Singolare, femminile ♀ #058: She Got Game
Gli Europei d’Inghilterra sono iniziati più che mai in salita per le azzurre, ma non offuscano comunque il momento storico: finalmente le calciatrici italiane di serie A sono diventate sportive professioniste, iniziando a colmare le discriminazioni che caratterizzano lo sport femminile in Italia. Ne parliamo con la scrittrice Elena Marinelli, autrice del podcast Goleadora.
Dal 1° luglio, e dunque dalla prossima stagione sportiva, le calciatrici italiane che giocano in serie A sono atlete professioniste, e non più amatoriali, come finora è stato per ogni donna che pratica sport, a qualsiasi livello, nel nostro paese. La FIGC è la prima federazione italiana a recepire la possibilità del professionismo femminile, introdotta da un emendamento alla legge di bilancio nel 2020, e chiesta da anni, a gran voce, da atlete e giocatrici in tutto il paese: non solo per questioni di salario (il gender gap con il mondo maschile, in questo senso, resta abissale), ma soprattutto per ragioni di tutele, d’impegno, di qualità della vita e anche delle stesse competizioni. Un momento storico che ha anticipato di pochissimo gli Europei di calcio femminile 2022, iniziati il 6 luglio e in corso, in Inghilterra, fino a fine mese: proprio il percorso della nazionale italiana, che due anni fa gareggiò ai Mondiali arrivando fino ai quarti di finale, ha visto crescere l’interesse del pubblico generalista del nostro paese per i risultati delle calciatrici. Per saperne di più, abbiamo intervistato Elena Marinelli, una delle due autrici di Goleadora, podcast gemmato dalla newsletter Zarina, che da circa un anno segue settimanalmente il calcio femminile italiano (e sta seguendo, naturalmente, anche questi Europei). Marinelli è esperta di calcio e di tennis, scrive anche su L’Ultimo Uomo e Rivista Undici (il n. 45, appena uscito, è interamente dedicato allo sport femminile) e ha firmato la biografia Steffi Graf – Passione e perfezione per 66thand2nd (è anche una scrittrice di romanzi e racconti, e ha una newsletter personale: trovate tutto qui).
Volevo cominciare chiedendoti appunto di questi Europei, anche se la sconfitta decisamente bruciante (5-1!) contro la Francia di domenica scorsa ha forse un po’ smorzato l’entusiasmo…
Questi Europei arrivano in un momento importantissimo, in cui le calciatrici italiane che giocano in serie A sono finalmente diventate professioniste, la prima federazione femminile in Italia. Al di là della bravura delle singole, in Inghilterra si stanno confrontando con nazionali di paesi in cui i movimenti sportivi femminili sono molto più avanti rispetto al nostro, come preparazione, come investimenti, come strutture. Dunque affrontano un calcio più competitivo. In realtà la partita di domenica conferma proprio il concetto che il professionismo serve. Una nazionale come quella francese, che riesce a far giocare ragazze molto giovani, che hanno tra i 20 e i 22 anni ma sono già abituate a grandi partite, a grandi momenti di competizione sportiva, che sono dei fari del calcio europeo… riafferma proprio che il professionismo è fondamentale. Le francesi hanno iniziato prima e ora stanno avendo un sacco di risultati, e lo stesso vale per altre federazioni, come quella svedese e in generale quelle dei paesi scandinavi, la Spagna, l’Inghilterra stessa, che ospita la competizione e non è un caso: gli inglesi hanno fatto investimenti fondamentali e hanno tante squadre importanti. Poi, sì, è vero, la partita di domenica è stata una débâcle, ci aspettavamo di perdere, ma un po’ meno di quanto abbiamo effettivamente perso… Però, in fondo, al momento nulla è davvero compromesso, dobbiamo ancora giocare due partite e completare il girone. A differenza del Mondiale di due anni fa, questo Europeo è più difficile, perché la maggior parte delle nazionali che sono in vetta ai ranking della FIFA, a parte Usa e Australia, sono appunto europee, dunque il livello generale è altissimo. È una competizione che fa bene a tutto il movimento del calcio femminile perché è uno spettacolo splendido: se cerchi calcio ben giocato, appassionante, interessante, è questa l’occasione migliore per trovarlo. Sono convinta che la nostra nazionale non abbia detto ancora tutto quel che doveva in questo Europeo. Ed è comunque un buon momento per le azzurre, come già nei Mondiali del 2019, in cui tra l’altro c’era stata una contingenza simile all’attuale: la nazionale maschile non si era qualificata, quella femminile invece sì, e non solo, è arrivata tra le prime otto del mondo, un risultato eccezionale. Da lì è partita la mediatizzazione delle azzurre, e nel frattempo sono accadute molte altre cose: l’avvicinamento al professionismo arrivato negli scorsi giorni è frutto di anni di passaggi decisionali e di battaglie. Negli ultimi anni, poi, le squadre maschili hanno iniziato a investire nelle compagini femminili, e questo significa strutture e soldi, ma anche comunicazione, pubblicità, marketing. Quest’anno una squadra italiana, la Juventus, ha partecipato alla nuova formula della Champions League femminile, che da ora prevede una fase a gironi esattamente come succede per il torneo maschile, ed è arrivata agli ottavi, dove ha rischiato quasi di sconfiggere il Lione, che poi ha vinto la Coppa. Anche per questo le azzurre arrivano a questi Europei cariche di aspettative.
Con i Mondiali del 2019, che sono stati molto seguiti in tv, c’è stato secondo te un “salto” nell’immaginario collettivo? E questo ha influito sul raggiungimento del professionismo?
Ha dato un’accelerata, questo sì. Da un certo punto di vista è un’accelerazione che dimostra come il risultato sul campo, a torto o a ragione, legittimi il discorso sull’avanzamento professionale e sui diritti delle giocatrici. È come se il successo delle calciatrici avesse consentito loro di prendere finalmente parola. Non è una cosa molto sana, ma purtroppo succede spesso: solo quando ottieni un risultato ti puoi permettere di dire la tua. Ovviamente non dovrebbero essere le vittorie a concedere dei diritti! Ma è un fatto che il successo permetta di prendere parola, di dare una lettura degli eventi, di partecipare alla conversazione. Il percorso verso il professionismo, però, era iniziato prima, anche con gli investimenti delle squadre maschili di cui parlavo, che si vedono già da qualche anno. Il 2019 è stato il momento in cui il pubblico più mainstream si è accorto dell’esistenza del calcio femminile. A quella nazionale, in quei giorni, è stata riservata una copertura stampa che andava anche al di là delle partite, come accade quotidianamente con il calcio maschile. E quella copertura è stata fondamentale. Ha riempito un sacco di vuoti e, al di là del campo, ha fatto conoscere i personaggi. Poi al ritorno dal Mondiale, le azzurre sono state ricevute da Mattarella al Quirinale, quindi c’è stata anche un’istituzionalizzazione della squadra, se vogliamo. Tutto questo ha aumentato anche la consapevolezza collettiva: nessuno, forse, fino a quel momento, aveva riflettuto sul fatto che la nostra nazionale, che aveva perso solo contro l’Olanda (una delle più forti del mondo), era fatta formalmente di dilettanti.
Durante l’ultima stagione tv ci sono stati anche dei buoni ascolti delle partite di campionato trasmesse il sabato da La7. Spesso si fanno delle generalizzazioni sullo sport un po’ romanticizzanti, qualcuno arriva a dire che questo calcio sia più “vero”, più “puro”, rispetto a quello maschile ormai dominato da interessi economici giganteschi… Tu cosa ne pensi?
È una domanda difficile. Nel momento in cui gli interessi commerciali e la crescita spropositata di alcuni ingaggi creano dei meccanismi, delle bolle, dei sistemi attorno a cui ruota tutto lo sport, è vero che si generano dei grossi squilibri. A me piace moltissimo il calcio, tutto, lo seguo da quand’ero molto piccola. Ma mi ha sempre appassionata il gioco, molto più del discorso. Le storie, molto più delle polemiche. Il calcio è qualcosa di molto particolare perché, in Italia, interessa più o meno a tutti, è il nostro sport nazionale, ed è proprio per questo una lente sociale fortissima. Dopo le partite a me, più che le analisi, piace ascoltare le interviste, e forse un problema del calcio maschile è che gli atleti sono molto controllati, finiscono per raccontarsi in prima persona molto poco, e anche per parlare poco di calcio in modo diretto e sincero. Le calciatrici invece hanno più libertà, e soprattutto in questo periodo hanno molta voglia di dire la loro, di prendersi spazi che non hanno mai avuto. Ho notato questa cosa ogni volta che ho provato a intervistarle. Hanno una spontaneità che nel calcio maschile si vede meno. E poi è vero che il calcio femminile, in questo momento, è abbastanza scevro di polemiche. Sia in campo sia fuori: una partita di calcio femminile è molto meno frammentata di una maschile, si hanno meno momenti di scontro fine a se stesso, anche se l’agonismo c’è, eccome. E questo si ripercuote anche all’esterno.
Mi interessa capire appunto se c’è, e quanto sia consistente, la differenza nel gioco, tra maschile e femminile: è un aspetto che, molto spesso, tirano in ballo i detrattori dello sport femminile, quando sostengono che la differenza nei compensi dipenda dalla qualità e dalla quantità di spettacolo offerte dagli atleti.
Certo che ci sono differenze di gioco, in uno stesso sport, tra maschile e femminile. È una cosa normale, i corpi sono mediamente diversi. Ma secondo me è sbagliato pensare al calcio femminile come a una copia, brutta o bella, del calcio maschile. Sono due sport che hanno le stesse regole, le stesse caratteristiche, ma declinazioni diverse. A me il fatto che il calcio femminile, come dicevo prima, sia meno frammentato piace moltissimo. Sono spettacoli diversi, ma sono spettacoli entrambi. Una delle polemiche che sento più spesso, per esempio, riguarda la dimensione delle porte, e il fatto che per le giocatrici sarebbero troppo ampie. Ma a me, sinceramente, guardando giocare le portiere più forti del mondo, come quella della Svezia, o anche quelle semplicemente molto brave, come quella della Francia l’altra sera, non sembra che la dimensione delle porte sia un aspetto penalizzante, anzi. A me spesso piace vedere l’azione nel suo farsi più che la singola performance fisica, e vale anche per il tennis. Amo la strategia, il modo di costruire il colpo… ma questi sono gusti, naturalmente. Poi non voglio obbligare nessuno a guardare il calcio femminile (ride, ndr)! È giusto che ognuno segua lo spettacolo che preferisce.
Sì, però, come dicevi anche tu prima, il racconto che si fa dello sport incide molto sulla sua percezione. Lasciando il calcio e allargando lo sguardo, negli ultimi anni mi sembra che, finalmente, si parli sempre più spesso di salute mentale in relazione allo sport, e del peso e delle conseguenze anche psicologiche che l’agonismo e la mediatizzazione hanno sugli atleti. E mi sembra che più spesso questo discorso venga da atlete, come recentemente Simone Biles o Naomi Osaka. Secondo te c’è un elemento legato al genere, in questo?
Secondo me è anche una questione di genere, ma ancora di più è una questione generazionale. Esiste una generazione nuova di atleti, maschi e femmine (anche se in questo caso le femmine sono prevalenti), che parla molto di più di come sta, di come si sente, di quanto lo sport sia complicato e difficile da affrontare, di quanto si possa soffrire di periodi di particolare disagio e comunque, nonostante questo, continuare a fare sport e vincere – oppure no, decidere di fermarsi, di restarsene fuori per il tempo necessario. Nel tennis, per esempio, che è uno degli ambienti che conosco meglio, sono molti i giovani atleti che ragionano attorno a questi temi. E poi, sì, penso che c’entri anche l’appartenenza al genere femminile, perché le ragazze e le donne sono più abituate a mettersi in gioco in questo campo, a parlare di sé, di come si sentono. A livello culturale, non ci si aspetta mai che uno sportivo si esprima su certi argomenti. Un altro tema per certi versi assimilabile è quello dell’omosessualità, che negli sport maschili, e soprattutto nel calcio, è ancora un enorme tabù. Mentre nel calcio femminile il problema oggi non si pone nemmeno: per molto tempo le calciatrici hanno dovuto convivere con lo stigma legato allo stereotipo che le voleva tutte lesbiche, però a un certo punto se ne sono anche disinteressate, e oggi l’orientamento sessuale delle giocatrici non è neanche lontanamente una questione problematica. Ancora una volta è una questione culturale: nello sport maschile certi pregiudizi sono ancora molto difficili da scardinare, e finché prevarrà una mentalità di gruppo molto chiusa sarà difficile farlo.
Volevo concludere, visto che qui ci occupiamo soprattutto di cinema e tv, chiedendoti come vedi la rappresentazione dello sport sul grande e sul piccolo schermo: c’è qualche prodotto di questi anni che ti ha colpito?
Secondo me l’audiovisivo in generale è un po’ indietro sulla rappresentazione sportiva, soprattutto femminile. Ci sono moltissimi prodotti, naturalmente, a livello sia di documentario sia di fiction, ma spesso seguono sempre le stesse formule, tutte molto simili. Un esempio interessante per me è stato il documentario su (e anche “di”, possiamo dire) Naomi Osaka, uscito l’anno scorso, perché lì c’è molto della sua battaglia sulla salute mentale. Ma sganciandoci dalle storie vere, la perla dei racconti sportivi recenti per me è Ted Lasso. Non c’entra con lo sport femminile, è vero, ma mi sembra un nuovo modo di racconto, che può porsi anche come modello per altre narrazioni a venire. È ben scritto, ben interpretato, pieno di personaggi interessanti, che fanno anche un po’ il verso agli stereotipi, a volte mettendoli in crisi, a volte abbracciandoli, confermandoci che qualche stereotipo, in fondo, esiste perché è vero.
Anche se in Ted Lasso di calcio se ne vede molto poco…
È vero, ma è anche quello il punto. Magari non si vede la partita, ma di sport si parla eccome. Il sottinteso interessante è proprio questo: utilizzare i meccanismi sportivi – l’aspettativa, la competizione, etc. – per raccontare gli esseri umani. E lo sport è esattamente questo. È una lente preziosissima per guardare l’umanità. ALICE CUCCHETTI
Anche noi, come Elena Marinelli, amiamo Ted Lasso, la premiatissima comedy di Apple TV+ su un allenatore di football americano, ottimista e gioviale, che si ritrova a guidare una squadra di calcio inglese senza conoscere minimamente le regole dello sport. Vi riproponiamo la recensione della seconda stagione, pubblicata su Film Tv n. 42/2021, in attesa trepidante della terza annata, in lavorazione.
Ted Lasso [stagione 2]
Non è sfuggita ai più l’equivalenza tra Ted Lasso personaggio e Ted Lasso serie: entrambi si presentano candidi, ottimisti, prodighi di simpatiche freddure ed enciclopedica competenza pop, pesci fuor d’acqua puri di cuore, e vincono ogni resistenza o scetticismo. E molto si è scritto (soprattutto oltreoceano) della prima annata e del suo successo roboante: “comfort tv” in epoca d’apocalisse, speranzosa fantasia di una virilità non tossica, reazione alle sitcom ciniche e agli antieroi tormentati delle serie prestige, inno alla comprensione reciproca dopo anni di polarizzazioni esasperate. Tutto vero, solo che poi è arrivata la seconda stagione ed è stata come nessuno se l’aspettava: abbandonata la già labile architettura orizzontale da riscatto sportivo, si è dedicata a sondare i suoi personaggi, a osservarli muoversi, reagire ed evolvere, approfittando della verticalità episodica (e di un minutaggio variabile). Ted Lasso e Ted Lasso, allora, sono caduti in un inevitabile pozzo psicoanalitico, forzati a guardarsi allo specchio e ad accettare che no, non tutto si può risolvere con la gentilezza, che fare la cosa giusta non sempre è facile ma soprattutto non sempre basta, che ogni tanto la differenza tra vittoria, sconfitta e pareggio conta, e che applicare la memoria del pesce rosso ai traumi e al dolore è il modo migliore per farli crescere. Non tutti gli spettatori hanno apprezzato, e non tutte le linee narrative hanno la stessa solidità: ma basterebbero anche solo i percorsi, paralleli, opposti e potenti, di Ted e Nate a far brillare una seconda stagione spiazzante e coraggiosa. E d’altronde, la dottoressa Sharon ci aveva avvertiti: «La verità vi renderà liberi, ma prima vi farà incazzare».
ALICE CUCCHETTI
Sempre a proposito di sport, il prossimo 12 agosto arriverà su Prime Video A League of Their Own, serie ispirata al film Ragazze vincenti di Penny Marshall. Il film, uscito nel luglio 1992, festeggia 30 anni – potete leggere a riguardo un’intervista alla protagonista Geena Davis – ed è a sua volta ispirato a vicende realmente accadute: una delle giocatrici su cui sono costruiti i personaggi del film, Maybelle Blair, ha fatto ufficialmente e pubblicamente coming out, a 95 anni, proprio durante un evento di presentazione della nuova serie di Prime Video [in inglese].
È iniziato a giugno Visible Women, il podcast di Caroline Criado Perez, l’autrice di Invisibili, in Italia pubblicato da Einaudi. In ogni puntata, dati alla mano, Criado Perez illustra nel dettaglio i molti modi in cui il mondo in cui viviamo è costruito a misura di uomo e non di donna, dalle dimensioni di guanti e mascherine ai test di sicurezza delle automobili, dalla raccolta dati delle intelligenze artificiali ai campetti da gioco per bambini. [in inglese]
Sul sito del newyorkese Lincoln Center, si può vedere e ascoltare una bella masterclass tenuta da Claire Denis insieme a Jim Jarmusch. [in inglese]