Singolare, femminile ♀ #066: La sostanza del mito
A 60 anni dalla morte, le molte vite di Marilyn Monroe non sembrano esaurirsi: al centro del controverso Blonde, su Netflix, è ormai canonizzata come archetipo multiplo, simbolo, talvolta equivalente stesso del cinema. Per paradosso, sono proprio la sua carriera sullo schermo e le sue qualità d’attrice a passare spesso in secondo piano: proviamo a rimediare.
Non stupisce l’identificazione tra persona e personaggio, quando si parla di Marilyn Monroe, e per motivi che vanno oltre il tradizionale sistema divistico della vecchia Hollywood, da sempre impegnato a costruire icone su quello che oggi chiameremmo typecasting. Sì, Monroe incarna, sullo schermo e nell’immaginario collettivo, uno specifico stereotipo, quello della dumb blonde, riassumendo in sé (e forse anche originando) tutte le possibili battute, passate e future, sulle “bionde”, bellissime e desiderabili ma non troppo sveglie (o forse desiderabili proprio perché non troppo sveglie?). È una parte che le viene assegnata spesso fin dalle prime piccole apparizioni – una delle più celebri è quella in Eva contro Eva, in cui è una giovane aspirante attrice presentata dal suo accompagnatore come «laureata alla scuola d’arti drammatiche di Copacabana» – mentre comincia a crescere tra gli spettatori la sua fama di pin up, di bellezza prorompente, sintetizzata in un altro archetipo, quello della bombshell, lo “schianto”, l’irresistibile “sex symbol” – è lo stesso sceneggiatore Nunnally Johnson a raccontare che il suo ruolo di reginetta di bellezza in Il magnifico scherzo di Howard Hawks viene creato esclusivamente per mostrarla in costume da bagno.
La “fabbrica dei sogni”, si sa, è per l’appunto una “fabbrica”: come racconta anche la prima versione di È nata un stella, essere messi sotto contratto da uno studio – Monroe è assunta brevemente dalla 20th Century Fox, poi dalla Columbia, infine nuovamente, e in modo stabile, dalla Fox – significa sottoporsi a un vero e proprio “rimodellamento”, come si fosse una scultura di carne. Colore dei capelli, pettinatura, trucco, ma anche qualche intervento chirurgico, e poi lezioni base di recitazione, canto e ballo: l’ex modella Norma Jeane Baker si guadagna così un nuovo nome, una voluttuosa allitterazione nella doppia iniziale, la chioma platino e anche uno stile di comunicazione allusivo e ironico, che affinerà lei stessa, anno dopo anno, nelle interazioni con la stampa, nelle scelte degli outfit, nelle rivelazioni personali. L’idea – sottolineata anche nel recentissimo Blonde di Andrew Dominik, e negli anni riproposta talmente tante volte da suonare quasi ovvia – che Norma Jeane stesse interpretando Marilyn, dentro e soprattutto fuori dal set, in ogni apparizione pubblica, non è infondata, ma per molti aspetti era appunto lo standard su cui si costruiva il divismo hollywoodiano dell’epoca.
Ma se la sovrapposizione tra l’attrice Monroe e i suoi personaggi ci sembra tanto inestricabile è soprattutto perché gran parte della sua filmografia è attraversata da un filo metacinematografico, soprattutto da quando esplode il suo successo. Tanto per cominciare, in quasi tutti i suoi ruoli principali interpreta una performer: nel suo primo film da protagonista, il B movie Orchidea bionda, è una lady of the chorus (come da titolo originale), una ballerina di varietà che deve superare gli ostacoli di classe sociale per coronare l’amore con un ragazzo di buona famiglia. In Gli uomini preferiscono le bionde di Howard Hawks, il titolo che la proietterà tra le stelle del firmamento hollywoodiano e che probabilmente crea e fissa l’archetipo Marilyn, è una showgirl che si esibisce in coppia con Jane Russell. In Come sposare un milionario è un’indossatrice. Nel western La magnifica preda di Otto Preminger è una cantante di saloon, in Follie dell’anno una stella del vaudeville, in Quando la moglie è in vacanza un’aspirante attrice che spera di esser presa per una pubblicità del dentifricio. In Il principe e la ballerina di Laurence Olivier è la ballerina del titolo (“showgirl” in originale), in Fermata d’autobus di Joshua Logan sogna la California esibendosi in un discutibile night club dell’Arizona. In A qualcuno piace caldo di Billy Wilder «suona l’ukulele, e canta anche», in Facciamo l’amore di George Cukor è, ancora una volta, ballerina e cantante in una compagnia teatrale Off-Broadway. In Gli spostati di John Huston, il suo ultimo film completato e distribuito, e probabilmente il più “meta” di tutti, è una ex danzatrice. (È invece una fotografa in Something’s Got to Give, il suo ultimo lavoro mai completato, che infatti, a vederne i pochi frammenti filmati, sembra preludere a un vero punto di svolta nella sua carriera: il fatto che sia stata licenziata dal set e meno di due mesi dopo sia morta spezza ancor più il cuore).
Indipendentemente dall’ambientazione, dal periodo storico, dal genere – il vecchio West o la Florida del proibizionismo, la Londra d’inizio secolo o il Greenwich Village degli anni 50, il western, il gangster movie, la rom com, il musical –, Marilyn Monroe è a prescindere una presenza “eccezionale”, fuori dall’ordinario, così evidentemente “diversa” dalle persone qualunque, al punto che l’unico luogo, o quasi, in cui diventa possibile contestualizzarla è sopra un palcoscenico, sotto i riflettori. Come se la dimensione della performance, l’offerta di sé allo sguardo altrui fosse l’unica in cui le è possibile esistere. Che poi, riprendendo Nunnally Johnson, è anche una scusa per svestirla, ma pure per esibire i suoi molteplici talenti nella danza e nel canto: non è né una Cyd Charisse né una Judy Garland, certo, ma anche nelle esibizioni canore sa distillare un’unicità inconfondibile, via via staccandosi dal calco di Rita Hayworth su cui gli studios avevano cercato inizialmente di plasmarla, e spremendo dalla propria voce avvolgente e sussurrata il massimo dell’incanto seduttivo. Uno sguardo meno superficiale alle sue performance, poi, non può non individuarne le fondamentali differenze: se i numeri di Gli uomini preferiscono le bionde, di rutilante perfezione, appartengono direttamente – nonostante la giustificazione narrativa – allo spazio irreale ed escapista del musical (soprattutto il leggendario Diamonds Are a Girl’s Best Friends, diventato a sua volta una sorta di “ruolo” da indossare da future superstar, da Madonna a Nicole Kidman), in Fermata d’autobus Monroe dà l’interpretazione portentosa e verosimile di un’aspirante soubrette senza alcun talento, tra stonature e ingenuità che non sfociano mai nella caricatura ma solo in una commovente tenerezza.
L’enigma insolubile di Marilyn Monroe è stato ricollegato, dai suoi biografi più o meno fedeli e più o meno in buona fede, al dato autobiografico, a narrazioni ricorrenti riproposte di volta in volta con vari livelli di profondità: l’eterna bambina abbandonata dal padre mai conosciuto e dalla madre mentalmente instabile, la moglie infelice e la madre mancata, la bambola di carne sacrificata al tritacarne hollywoodiano, la doppia personalità schizofrenica lacerata tra Marilyn e Norma Jeane, tra la maschera indossata per il pubblico e la verità che vi si nasconde sotto (Blonde tenta di tenere insieme tutte queste derivazioni del mito, e forse il suo tentativo più interessante sta nell’evocare una storia di possessioni e di fantasmi, anche riprendendo la protagonista Ana de Armas da una prospettiva insieme esterna e vicinissima, come se fosse sempre Norma Jeane ad assediare Marilyn col proprio sguardo, o viceversa). Ma l’origine del mistero Marilyn nasce sullo schermo, in una qualità evidente ma imprendibile, pressoché impossibile da circoscrivere a parole: forse il mito Monroe s’è impresso tanto a fuoco nelle retine dell’immaginario collettivo attraverso la continua riproposizione, sempre più disincarnata e stilizzata, di una moltitudine d’immagini, ma è innegabile che, ogni volta che l’attrice viene catturata da una camera, succeda qualcosa di miracoloso e inspiegabile, una scintilla puramente cinematografica che va oltre ogni teoria sulla fotogenia. Basta pensare ad altri due tra i suoi primi ruoli, che ne cementificano il successo ma ancora non la “maschera” pubblica: La tua bocca brucia (Don’t Bother to Knock) e Niagara, un thriller psicologico e un noir, generi lontani dalle commedie romantiche che riempiranno successivamente la maggioranza della sua carriera.
In La tua bocca brucia Monroe interpreta una ragazza appena uscita da un istituto di salute mentale, devastata dal trauma della guerra e dalla perdita dell’innamorato nel conflitto: assunta per una sera come babysitter di una bimba in un grand hotel, ne approfitta per immaginarsi un’altra vita, indossando gli abiti, i gioielli, il profumo della donna per cui lavora. E la sequenza allo specchio in cui Nell si “trasforma” è quasi un momento di sospensione ammirata, in cui il primo piano del suo volto, dei suoi enormi occhi luminosi riempie lo schermo di luce.
In Niagara di Henry Hathaway è invece una classica femme fatale (ruolo che veste alla perfezione tanto quanto quello della dumb blond, e che forse, un decennio o due prima, sarebbe diventato il suo automatico typecasting): è ricordata soprattutto per la sensualità quasi violenta che la sua sola apparizione – avvolta in un lenzuolo bianco, o fasciata in un vestito rosa per indossare il quale «una ragazza deve iniziare a far piani a 13 anni» – è in grado di emanare. Quando – canonicamente, da personaggio – muore, mancano ancora 20 minuti di film, una caccia all’uomo, un inseguimento, un gran finale tra le rapide delle cascate in cui l’eroina positiva del film rischia la morte: eppure lo schermo è come spento, opaco, senza luce.
Il successo di Gli uomini preferiscono le bionde consegna però Monroe al personaggio della bionda cacciatrice di dote, contemporaneamente bambinesco e malizioso, ingenuo e “manipolatore”, immediatamente ripreso in Come sposare un milionario, e con piccole o grandi variazioni numerose altre volte in carriera (anche in Il principe e la ballerina, A qualcuno piace caldo e Facciamo l’amore è una giovane bellissima e spiantata che “scala” il cuore di uomini ricchissimi e di potere – anche se nel film di Wilder l’uomo in questione è in realtà una sorta di suo doppio, ugualmente spiantato e impegnato in una recita di seduzione). Alla base della reputazione di Marilyn Monroe come attrice “non seria” quando non direttamente “scarsa”, come “modella senza cervello” o pin up ingaggiata solo per essere inquadrata in abiti succinti, c’è anche un pregiudizio duro a morire – ne soffriva l’attrice stessa – nei confronti della commedia, particolarmente quella romantica. È nota l’insofferenza di Monroe per il genere in cui quasi sempre veniva incasellata, oltre che per i ruoli di bionda considerati limitanti (e certamente avvolti da un’aura persistente di misoginia). All’apice del successo, si prende diverse pause da Hollywood per studiare all’Actors Studio di New York, s’immerge nel Metodo determinata a perseguire finalmente “parti drammatiche” da “grande attrice” – e rinegoziando per sé un contratto estremamente vantaggioso, che oltre a un aumentato rientro economico, le garantisce di poter lavorare a un ritmo meno frenetico e di approvare i registi e i colleghi di cast, un contratto oggi considerato una delle prime picconate al granitico e fino ad allora inamovibile studio system (un fatto che, insieme alla fondazione di una propria casa di produzione, viene curiosamente ignorato da quasi tutte le sue biografie romanzate).
Il punto, però, è che Marilyn Monroe possiede un grande talento comico, capace di elevare straordinariamente il materiale che le viene affidato (e che la frequentazione dell’Actors Studio le consentirà di affinare ancor di più, aggiungendo sfumature nel modo di porgere le battute, di reagire ai partner di set, di affidarsi all’espressività del volto: la performance in A qualcuno piace caldo, nonostante le arcinote difficoltà dentro e fuori dal set, ne è la prova). In Come sposare un milionario, accanto a due colleghe strepitose come Lauren Bacall e Betty Grable (quest’ultima, peraltro, anche “collega di immaginario pin up”), Monroe ha il ruolo più comico, quello dell’indossatrice Pola, tremendamente miope ma decisa a non indossare gli occhiali perché convinta che rovinino la sua avvenenza. È una premessa che le consente di esercitare anche una comicità fisica e slapstick, che intraprende senza mai strafare, ancora una volta – come poi in Fermata d’autobus – senza precipitare nella macchietta o nella caricatura.
In Il principe e la ballerina – l’unico lavoro realizzato fuori dagli Stati Uniti, targato Marilyn Monroe Production – il suo talento per la commedia romantica è reso ancor più evidente dal confronto con un grande attore drammatico come Laurence Olivier, anche regista del film, e notoriamente molto “snob” nei confronti della sua partner, che considerava “solo una modella”. Il meccanismo comico del film – in cui Olivier interpreta il reggente di una piccola e immaginaria monarchia balcanica alla vigilia della Prima guerra mondiale, e Monroe una soubrette americana impiegata in un teatro del West End londinese – è costruito sull’attrito tra due opposti apparentemente inconciliabili, il serioso, pomposo e consumato uomo politico e la giovane, ingenua e allegra showgirl. Ma è Monroe a trovarsi splendidamente a proprio agio nel genere rom com, a “guidare” l’azione comica, a gestire il tempismo delle battute, quando Olivier – naturalmente impeccabile – raggiunge il risultato più per reazione, per contesto, per progressivo sgretolamento (quando non direttamente messa in ridicolo) del suo status di “grand’uomo tutto d’un pezzo”.
Si diceva all’inizio che gran parte della filmografia di Marilyn Monroe è attraversata da un rispecchiamento “meta” tra l’interprete e i suoi ruoli, in un percorso ideale che va da La tua bocca brucia a Gli spostati, passando naturalmente per le vette di Quando la moglie è in vacanza, in cui è “the girl”, l’archetipo biondo e senza nome della giovane sensualissima ma all’apparenza svampita che – citazione letterale dal film – «potrebbe essere Marilyn Monroe». In La tua bocca brucia, ruolo che l’attrice affronta nello scetticismo generale (persino la sua insegnante di recitazione dell’epoca era convinta che non fosse “ancora pronta”) vincendo ogni perplessità e resistenza, è quasi impossibile non leggere – che ci siano oppure no – echi della sua infanzia dominata da una madre instabile («hai dato la luce a te stessa» sottolinea una delle didascaliche battute di Blonde). E in Gli spostati (The Misfits) di John Huston, su sceneggiatura scritta e riscritta dal terzo marito Arthur Miller e realizzato nel pieno del loro divorzio, i piani si confondono fino a scomparire. In un nuovo ruolo drammatico, così disperatamente atteso e perseguito, Marilyn è Roslyn (pure il nome è assonante), una ex ballerina temporaneamente trasferitasi a Reno, nel Nevada, dove si può ottenere facilmente un divorzio dopo una residenza di almeno sei settimane. Non c’è nessuna performance sul palcoscenico, qui, ma in una sequenza di grande portata simbolica si scorgono, appese all’interno dell’anta di un armadio, riconoscibilissime foto della Marilyn dei primi anni 50, potremmo dire del “periodo pin up” o, ancora una volta, “dumb blonde”. Guido, il personaggio interpretato da Eli Wallach, vorrebbe guardarle con attenzione, ma Roslyn chiude ripetutamente l’anta, allontanandole dalla vista, ricacciandole nel passato, e derubricandole a «uno scherzo di Gay».
Gli spostati è un’opera terminale, e ancora una volta diventa impossibile scindere il film dal suo contesto e dalla sua storia: ultima interpretazione sia di Monroe sia di Clark Gable (la star preferita di Norma Jeane bambina, appositamente da lei scelta perché «era così che m’immaginavo mio padre»), e uno degli ultimi lavori di Montgomery Clift, che in una battuta fa riferimento diretto al terribile incidente che qualche anno prima gli aveva modificato i connotati, ebbe una lavorazione travagliata, segnata dal caldo insopportabile del deserto, difficoltosissima per una Monroe oppressa dall’esaurimento nervoso e dalla depressione, dai dolori dell’endometriosi e dalla fine del matrimonio con Miller, scrutinata ossessivamente dai tabloid e dalla stampa (molto interessati ai suoi ritardi sul set e alla sua settimana d’ospedalizzazione, ma silenti sulle ore passate da Huston al tavolo da gioco e sui debiti da lui accumulati che portarono la produzione sull’orlo della bancarotta). Monroe, Gable, Clift, Wallace (ma anche la grande Thelma Ritter, in un altro dei suoi straordinari ruoli da non protagonista) sono i relitti acciaccati di un mondo in dissoluzione, di uno showbusiness, qui esemplificato dallo sfruttamento operato dal circuito dei rodeo, che risucchia, illude, consuma e abbandona. Sono, evidentemente, i cavalli, bellissimi e selvaggi, presi al lazo, addomesticati con violenza, e l’urlo d’insopportabile disperazione in cui esplode Roslyn/Marilyn nella scena apicale (per quanto l’attrice stessa avesse poi dichiarato di detestare la sua interpretazione) sembra bruciare di un senso d’angoscia, urgenza e impotenza accumulato in anni e anni di carriera.
Nonostante tradizionalmente associati al divismo della Hollywood degli anni d’oro, il mistero e l’ambivalenza di Marilyn Monroe stanno anche nel suo essere stata una figura di passaggio, un punto di svolta, un crocevia della Storia: la sua sessualità debordante, refrattaria a qualsiasi costrizione, capace di colare dallo schermo negli occhi degli spettatori, ha spalancato le porte alla liberazione sessuale incipiente; la sua icona di desiderabilità, edificata con pervicacia e ottusità per compiacere il male gaze, si è rivelata ben più potente, illuminando per sempre lo schermo come fantasia universale (e il fandom di Marilyn Monroe, significativamente, è diventato nel tempo molto più femminile che maschile); e nel suo lavoro d’attrice, costantemente affinato insieme alla coach Natasha Lytess prima, e a Paula e Lee Strasberg dopo, l’ha resa un unicum attoriale, all’incrocio tra la tradizionale impostazione hollywoodiana e l’invasione del Metodo, di una recitazione più nervosa e realistica. Sommando in lei la forma stessa del Mito di celluloide e un’autenticità carnale, elettrica e ineludibile; fatta della stessa sostanza dei sogni, e di una verità che, ancora oggi, riluce e fa male. ALICE CUCCHETTI
Negli anni Film Tv ha dedicato a Marilyn Monroe moltissimi articoli, Lost Highway e Locandine, e un corposo speciale nel 2012, per i 50 anni dalla morte, anche ripubblicato nell’Annuario di quell’anno. Vi riproponiamo però qui il primo numero della rubrica Corpo a cuore, dedicata alle performance attoriali, e che non poteva non cominciare, appunto, che con Marilyn Monroe.
Fermata d’autobus
Il cowboy Bo, giovane e irruento, s’innamora di Chérie, cantante in una bettola: che lei lo voglia o no, dovrà sposarlo. Quale modo migliore per inaugurare una rubrica dedicata ai corpi attoriali, al loro peso specifico nell'immaginario e alla loro capacità di fare cinema, che con Marilyn Monroe? Corpo iconico per eccellenza, infinitamente replicato ed eternato, Marilyn per buona parte della sua carriera lottò con vivida intelligenza d’attrice proprio contro il limite imposto dalla sua divina fisicità. Di ritorno sul set dopo un anno di autoesilio, al suo fianco nelle riprese di Fermata d’autobus c’era Paula Strasberg, a indirizzarla verso un Metodo che Monroe fondava proprio nel corpo: per dar vita a Chérie, starlette senza talento sciupata dalla vita e dagli uomini, si coprì di cerone bianco, spense la luce di incarnato e chioma, scelse personalmente gli abiti squallidi di cui vestirsi e usò la sua verve comica per vestire di goffaggine le sue movenze. Il tutto con la complicità del regista Joshua Logan, che le diede fiducia («recitando faceva accadere cose affascinanti alla sua faccia, alla pelle, ai capelli, al corpo») e la affrancò dalla sua inibente sensualità piegando il CinemaScope (ancora “nuovo” e poco indicato ai primi piani, che rischiava di deformare) a misura del suo volto. Portando alla luce una fragilità terragna, tutt’altro che divina, che pare di percepire con tutti e cinque i sensi: di Chérie, della sua pelle troppo truccata, troppo toccata, sentiamo l’afrore. L’odore («non il profumo, bensì l’odore, qualcosa tra lo zolfo e una capretta di latte», Goffredo Parise) di una diva che tentava di far passare il cinema dalla sua carne, non solo dalla sua immagine.
ILARIA FEOLE
Per approfondire l’aspetto “meta” di Gli spostati, l’ultimo film completato da Marilyn Monroe, vi consigliamo questo interessante video della youtuber Be Kind Rewind. [in inglese]
Continuano le proteste in Iran dopo l’uccisione di Mahsa Amini, arrestata per non aver indossato correttamente il velo. Sono molti gli artisti, anche cinematografici, che hanno lanciato appelli a favore delle donne iraniane, e che per questo già subiscono minacce dal regime. Sul sito di Amnesty International un elenco delle manifestazioni cui è possibile partecipare in Italia.
Halloween si avvicina: a sorpresa è arrivato in sala, la scorsa settimana, Mona Lisa and the Blood Moon di Ana Lily Amirpour, presentato in Concorso a Venezia 2021, mentre dall’11 ottobre, sul canale IWONDERFULL di Prime Video sarà finalmente disponibile l’inedito She Dies Tomorrow di Amy Seimetz.