Singolare, femminile ♀ #070: Un'era dopo l'altra
Con l’ultimo disco, Midnights, la prolifica Taylor Swift fa in questi giorni la storia, occupando tutta la top ten della classifica Billboard. A raccontarci una star chiacchieratissima, la sua immagine prismatica e sfuggente, le zone d’ombra e la genialità del suo marketing, abbiamo chiamato l’ospite Francesca Anelli.
Midnights, il recentissimo album di Taylor Swift, si chiude con una canzone in cui l’icona del pop mondiale rivela (o piuttosto, potremmo dire, conferma) di essere una “mastermind”: ogni sua mossa è programmata in anticipo, con cura e machiavellica ostinazione, seguendo una precisa strategia. Nel brano, Swift si riferisce alle proprie relazioni romantiche, ma il suo fandom sa bene quanto lo stesso principio guidi praticamente ogni aspetto della sua vita pubblica.
Non c’è nessuno che sappia meglio di lei, come canta sempre in Mastermind, che «if you fail to plan, you plan to fail» (se non fai programmi, il tuo programma è fallire), né ha rivali nell’orchestrare e mettere in pratica tali piani di dominazione del mondo (musicale). D’altronde, come ha raccontato a GQ qualche anno fa, se non fosse diventata una delle cantautrici più famose del mondo adesso starebbe probabilmente lavorando nel marketing; il segreto del suo successo sta probabilmente tutto in questo fun fact.
Non è un caso, insomma, che “macchina capitalista” sia uno dei suoi soprannomi insieme a “music industry” - anche perché, a ben vedere, sono sinonimi.
Taylor Swift ha un talento innegabile sia per l'engagement dei fan sia per lo storytelling - parole che, ancora una volta, sono state fagocitate dal mondo del marketing - e questo traspare tanto dalla sua musica quanto dal modo in cui ha deciso di mostrarsi pubblicamente. La storia che ha costruito a ogni passo della propria carriera è un percorso di caratterizzazione degno delle migliori writers’ room: a un livello superficiale siamo davanti all’ascesa al successo della piccola outsider con il più classico dei sogni americani, ma a un livello leggermente più profondo c’è quello di una ragazza (e poi donna) che impara ad affrancarsi dalle aspettative altrui per trovare la sua voce. Un vero e proprio viaggio dell’eroe diviso in tappe, o piuttosto “ere”, tutte esteticamente definite e perfino catalogate per colore, in cui il suo pubblico può riconoscersi facilmente nonostante la vita di chi ascolta Taylor Swift sia in media lontana anni luce da quella che lei stessa effettivamente vive (e di cui non sappiamo nulla, se non che è puntellata da fin troppi viaggi in jet privato).
Come tutte le migliori operazioni commerciali, però, niente di tutto questo funzionerebbe davvero se sotto la patina di strategie di marketing non ci fosse anche qualcosa in grado di parlare dritto, e bene, ai bisogni e desideri del pubblico a cui è destinata. Il successo di Swift sarà anche dovuto a una formula, ma è una formula elaborata con cura nel suo laboratorio personale, non la semplice copia di quelle già scritte da qualcun altro.
Se a questo proposito vi è venuta in mente la contrapposizione tra gli universi cinematografici di Marvel e DC, beh, è comprensibile. Anche perché, quando si tratta della produzione di Taylor Swift, sembra davvero di trovarsi davanti a un grosso universo meta-narrativo, in cui album e canzoni del presente rimandano a quelle del passato in maniera più o meno scoperta, e in cui la ricerca di riferimenti e easter egg è parte del divertimento (e spesso del processo stesso di interpretazione e comprensione dell’opera).
Un fatto che è tanto affascinante quanto preoccupante, soprattutto quando si iniziano ad affrontare con la lente della gamification anche questioni di rilevanza sociale e politica, quali l’identità romantico/sessuale delle persone e più in generale i diritti civili.
Miss Americana, il documentario di Netflix dedicato al percorso che ha portato la cantante a rinunciare alla sua presunta neutralità in termini politici e esporsi in favore delle istanze della sinistra democratica statunitense e dei diritti delle persone queer, sembrava voler essere il trampolino di lancio per una nuova era di attivismo politico, ma questo afflato rivoluzionario si è tradotto soltanto in un po’ di scontato pink washing. Ripulito dei suoi aspetti più insopportabilmente propagandistici e vuoti, il racconto offre comunque l’occasione di parlare di disparità di genere e fragilità femminile con una certa dose di ironia e spunti per guardarsi dentro, come del resto gran parte della discografia swiftiana più recente. Ma non basta.
Taylor Swift, infatti, non rischia mai, niente.
Facciamo qualche esempio.
Da diversi anni si parla, non soltanto nei meandri di Reddit, della possibilità che la cantante sia queer e che abbia avuto relazioni con delle donne, fatto da lei mai realmente smentito. Anzi, il suo utilizzo di simboli e immaginari queer si è moltiplicato nel corso del tempo. Se è vero che, nonostante sia un personaggio pubblico, non debba a nessuno alcun genere di coming out, continuare a sfruttare temi queer cercando contemporaneamente di annacquarli all’interno di una narrazione etero mainstream in modo da dare un colpo al cerchio e uno alla botte è decisamente disonesto dal punto di vista intellettuale. E ciononostante il fandom, diviso in gaylor e hetlor (a seconda, appunto, degli orientamenti presunti di Swift), continua a farsi la guerra a suon di contenuti che sono tutta pubblicità gratuita, senza che lei si assuma alcuna responsabilità o intervenga per condannare gli episodi di omofobia che purtroppo si verificano (e di cui è perfettamente consapevole).
Ancora, presentarsi come femminista e attivista politica di sinistra per poi collaborare (per il film Amsterdam, in questi giorni in sala) con un regista accusato di abusi sessuali come David O. Russell; partecipare alla colonna sonora dell’adattamento del libro La ragazza della palude, la cui autrice si trova al centro di un processo per omicidio in Africa; usare un immaginario grassofobico per uno dei suoi ultimi video, Anti-Hero; raggiungere il primo posto nella lista delle celebrità che più inquinano con i loro jet privati… non è esattamente coerente ma neanche mai davvero punito.
Swift, alla fine, cade sempre in piedi. A rallentarla è stato soltanto lo scandalo della telefonata con Kanye West, nell’ormai lontanissimo 2016, quando il rapper e la moglie Kim Kardashian la accusarono di essersi comportata da "serpe" avviando una shitstorm che la costrinse a chiudere i suoi account social, perché a quanto pare l’unico peccato che non si può perdonare a una donna bianca di successo è non essere l’adorabile e innocente bambolina che tutti credevano di conoscere.
Questo, però, dice forse più della celebrity culture che di Taylor Swift nello specifico, e in fondo è proprio il modo in cui si muove all’interno dello star system, piegandosi e allo stesso tempo ribellandosi alle sue regole, a renderla un personaggio da tenere d’occhio e un’artista così interessante. Nel suo essere così inarrestabile e contemporaneamente insicura, capace di mostrare apertamente la propria fragilità, le macchinazioni, il desiderio di vendetta unito al bisogno di essere amata esattamente com'è, è la voce perfetta del capitalismo dell’ultimo stadio. Creatività e omologazione, ribellione e rassegnazione convivono e “producono” insieme, nella tragedia di una generazione che ancora non riesce a liberarsi dei suoi miti. In questo caso: la personificazione del sogno americano bianco, ricco e perfino biondo, che ci ha mentito per decenni ma che, sotto sotto, un po’ si odia - e ha capito, soprattutto, che noi lo (e ci) odiamo ancora di più. FRANCESCA ANELLI
Un altro sguardo sul complesso universo Taylor Swift e sulla sua attenta costruzione di un’immagine pubblica e artistica lo offre il film-concerto folklore: the long pond studio sessions, disponibile su Disney+. Vi riproponiamo la recensione pubblicata su Film Tv n. 50/2020.
Girlboss
Bastano i primi minuti di folklore: the long pond studio sessions per capire perché Taylor Swift abbia scelto Disney+ come palcoscenico streaming per l’intimo concert film di cui è regista e che la vede eseguire in acustico le 17 tracce dell’omonimo concept album, accompagnata dai produttori Jack Antonoff e Aaron Dessner dei National. In una fiabesca location nel bosco della Hudson Valley, la fidanzatina d’America torna all’acqua & sapone dopo il trionfo bionico e aggressivo di Reputation, e celebra trasognata la magia della musica, del destino e dell’amore in ogni sua declinazione, restando dentro il bollino verde: di sesso non si parla e le già sparute imprecazioni (un paio di «fuck») contenute in qualche testo vengono saltate. Più principessa Disney di così... E Swift lo è nel senso più moderno: fra una melodia escapista e l’altra apostrofa criticamente i miti che è tempo di lasciarsi alle spalle, in primis quello della femmina folle e sfasciafamiglie, la mad woman disegnata così sempre da penne maschili (ma in betty la Nostra immagina un giovane uomo far ammenda). Un tema che si ripresenta nell’epopea americana in chiave femminista the last great american dynasty, tributo alla socialite Rebekah Harkness; un brano sontuoso che chiarisce perché lo storytelling di Swift venga sempre più insistentemente associato a quello del Boss (per “Vox” la cantante è «lo Springsteen dei millennial»), fra l’altro anch’egli recentemente protagonista di un riflessivo doc musicale cucito intorno al suo ultimo disco (vedi Film Tv n. 44/2020). C’è chi sostiene che folklore nasca dal desiderio di una nobilitazione autoriale o di un’affermazione di maturità; ma all’origine del progetto, dice lei, sta semplicemente la percezione di un’esigenza catartica collettiva: «Sentivo che avevamo tutti bisogno di farci un bel pianto». E sfidiamo chiunque a trattenere i lacrimoni nel duetto a distanza (il capolavoro exile) con Bon Iver. Ah, Taylor! Come direbbe il Jake Peralta di Brooklyn Nine-Nine, è proprio vero che non sbagli mai.
FIABA DI MARTINO
Al via il 3 novembre Europa - Cinema al femminile, rassegna ideata da Antonella Di Nocera, a ingresso libero, ogni giovedì, all’Institut français Le Grenoble di Napoli: tra i titoli in programma, Slalom di Charlene Favier, sugli abusi nel mondo dello sport, e Le favolose di Roberta Torre.
Il WCIP – Women Italian Cinema an Inclusive Project raggiunge Buenos Aires: il progetto internazionale di promozione del cinema italiano scritto, prodotto e diretto da donne, ideato da Angela Prudenzi e Federico Spoletti, approda nella capitale argentina il 2 e 3 novembre, con la proiezione di film (tra cui Faith di Valentina Pedicini e Corpo a corpo di Maria Iovine) e panel dedicati alla parità di genere e all’accessibilità all’industria.
Su Film Tv n. 42/2022 vi abbiamo parlato di Martine Syms, artista concettuale e regista del lisergico The African Desperate, fulminante racconto di formazione di una donna afroamericana nell’elitario mondo accademico: ora, su MUBI, sono disponibili anche due suoi cortometraggi, Soliloquy e She Mad: Bitch Zone.