Singolare, femminile ♀ #065: La rivincita degli incel
Sta facendo ottimi incassi, in America ma pure da noi, l'opera seconda dell'attrice e regista Olivia Wilde, Don't Worry Darling, presentata a Venezia fuori concorso, tra recensioni tiepide e folle esultanti per il divo Harry Styles: una distopia che guarda al cinema del passato per delineare un incubo patriarcale decisamente attuale.
Costato 35 milioni di dollari, Don't Worry Darling nel primo weekend di uscita in sala li ha già quasi recuperati: 30 milioni di incasso globale, di cui 19 negli Stati Uniti, e perfino in Italia si è dimostrato un buon successo, piazzandosi appena sotto la riedizione di Avatar e totalizzando oltre un milione di euro nei primi giorni di programmazione. Il successo era forse annunciato, anche se non dai critici: con un cast stellare, capitanato dalla sempre più lanciata (e sempre più brava) Florence Pugh e dal divo della pop music Harry Styles, un'ambientazione coloratissima e patinata da sobborghi americani anni 50 e la promessa di un thriller distopico, il film aveva già le carte in regola per attirare il pubblico, sicuramente incuriosito anche dalla pletora di gossip che ha vorticato negli ultimi mesi intorno al prodotto. Don't Worry Darling è l'opera seconda di Olivia Wilde, attrice newyorkese nota soprattutto per le sue partecipazioni alle serie The O.C. e Dr. House, che nel 2019 aveva debuttato dietro la macchina da presa con la brillante commedia teen La rivincita delle sfigate, un bel coming of age al femminile che omaggiava il ricco filone americano sulle disavventure dei liceali meno popolari ma movimentandolo con uno sguardo femminista e inclusivo. Molto più ambizioso il suo secondo lungometraggio, presentato Fuori concorso a Venezia 2022, a partire dagli elementi distopici che contiene, fino alle maestranze di lusso, dalla fotografia lussureggiante del grande Matthew Libatique (il direttore della fotografia di fiducia di Darren Aronofsky, per intenderci) ai costumi sgargianti di Arianne Phillips, premiata proprio a Venezia col Campari Passion for Film Award e autrice dei costumi memorabili di A Single Man e C'era una volta a... Hollywood, per un racconto che nella messa in scena curatissima cita a piene mani classici della fantascienza anni 70 come L'uomo che fuggì dal futuro di George Lucas e La fabbrica delle mogli di Bryan Forbes.
Il chiacchiericcio sviluppatosi intorno al film ha raggiunto livelli talvolta demenziali (uno degli ultimi capitoli è stato il cosiddetto SpitGate, ovvero l'insinuazione che Harry Styles, prima della première in Sala Grande a Venezia, avesse sputato addosso al coprotagonista Chris Pine: da parte dei fan si è scatenato un livello di analisi dei fotogrammi della scena degno dei filmini sulla morte di JFK), a partire da fatti tutto sommato all'ordine del giorno per l'industria hollywoodiana: Styles ha sostituito in corso d'opera Shia LaBeouf, e poco dopo Olivia Wilde e Styles sono usciti allo scoperto come coppia ufficiale, in un susseguirsi di paparazzate e sensazionalismi che ha coinvolto anche l'ex marito di Wilde, Jason Sudeikis (la star di Ted Lasso). Tutto questo, ai fini dell'analisi del film, ci interessa assai poco, ma un po' sì: quello di Wilde è un film femminista, in modo smaccato e talvolta didascalico, che punta il dito contro il sessismo sistemico subito dalle donne, e ci pare allora tristemente coerente che la regista sia stata tanto sovraesposta sul fronte scandalistico, ricevendo un trattamento che un collega maschio probabilmente avrebbe subito in quantità e modalità più leggere. Di registi uomini che allacciano relazioni con le proprie, molto più giovani, star donne è piena la storia e l'attualità del cinema, al punto che lo si dà quasi per scontato (e magari si attribuisce alla giovane attrice la volontà di far carriera), mentre a parti invertite la storia di Wilde e Styles è diventata quasi più giornalisticamente rilevante del film stesso. Che poi il vortice di news e illazioni abbia portato più persone al cinema, spinte dalla curiosità, è difficilmente provabile quanto altamente probabile, ma chi scrive diffida della teoria secondo cui tutto ciò sarebbe stato architettato con fini pubblicitari.
Di cosa parla, dunque, Don't Worry Darling? Quella messa in scena nel film è una fantasia utopistica e sessista dove affiorano pian piano venature distopiche: in un piccolo villaggio nel mezzo del deserto del Mojave, negli anni 50, ogni bella villetta è abitata da una coppia felicemente sposata, possibilmente con uno o due pargoli, dove mogli dal trucco curato e dalle unghie laccate salutano ogni mattina i propri mariti per poi accoglierli la sera al ritorno dal lavoro con ampi sorrisi, cene in forno e cocktail già versati. Dove concretamente vadano, questi mariti, per tutto il giorno, le mogli non lo sanno: il villaggio è un'enclave chiusa destinata alle famiglie i cui uomini lavorano al misterioso Victory Project, un fumoso progetto in odore di Guerra fredda di cui niente può essere rivelato, e alle donne è caldamente consigliato non impicciarsi e non fare domande. D'altronde, hanno i loro passatempi, lo shopping quotidiano, le chiacchiere femminili a bordo piscina, la cura della casa... Un quadretto di famiglie tradizionali stucchevolmente perfetto e patinato, scandito da cocktail e cene dove le mogli sono tenute a competere in eleganza e bravura nell'economia domestica, mentre gli uomini discutono di promozioni e del carisma del loro boss, Frank, personaggio temuto e rispettato nonché ideatore del Victory Project.
Da questo punto in poi consigliamo a chi non l'avesse ancora visto e non amasse gli spoiler di smettere di leggere: il film contiene diversi colpi di scena che è necessario rivelare per analizzarne il sottotesto.
In realtà, la stessa Wilde ha rivelato la natura ingannevole dell'ambientazione del film citando da subito come fonti di ispirazione titoli come Matrix, The Truman Show e Inception (tutte citazioni invero smaccate e piuttosto scoperte, che rendono il film a tratti fortemente derivativo), lasciando quindi intendere che quel mondo colorato e idilliaco non è che una messa in scena. E, nella fattispecie, una messa in scena frutto di una fantasia maschile deviata e inquietante, fantascientifica ma radicata nel nostro tessuto culturale. Frank, interpretato da Chris Pine, è infatti ispirato per stessa ammissione della regista all'intellettuale canadese Jordan Peterson, psicologo e accademico dal vasto seguito convinto, tra le altre cose, che il politicamente corretto stia distruggendo il mondo, che l'ascesa dell'estrema destra sia dovuta alla reazione a una eccessiva femminilizzazione del maschio e che storicamente le donne incarnino la forza del caos, laddove gli uomini sono i depositari della cultura. Stiamo ovviamente semplificando molto, così come ha semplificato Olivia Wilde quando ha descritto Peterson, in un'intervista con Maggie Gyllenhaal, un «eroe della comunità incel», suscitando polemiche da parte dei sostenitori dello psicologo. Con incel, ovvero la crasi di involuntary celibate, si indica una subcultura nata online che teorizza il vantaggio sessuale delle donne e la loro naturale tendenza ad accoppiarsi solo con uomini di aspetto piacente (e/o dotati di soldi e di status sociale elevato), rendendo impossibile per i maschi che non corrispondono a un certo canone estetico e sociale il fatto di avere una vita sentimentale appagante. Da queste convinzioni derivano una serie di teorie fortemente misogine e spesso violente, sfociate negli scorsi anni in atti di vero e proprio terrorismo (ne sono esempi l'attentato di Toronto del 2020 e la sparatoria di Plymouth del 2021). Peterson non è tecnicamente un guru degli incel, ma le sue teorie sulla diversità congenita tra maschi e femmine hanno molto a che vedere con quel mondo, e suona sinistramente ironica la battuta con cui ha liquidato Wilde, ringraziandola perché «almeno il personaggio di Chris Pine è di bell'aspetto».
Dopo una serie di segnali, rivelazioni e scoperte progressivamente perturbanti, l'Alice di Olivia Wilde precipita quindi fuori dal Paese delle meraviglie incel scoprendo che il Victory Project altro non è che una simulazione di realtà virtuale, cui ci si collega proprio come in Matrix, creata nel mondo reale da Frank/Chris Pine per realizzare i sogni di tutti quegli uomini che si sentano rifiutati perché poco attraenti, poco carismatici, poco professionalmente riconosciuti: iscrivendosi alla simulazione, questi uomini possono invece creare un alter ego di maggior successo, e soprattutto portare con sé, senza il suo consenso, la donna che desiderano. Ignare di essere sostanzialmente prigioniere, le donne languono nella vita reale legate a un letto mentre nel Victory Project conducono le loro ordinate e luminose esistenze al fianco dei mariti: una fantasia incel in piena regola, dove le (presunte) scarse qualità del maschio vengono neutralizzate da una dimensione parallela che rimette "in ordine" le cose secondo un rassicurante conservatorismo. Donne sottomesse ma felici: a patto che non chiedano mai cosa succede. Cullate da un'esistenza di privilegio e di routine, di reciproca devozione coniugale e di pacifica non conflittualità che, Alice se ne accorge anche quando scopre la verità, hanno indubbiamente i loro vantaggi. Proprio come nel citatissimo Matrix («se si muore nel Victory Project, si muore anche nella vita vera»), infatti, la simulazione è confortante e confortevole, priva di attriti, allettante: in questo senso, il migliore lavoro svolto da Wilde e dalla sua sceneggiatrice Katie Silberman (già autrice, con Non è romantico?, di una fantasia vischiosa, fasulla eppure tentatrice per la donna, quella di vivere in una rom com) è nel delineare la complicità e la connivenza di alcuni personaggi femminili con gli uomini. Olivia Wilde se ne ritaglia uno per sé, quello di Bunny, moglie e madre modello ma anche anima della festa, ironica e sexy, che perfino quando scopre la verità sceglie di non rivelarla e di accomodarsi nella sua esistenza di casalinga. L'accettazione di un ruolo inamovibile è per certi versi una gabbia dorata, una monogamia coatta e sessualmente appagante (Wilde gira numerose scene erotiche con Florence Pugh e Harry Styles, focalizzate sul piacere femminile), dove la mancanza di stress, di pressioni, di dubbi risulta troppo bella - letteralmente - per essere vera.
Qualcosa di simile, ma ancor più inebriante, vive il personaggio chiave di Shelley, interpretata da Gemma Chan, la consorte del grande capo Frank, in un tipico ruolo ancillare che fa di lei l'emblema del patriarcato interiorizzato: sa benissimo cosa sta succedendo alle altre donne, ma - salvo pentirsene in extremis - è affascinata e succube del potere del proprio compagno, si sente una prescelta per il fatto di stare al suo fianco, e sceglie di chiudere gli occhi sui diritti calpestati per godersi il proprio privilegio. Tipologie femminili assolutamente realistiche e scritte con grande cura, che rendono Don't Worry Darling, al di là del suo impianto sci-fi ultra citazionista, una tappa importante del cinema femminista post #MeToo, la cui luce sinistra illumina angoli precisi del nostro presente. ILARIA FEOLE
Vi riproponiamo la recensione dell’opera prima di Olivia Wilde, La rivincita delle sfigate (in originale suona meglio: Booksmart), pubblicata su Film Tv n. 34/2019.
La rivincita delle sfigate
Molly e Amy sono due amiche inseparabili e due prime della classe, convinte di essere migliori di chiunque altro. Ma all’ultimo giorno del liceo si rendono conto di aver perso per strada molte esperienze: resta solo una notte per rimediare. Soffermarsi sul titolo italiano, inconcepibile e autolesionista, può servire solo per uno sfogo belluino, che purtroppo non è destinato a cambiare le cose. Meglio dimenticarlo e concentrarsi su un film che rischia di passare inosservato. E sarebbe un peccato grave. Perché chi è anche minimamente interessato alla commedia adolescenziale americana non può prescindere dal debutto di Olivia Wilde. L’attrice e ora regista prende uno degli stereotipi teen più vetusti - la notte in cui tutto deve accadere prima di crescere - e lo rivolta come un calzino. Non tanto e non solo per la prospettiva “al femminile”, che richiama cult come Suxbad - Tre menti sopra il pelo e La vita è un sogno e li ricontestualizza - prendendo le battute scurrili ma ficcanti del primo e il filosofeggiare assorto del secondo -, ma perché è un’intera concezione della scuola (di vita) a cedere il passo. L’epilogo di Animal House, con gli ultimi che diventano i primi, è ribaltato e svuotato di senso, in quanto anch’esso frutto del desiderio individualista e competitivo di primeggiare, tipico del Sogno americano. Molly e Amy, le antieroine, hanno un’ultima occasione per capire e per redimersi. Perché il nemico da abbattere non sono più gli adulti - goffi e inadeguati, ma tutto sommato innocui - bensì quello riflesso dallo specchio, con cui fare i conti è più doloroso.
EMANUELE SACCHI
Un nuovo festival di cinema e arti visive dedicato allo sguardo delle donne, a Torino: è Contemporanea International Film Festival, dal 4 al 9 ottobre, e proporrà cinema, videoarte e incontri per mappare i cambiamenti dell’immaginario legato all’universo femminile. Si parte martedì 4/10 con l'omaggio a Monica Vitti e la proiezione di Deserto rosso.
Torna il Premio Afrodite destinato alle donne nell'audiovisivo, nel Parco Regionale Riviera di Riviera d'Ulisse (Gaeta), dal 30 settembre al 2 ottobre. Tra le premiate, Margherita Buy, Laura Delli Colli, Matilde Gioli, Aurora Giovinazzo, Ilenia Pastorelli e Maria Sole Tognazzi.
Creato e diretto da Elisabetta Sgarbi, parte il 29 settembre (fino al 2 ottobre) ad Ascoli Piceno la prima edizione di Linus - Festival del fumetto, che celebra il centenario del mitico Charles M. Schulz, il babbo dei Peanuts.