lei risponde «Amalia», a suggello dell’avvenuta rappacificazione della donna col fantasma della madre.
Di tutt’altro segno (ed esito), l’operazione compiuta nel 2005 da Roberto Faenza in I giorni dell’abbandono (disponibile su Infinity) dal romanzo successivo di Elena Ferrante: al registro intrinsecamente deformante col quale la scrittrice restituisce lo sdrucirsi e poi il ricucirsi della borghese Olga – un’altra donna azzerata chiamata, come Delia, a «dire la sua storia dal centro di una vertigine» - dopo l’abbandono improvviso del marito, il regista oppone uno sguardo dal di fuori, che comprime l’imprendibile moto oscillatorio della psiche nella netta e forzata contrapposizione tra realtà (il naturalismo della messa in scena) e allucinazione (gli artificiosi inserti onirici a sostanziare la progressiva riemersione delle fantasie puerili di Olga/Margherita Buy, calata in un gorgo oscuro che la riconsegna agli spauracchi della sua infanzia napoletana, all’oscenità di una lingua sin lì censurata).
Ben venga allora l’esplicito ma intimo sdoppiamento a cui la statunitense Maggie Gyllenhaal sottopone racconto e protagonista in La figlia oscura (su SkyGo e Now), il suo esordio dietro la macchina da presa dopo l’episodio Penelope della serie antologica di Netflix Homemade: nel film - che per ragioni legate ai finanziamenti sposta lo scenario dalla costa di Napoli a un’imprecisata isola greca, accentuando nel tourist gaze della regista il senso di spaesamento dal quale è informato progressivamente il libro - l’incontro tra la quarantottenne Leda e una mamma conosciuta sulla spiaggia è la scaturigine di una feroce autoanalisi che ricaccia la donna indietro nel passato, all’epoca in cui, giovane «madre snaturata», aveva abbandonato le due figlie per ritagliarsi un destino alternativo, diverso da quello consegnatole dalla sua «funzione». Il duplice binario su cui si muove la narrazione (due tempi, due fasi della vita, due attrici – Olivia Colman e Jessie Buckley) diventa così il riflesso della frattura dalla quale è attraversata Leda, donna eppure madre, madre eppure donna, in un’indagine fecondamente scomposta della maternità e delle sue irrisolvibili contraddizioni.
Che ridisegnino i propri contorni dopo aver guardato nel buio della faglia che taglia a metà le loro esistenze, come nei succitati “capitoli” delle Cronache del mal d’amore, o che li ridefiniscano nel rispecchiamento con l’altro, come fa Lenù con l’amica geniale Lila nella tetralogia bestseller lunga una vita e un Paese interi (ma pure l’adolescente Giovanna della nuova serie Netflix La vita bugiarda degli adulti - i cui autori abbiamo intervistato sul n. 1/2023 di Film Tv - opera per certi versi gemella pur nelle differenti ambizioni, quando il padre, ravvisando nel suo volto in fieri di ragazza la faccia dell’«impresentabile» e proletaria zia Vittoria, innesca in lei un processo di ridefinizione identitaria e sociale), tutte le donne dei romanzi di Elena Ferrante recano in sé una «bestia in agguato nello stanzino», un’ambivalenza irriducibile che ne sforma e destruttura le personalità.
Negli anni 50 del rione o nella Napoli Nineties dei centri sociali, nell’ampio respiro del grande feuilleton Rai/HBO o in quello più strozzato della recente serie Netflix, il loro tempo è sempre «il tempo del torcersi»: dentro a quelle pieghe - nello spazio vuoto aperto dalle crepe - s’infiltra vorace la penna di una scrittrice che non ha bisogno di un volto per guardare in faccia ciò che fa paura anche soltanto sbirciare.
CATERINA BOGNO
Fra i tanti adattamenti da Ferrante abbiamo citato quello, tutto al femminile, di Maggie Gyllenhaal, che ha debuttato alla regia lo scorso anno portando sullo schermo La figlia oscura. Ci ha raccontato le fasi della trasposizione e il suo rapporto con le pagine (e con l’elusiva figura) di Elena Ferrante nell'intervista sul n. 14/2022 di Film Tv, che vi riproponiamo.
Prime volte - Intervista a Maggie Gyllenhaal
Premiato a Venezia 2021 per la migliore sceneggiatura e candidato a tre Oscar, La figlia oscura, tratto dall’omonimo romanzo di Elena Ferrante, segna il debutto della newyorkese Maggie Gyllenhaal dietro la macchina da presa, dopo trent’anni di carriera da attrice. L’abbiamo incontrata.
Come mai hai scelto di adattare Ferrante per il tuo esordio alla regia?
Ho letto la tetralogia di L’amica geniale appena è stata tradotta in inglese, e ha avuto un impatto molto forte su di me. Quando poi ho cominciato a leggere La figlia oscura mi sono ritrovata a pensare, a proposito della protagonista Leda, «oddio, questa donna è davvero un disastro»; ma poi, poche righe dopo, pensavo: «Oh oh, in realtà forse è uguale a me?». Sono passata dal giudicare quel personaggio al criticare me stessa e infine a sentirmi piuttosto sicura che, in realtà, tutte prima o poi ci sentiamo così, anche se non ne parliamo. L’esperienza della maternità, la fantasia di essere “la madre perfetta”, che finisce per essere una delle cose che ci opprimono... La nascita di un figlio, che è una gioia ma, come tutte le cose che fanno crescere, è anche molto dolorosa. Mi sono chiesta cosa sarebbe successo se, invece di restarmene da sola a leggere le parole di Ferrante, avessi creato una situazione in cui molte altre persone potessero condividerle.
Elena Ferrante è notoriamente inafferrabile, come è stato il tuo rapporto con lei?
Sarei tentata di dire che l’ho incontrata e so chi è veramente... Ma no, non l’ho mai incontrata, ho avuto solo una corrispondenza scritta con lei. Quando le ho chiesto i diritti del film, anticipando che forse lo avrei diretto io, lei mi ha risposto «devi dirigerlo tu. Se non lo fai tu questo contratto non è valido». È stato un voto di fiducia da qualcuno che ammiro tantissimo. Lei ha una rubrica sul “Guardian”, e un giorno da quella pagina si è rivolta a me, dicendo che l’unico modo in cui il film poteva avere successo era se l’avessi fatto diventare mio: voleva darmi la libertà di esprimere me stessa attraverso il suo lavoro. Così ho smesso di tenere il libro sempre al mio fianco e ho lasciato che il film prendesse vita. Ferrante ha letto il copione e mi ha lasciato note molto sagge, una di queste diceva: «Leda non può essere pazza». E sono totalmente d’accordo: se Leda è pazza, non puoi fare altro che giudicarla, e non ti prendi la responsabilità di riconoscerti in lei. Ma io volevo sfidare il pubblico a immedesimarsi in lei.
Il romanzo si svolge in Italia, il tuo film in Grecia, come hai scelto la location?
Io volevo ambientare il film in America, in una località balneare, magari nel Maine. Avevo escluso l’Italia perché non so nulla dell’Italia, non saprei relazionarmi con l’esperienza di una donna italiana. Ma poi è arrivata la pandemia e non è più stato possibile girarlo negli Usa; abbiamo valutato il Canada, il Regno Unito, infine un giorno ho pensato: potrei farlo in Grecia! In Grecia potremmo essere tutti turisti, essere stranieri per Leda allo stesso modo in cui lei è straniera per me. E ho scoperto che ci sono ottime infrastrutture per girare in Grecia, incentivi finanziari che hanno reso possibile logisticamente ed economicamente fare il film lì.
Vedendo il film e il tuo approccio schietto all’esperienza di essere donna non ho potuto fare a meno di pensare a Candy/Eileen, il tuo personaggio nella serie The Deuce, una pornodiva che passa dietro la macchina da presa per realizzare film più realistici sul femminile.
Ti racconto questo: Candy era stata concepita in sceneggiatura come produttrice, non come regista, ma io ho detto a David Simon: «No, deve essere un’artista, non è una questione di soldi, lei si mette in gioco per la sua arte». E così l’hanno cambiato. Penso che spesso, nella mia carriera, mi sia successo di imparare le cose prima recitando un ruolo che facendole nella vita, e quindi credo che Candy mi abbia ispirata ad avere il coraggio di ascoltare quella parte di me che è sempre stata una regista, anche se ancora non si sentiva legittimata a prendere il suo posto.
Dirigi un cast stellare: Olivia Colman, Jessie Buckley, Ed Harris, Dakota Johnson, tuo marito Peter Sarsgaard... Come hai lavorato coi tuoi interpreti?
Ho scelto attori molto diversi da me e dal mio modo di recitare, ma che hanno in comune il fatto di avere un punto di vista forte: voglio che mi sorprendano, e lo hanno fatto tutti, in modi differenti, Ed, Peter, Olivia, Jessie, Dakota, Paul Mescal... Credo che il mio lavoro fosse tenerli insieme, vedere le cose che mi offrivano e spingerli a renderle ancora più autentiche, più rischiose.
Non hai mai pensato di tenere per te il ruolo di Leda?
No, mi piaceva l’idea di offrire a un’altra donna la chance di fare qualcosa di così interessante. Inizialmente forse sì, avevo pensato «ok, se proprio non trovo un’attrice davvero eccezionale potrei farlo io», ma sono molto, molto contenta di non averla interpretata io alla fine. Olivia l’ha interpretata in un modo totalmente diverso da come l’avevo immaginata, e mi ha commosso. Credo che la regista sia un lavoro migliore per me. Mi manca recitare, a volte, ma dirigere è un lavoro duro che mi dà un piacere e un’energia come nient’altro prima. Tranne forse l’essere madre.
ILARIA FEOLE
A proposito di Elena Ferrante: è dedicato alle pagine di L'amica geniale il podcast Le parole di Lila e Lenù, firmato da Carolina Capria e Silvia Grasso, serie in sei puntate dedicata alla sorellanza al centro della saga letteraria, disponibile su Storytel.
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