Singolare, femminile ♀ #054: Oltre lo specchio
Singolare, femminile
lo schermo delle donne
- di Alice Cucchetti e Ilaria Feole -
#054 - Oltre lo specchio
Ciao ,
questa è Singolare, femminile, un viaggio settimanale attraverso i film, le serie televisive, le autrici, le attrici che hanno fatto e stanno facendo la storia del cinema e della tv.
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Nel decennale di Cloud Atlas e a pochi mesi dal ritorno in sala di Lana Wachowski con Matrix: Resurrections, esploriamo il cinema umanista, cyborg e mutante delle sorelle di Chicago, una sinfonia spericolata d’empatia, azione e speranza spesso incompresa, spesso solo troppo in anticipo sui tempi.
Ci sono capolavori che ci paiono indiscutibili e film che ci piacciono moltissimo e che non ci stanchiamo mai di rivedere. Poi ci sono i film che amiamo, e l’amore è insieme una cosa estremamente seria e un po’ ridicola, un fatto di cuore, pancia e testa: non è, come vuole l’adagio popolare, “cieco”, non ci impedisce di vedere i difetti, il punto è proprio che ci fa amare anche quelli, dal primo all’ultimo, perché sono indispensabili a rendere il nostro (s)oggetto d’amore quello che è. Uno di questi film, per chi scrive, è Cloud Atlas, firmato dalle sorelle Wachowski e da Tom Tykwer: usciva al cinema nel 2012, dieci anni fa quasi esatti (era autunno e non giugno, ma ci concediamo un anticipo sui festeggiamenti). Cloud Atlas dura quasi tre ore ed è, abbastanza esplicitamente, sei film in uno: gli stessi attori interpretano una moltitudine di personaggi diversi, in diversi momenti dello spazio e del tempo, legati tra loro da storyline interconnesse che attraversano circa 500 anni, dall’Ottocento fino al XXIV secolo. Costato 100 milioni di dollari, è tecnicamente un film europeo, per la precisione tedesco (la Warner Bros. ha accettato solo di distribuirlo, non di produrlo), ed è a tutti gli effetti uno dei film indipendenti più costosi e imponenti mai realizzati. Tom Hanks, la star hollywoodiana più luminosa dell’ampio cast, lo ritiene uno dei film più belli e importanti della sua obiettivamente incomparabile carriera, ed è stato un sostenitore del progetto fin dalla prima ora, spesso tenendolo insieme con entusiasmo e forza di volontà le varie volte in cui sembrava sul punto di naufragare. Alla fine del 2012, dopo una non strabiliante permanenza in sala (il box office ufficiale si assesta sui 130 milioni di dollari globali), Cloud Atlas è comparso frequentemente sia nelle classifiche dei migliori film dell’anno sia in quelle dei film peggiori.
Cloud Atlas è tratto dal romanzo di David Mitchell L’atlante delle nuvole (edito in Italia da Frassinelli), e pure la fonte di partenza è sei romanzi in uno. Anzi, sei tipologie letterarie racchiuse in un solo romanzo: un diario di viaggio ottocentesco, uno scambio epistolare, un romanzo thriller, un racconto comico, un interrogatorio, una narrazione orale. E ha una struttura a matrioska: le prime cinque storie si interrompono tutte nel proprio punto centrale e riprendono, nell’ordine inverso, solo dopo la conclusione della sesta, così che l’ultimo capitolo coincida con la fine della vicenda iniziata nel primo; una chiusura anche letterale del cerchio, un viaggio nel tempo che dimostra, anche attraverso la propria stessa struttura, l’intrecciarsi ciclico degli eventi narrati. Non basta: L’atlante delle nuvole ha anche un impianto metanarrativo, è una continua messa in abisso. Il compositore Robert Frobisher, il protagonista della seconda storia, trova e legge il diario di Adam Ewing al centro della prima; Luisa Rey, l’eroina del thriller anni 70, s’immerge nelle lettere che Frobisher scriveva, negli anni 30, al suo amato, e così via, fino alla storia centrale – e chiave di volta di tutta l’architettura –, ambientata in un futuro post apocalittico, in cui le parole dell’androide Somni registrate e diffuse nel 2144 sono diventate per gli umani regrediti a società tribale del 2321 le leggende su cui costruire credenze religiose e folklore popolare. Le tracce di chi è venuto prima muovono chi viene dopo.
Nel 2012, Lana e Lilly Wachowski sono già considerate da quasi tutti una promessa mai mantenuta – oppure, a seconda dei punti di vista, è il loro secondo film, Matrix, a esser visto come un’enorme eccezione nella loro filmografia. I sequel di Matrix, Reloaded e Revolutions, nonostante l’ottimo riscontro al botteghino non sono stati valutati all’altezza del primo film quasi da nessuno, e di tutti i progetti successivi solo V per Vendetta (che le sorelle hanno, peraltro, solo prodotto, affidando la regia al loro stretto collaboratore James McTeigue) ha raggiunto un moderato successo (ma, proprio come Matrix, si è installato potentemente nell’immaginario collettivo, ben più di tanti blasonati campioni d’incassi). Speed Racer, l’unico altro lavoro da loro firmato in prima persona nel frattempo, è stato un flop colossale. Mettere insieme il budget per Cloud Atlas si rivela un’impresa complessa e travagliata, che le porta appunto in Europa in cerca di fondi (ci investiranno 7 milioni di tasca propria) dopo il disinteresse espresso da Warner (lo studio che le ha sostenute fin lì), e le conduce alla collaborazione con Tom Tykwer, il regista di Lola corre, inizio di una modalità di lavorazione collaborativa che sarà poi anche alla base di Sense8 (cui infatti Tykwer parteciperà come regista). Ogni sequenza viene preparata, impostata, concordata (in qualche caso specifico anche girata) collettivamente dal terzetto, ma la maggior parte delle riprese viene effettuata in contemporanea da due diverse unità, con le sorelle a occuparsi della storyline ottocentesca, di quella cyberpunk e di quella post apocalittica, e Tykwer a dirigere le altre tre, quelle ambientate nel 1936, nel 1973 e nel 2012. Per la maggior parte, il trio cerca anche di filmare in ordine cronologico, anche se questo proposito viene in parte rivisitato a causa di un infortunio al piede di Halle Berry, avvenuto pochissimi giorni prima d’iniziare le riprese.
L’adattamento del romanzo, ritenuto infilmabile – la sceneggiatura è firmata, come tutto il resto, sempre dalle Wachowski e da Tykwer –, elimina per lo schermo la struttura a matrioska dei sei racconti uno dentro l’altro ed edifica una complessa architettura intrecciata tra una vicenda e l’altra, orchestrando un sestuplo montaggio parallelo. “Orchestrare” non è un verbo utilizzato a caso, perché – richiamando direttamente la sinfonia che Frobisher compone, The Cloud Atlas Sextet – anche il film ha la struttura di una composizione musicale, con i personaggi stessi, nelle loro diverse (re)incarnazioni a fare da accordi fondativi e da motivi ricorrenti (e non è un caso che il montaggio di Alexander Berner e la colonna sonora di Tykwer, Reinhold Heil e Johnny Klimek siano stati i comparti del film più premiati). Oppure, per usare un’altra simbologia che alle Wachowski piace molto fin dai tempi di Matrix, Cloud Atlas ha la forma di una galleria di specchi che si riflettono l’uno nell’altro, un’intuizione che vale sia a livello strutturale sia a livello tematico: uno dei temi cruciali della storia è proprio l’infinito riverberarsi delle scelte individuali sui destini collettivi, in una cascata centrifuga di interazioni e conseguenze, che sfugge a un cieco determinismo proprio perché eleva a superpotere la decisione di agire per il bene, di fidarsi dell’altro, d’intessere legami, d’immaginare possibilità che sfuggano alle maglie dell’autorità. Lo dice direttamente Somni, una delle eroine: «La natura delle nostre vite immortali sta nelle conseguenze delle nostre parole e azioni che riverberano nel tempo. Le nostre vite non sono nostre: dal grembo alla tomba, siamo legati gli uni agli altri, al passato e al presente, e con ogni crimine e ogni gentilezza diamo alla luce il nostro futuro».
Il ruolo cruciale della musica è esplicitato anche da un’altra delle citazioni più celebri del film, le parole che Frobisher scrive in una lettera per Sixmith: «Ora comprendo che i confini tra rumori e suoni non sono che convenzioni. Tutti i confini sono convenzioni, che aspettano di essere trascese. E ogni convenzione può essere trascesa, se solo si riesce a concepire di poterlo fare». È naturalmente, senza troppe sottigliezze (qualcosa, la sottigliezza, di cui alle Wachowski non è mai importato granché), un riferimento apertamente politico, un incitamento al superamento delle imposizioni sociali di genere, identità, orientamento sessuale, classe e razza (quest’ultimo aspetto è sottolineato, in modo certamente goffo e a tratti problematico, dagli stessi attori che interpretano personaggi di diverse etnie), un inno allo smascheramento e all’abbandono di qualsiasi pregiudizio. L’epica monumentale di Cloud Atlas è la cronaca della battaglia immane che l’umanità combatte da sempre contro l’autorità, contro le forme di controllo, contro lo sfruttamento, contro l’oppressione dei più forti sui più deboli (ed è una lotta anche interiore, come dimostra il personaggio del post apocalittico Zachry/Tom Hanks). Ma nel tessuto di Cloud Atlas il superamento delle convenzioni si sostanzia anche nella materia puramente cinematografico-narrativa delle varie storie, così che ognuna si rivela in effetti un piccolo film nel film, appartenente a un genere differente – il dramma storico, il mélo, il thriller cospirazionista, la commedia anche grottesca, la fantascienza cyberpunk, il post apocalittico-fantasy – ma in grado di percolare l’uno nell’altro, d’interagire, influenzarsi, modificarsi.
Qualcosa che le Wachowski rifaranno, oltre che in Jupiter – Il destino dell’universo (altro colossale flop di critica e pubblico che, per quanto irrisolto, contiene ancora una volta tutto il loro cinema), insieme a J. Michael Straczynski in Sense8, applicandovi felicemente le opportunità d’espansione e replicazione offerte dalla serialità televisiva: gli otto protagonisti di Sense8 esistono contemporaneamente nel tempo – a differenza di quelli di Cloud Atlas – ma sono dislocati a estremità lontane dello spazio terrestre. Ognuno di loro, ancora una volta, “appartiene” a un genere narrativo diverso (coerentemente più “televisivo”, in questo caso) – Will al poliziesco, Nomi al cyber thriller, Wolfgang al crime, Lito alla soap, Sun all’action... – ma grazie al “superpotere” del gruppo, i cui componenti possono non solo comunicare telepaticamente ma anche condividere le abilità e le conoscenze gli uni degli altri, anche i loro generi d’appartenenza trovano una fusione miracolosa, elettrizzante e travolgente. Soprattutto nelle scene di lotta, di festa e di sesso – che, evidentemente, per le Wachowski sono in fondo (fin dalla tanto contestata sequenza del rave in Matrix: Reloaded) la stessa cosa. Ma in questa spericolata mescolanza di formati e ispirazioni (sono d’altronde, fin dagli esordi, cineaste postmoderne) risiede un altro punto centrale del loro discorso, cioè la fiducia totale nel potere trasformativo delle storie e dell’arte, qualunque forma assumano: d’altra parte, come spiega bene Sense8 a più riprese, sono proprio l’arte e la cultura – “alta” o “bassa” sono termini che, in questo caso, non hanno alcun valore – a costituire per tutti noi, sensate o no, la rete neurale necessaria a condividerci l’un l’altro, a calarci nei nostri reciproci panni, a comprenderci, a sentirci, a imparare. A essere un “io” che è anche un “noi”.
La libertà di essere se stessi e la libertà di produrre arte al di fuori dalle strutture di limitazione e controllo spessissimo coincidono: in Speed Racer, per esempio, è centrale lo scontro volutamente “infantile” tra la “purezza” del pilota che esiste per correre più veloce di tutti (d’altra parte si chiama proprio così, “Speed” di nome e “Racer” di cognome, e i nomi hanno sempre un ruolo fondamentale nella cinematografia delle sorelle) e la corruzione della grossa corporation che vuole appropriarsi di quella purezza, ingabbiarla, pervertirla e consumarla a scopi economici. E Speed Racer finisce per incarnare, consapevolmente o meno, un livello meta che col senno di poi ci pare lampante: rifiutato in massa all’epoca dell’uscita (il 2008 che accolse invece con tripudio e dollari altri due film tratti da fumetti: Iron Man e Il cavaliere oscuro), offriva possibilità visive mai viste al blockbuster, sfiorando un astrattismo a tratti sperimentale, proponendo un’antitesi alle gabbie limitanti del “realismo” che oggi imperversano in una CGI algoritmica. Oggi, Speed Racer,Cloud Atlas e, in misura minore ma non indifferente, persino Jupiter, hanno acquisito uno status sotterraneo di cult movie, sono oggetti di rivalutazione, riscoperti da spettatori che nella loro ambiziosa stravaganza, nella loro dedizione antirealista senza compromessi trovano uno sguardo sempre più raro.
Una scelta tra due rigide opzioni, ci spiega l’ultimo Matrix: Resurrections – dove Lana Wachowski è tornata a collaborare in sceneggiatura con lo scrittore di Cloud Atlas David Mitchell – non è una scelta, è una trappola, è un’illusione: fin dal primo Matrix – le cui tematiche queer, individuate da svariatə studiosə anche, ma non solo, alla luce della transizione di genere delle sorelle, sono state confermate dalla stessa Lilly – il cinema wachowskiano, sempre antiautoritario e anticapitalista, ipertecnologico ma profondamente umanista, non ci ha mai chiesto di scegliere tra due “verità” binarie. Ma di dare forma a nuovi mondi, affidarci all’impensato, squarciare le maglie limitanti della realtà attraverso le possibilità letteralmente infinite dell’immaginazione, del racconto, dell’arte. E dell’amore, certo, quella cosa estremamente seria e un po’ ridicola, un fatto di cuore, pancia e testa contro ogni cinismo sterile o ironico senso di superiorità, e anche un po’ un fatto di responsabilità. «Alla fine, saremo tutti giudicati dal coraggio dei nostri cuori». ALICE CUCCHETTI
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Dopo quasi vent’anni di insistenze da parte della Warner Bros. e di molti fan, Lana Wachowski (in solitaria: le due sorelle da qualche anno si dedicano a progetti separati, Lilly in particolare alla serie dramedy Work in Progress) si è convinta a tornare sulla saga di Matrix, realizzando Matrix: Resurrections. Un lavoro sicuramente imperfetto, per molti versi inaspettato, per tanti altri entusiasmante: vi riproponiamo la recensione, dal n. 52/2021 di Film Tv.
Matrix: Resurrections
La verità è che non siamo mai usciti da Matrix. Ma neppure da Matrix. Da questo presupposto parte il sequel che, a 22 anni dal primo capitolo, ci riporta nell’universo distopico delle Wachowski, stavolta mettendoci nel ruolo di chi ha ingoiato la pillola rossa, quella della rivelazione: lo spettatore sa già tutto, mentre Neo è tornato a essere soltanto Thomas Anderson, creatore di videogiochi (tra cui la popolare trilogia videoludica Matrix) convinto che Trinity e la Matrice siano fantasie e assuefatto alla pillola blu, quella dell’incanto ideologico, per continuare a credere che il suo mondo non sia solo il prodotto di un codice. Per tutto il primo atto (in una scansione che ricalca quella della trilogia) Resurrections è un tripudio di metacinema godibile e gaudente, che gioca con la persistenza di Matrix (il film, ma nella finzione - fatto non secondario - il videogioco) nell’immaginario collettivo: il bullet time che «poi è la cosa che tutti si ricordano», il gatto di nome Déjà-vu, la richiesta da parte di Warner Bros. (sic!) di un quarto capitolo, le illazioni sul sottotesto che tratta di «politiche transessuali», l’appropriazione da parte delle sottoculture di simboli e metafore della trilogia (una su tutte, quella degli incel, la comunità dei “celibi involontari”). I nuovi personaggi (ciurma di cyber pirati che aggiorna il vecchio cast all’estetica di Sense8 e Cloud Atlas) interagiscono con le immagini del primo film come se fossero intrusi nella demo di un videogame, in calchi spesso letterali delle vecchie sequenze, e il nuovo Morpheus prova e riprova le battute per evocare la teatralità di Laurence Fishburne: siamo ancora dentro Matrix, dentro il solco che ha lasciato nella cultura pop, e non c’è neanche bisogno di aggiornare le tecnologie (niente telefoni con la cornetta, ma gli smartphone restano marginali). Perfino Neo è ancora uguale: Keanu Reeves è un po’ Dorian Gray, un po’ John Wick, un po’ il meme Sad Keanu. Ma Lana Wachowski non è qui per la nostalgia, né per bearsi dei ritornanti (come accade in Ghostbusters: Legacy o in Spider-Man: No Way Home), e nei seguenti due atti spinge il pedale a tavoletta sull’action fantascientifico dalla trama involuta e incredibile (anche nel senso di mai credibile); mentre un paio di personaggi si prendono la briga di raccontare, con temibili e densi “spiegoni”, tutto quel che è accaduto tra la fine di Revolutions e l’inizio di Resurrections, siamo scaraventati nell’universo ultra camp del mondo delle macchine, dove i ribelli umani ancora lottano per un’esistenza fuori dai campi. La guerra, però, è cambiata, e qui emerge il vero sottotesto dell’operazione, perché sotto il baraccone cyberpunk batte un cuore teorico tutto wachowskiano: la volontà di mettere in discussione il binarismo della vecchia trilogia. Quella tra pillola rossa/pillola blu, si dice più volte, non può essere l’unica scelta, così come lo schieramento uomini vs. macchine è superato da nuove alleanze (e da invenzioni biomeccaniche che sbandano verso l’ibrido kitsch di Jupiter - Il destino dell’universo). La fluidità è il vero futuro, e l’amore - in un film dedicato ai propri genitori - l’unico movente sensato, possibile.
ILARIA FEOLE
Se dopo aver visto la quarta stagione di Stranger Things anche voi ascoltate a ripetizione Running Up That Hill di Kate Bush, o se volete saperne di più sull’artista e sulla canzone di trent’anni fa che in questi giorni sta scalando le classifiche digitali, vi consigliamo questo videosaggio su YouTube. [in inglese]
Sempre restando in territori musicali, dal 9 giugno a Bari prende il via la sesta edizione del Loop Festival, intitolata All the Girls to the Front! (come il leggendario slogan delle Bikini Kill) e dedicata all’esplorazione della videomusica di grandi artiste contemporanee. In programma anche la proiezione del documentario Sisters with Transistors sulle pioniere della musica elettronica.
Non vi è ancora passata la sbornia di Cannes? Ecco una lunga intervista alla cineasta francese Mia Hansen-Løve. In onore del ritorno di Laura Dern al franchise di Jurassic Park con Jurassic World: Il dominio, potete divertirvi a contestare la classifica di Vulture che mette in ordine dal peggiore al migliore tutti i ruoli della straordinaria attrice. [in inglese]
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