Singolare, femminile ♀ #053: The fighter
Singolare, femminile
lo schermo delle donne
- di Alice Cucchetti e Ilaria Feole -
#053 - The fighter
Ciao ,
questa è Singolare, femminile, un viaggio settimanale attraverso i film, le serie televisive, le autrici, le attrici che hanno fatto e stanno facendo la storia del cinema e della tv.
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Circa un mese fa l'attrice francese Adèle Haenel ha annunciato la sua uscita di scena dal cinema mainstream, esasperata da un sistema industriale patriarcale: tracciamo il ritratto di un'antidiva in fiamme, tra militanza ed eclettismo.
Adèle Haenel ha deciso di chiudere col cinema. La notizia non ha avuto molta risonanza nemmeno sulle testate specializzate, ed è stata diramata inizialmente dal giornale tedesco "FAQ", ma l'attrice francese ha dichiarato pubblicamente la sua decisione di abbandonare il grande schermo proprio in Italia, a fine aprile, in occasione di un incontro sul palco della Triennale di Milano durante i giorni della messa in scena della pièce L'Etang di Gisèle Vienne, di cui è protagonista. «Non faccio più film per ragioni politiche. Perché l'industria cinematografica è assolutamente reazionaria, razzista e patriarcale. Credo sia un errore credere che i potenti siano benintenzionati, e che il mondo sia stia muovendo nella giusta direzione grazie alla loro gestione. Niente affatto. L'unica cosa che muove la società è la lotta. E penso che, nel mio caso, andarmene equivalga a combattere. Abbandonando questa industria, voglio essere parte di un altro mondo, e di un altro cinema». È l'atto più radicale di un'antidiva che, nel corso della sua fulminante carriera, ha costruito un'immagine pubblica in totale coerenza con quella artistica, diventando una figura chiave della militanza femminista nel mondo cinematografico, un emblema dell'era #MeToo incapace, come dimostra quest'ultima intervista, di compromessi.
Classe 1989, nata a Parigi da madre francese e padre austriaco, Haenel viene scelta a soli 11 anni, mentre accompagnava il fratello maggiore a un provino, come protagonista di Les diables di Christophe Ruggia. La lunga preparazione per il ruolo di una preadolescente autistica legata visceralmente al fratello - ruolo in cui già spicca la sua capacità di perforare lo schermo con una presenza scenica burrascosa - implica per la piccola Adèle di essere sostanzialmente separata dalla famiglia per quasi un anno, durante il quale il rapporto tra la giovanissima attrice e il regista assume contorni che solo parecchi anni dopo Haenel saprà definire come inappropriati e abusanti. Dopo una lunga video intervista rilasciata nel 2019, in cui dettaglia la profonda crisi che quelle molestie hanno innescato in lei, allontanandola per anni dal cinema, l'attrice denuncia formalmente Ruggia, oggetto di un processo cominciato nel 2020 e non ancora giunto a sentenza. L'episodio è stato, in Francia, uno dei più discussi ed emblematici all'interno della scia di accuse del #MeToo, una scelta che Haenel ha fatto consapevolmente mentre era all'apice della sua visibilità per il ruolo che resta, probabilmente, il più amato e il più celebre tra i suoi, ovvero quello di Ritratto della giovane in fiamme di Céline Sciamma, film uscito nel 2019 che attualmente è la sua ultima apparizione su grande schermo (l'unico lavoro successivo di Haenel è stata la voce narrante, solida e coinvolgente, del bellissimo documentario Retour à Reims di Jean Gabriel Périot, nel 2021).
Proprio Sciamma è fautrice della ripartenza della carriera dell'ex enfant prodige, rilanciandola col ruolo folgorante di Floriane nel suo esordio registico Naissance des pieuvres: una prova - quella nei panni della capitana di una squadra di nuoto sincronizzato oggetto del desiderio di chiunque la circondi - che scolpisce sullo schermo le peculiarità di un corpo attoriale unico nel suo genere, al contempo mascolino e femminile, atletico e vulnerabile, seduttivo e desiderante. Una fisicità che sfugge agli schemi cinematografici consolidati del femminile sullo schermo, e che trova nell'attrito fra la sua presenza muscolare e il taglio felino degli occhi, nella distanza tra la gravitas del volto e la leggerezza del movimento, una forma spiazzante per i suoi personaggi. È l'inizio, il secondo, di una carriera che segna il cinema francese in modo indelebile per i successivi dieci anni, facendo di Haenel una delle più eclettiche e richieste interpreti del cinema - non solo - festivaliero: da Bertrand Bonello (L'Apollonide e Nocturama) a Catherine Corsini (Trois mondes), da André Techiné (L'homme qu'on aimait trop) a Robin Campillo (120 battiti al minuto). Umbratile e intensa, Haenel è un volto per il melodramma e per il cinema di impegno civile, i lineamenti morbidi che sanno stirarsi in linee aspre di determinazione cocente; i fratelli Dardenne riscrivono per lei il ruolo di La ragazza senza nome, previsto inizialmente per un'attrice più matura, sostenendo che non avrebbero potuto realizzare il film senza Adèle. Ma poi basta vederla in Pallottole in libertà di Pierre Salvadori per scoprire che è, forse, nata per la commedia: la sua gamma espressiva è impressionante.
Nel 2014 esce The Fighters - Addestramento di vita, il primo titolo a farla conoscere in Italia; un ruolo, di nuovo, di tostissima combattente, fanciulla imprendibile nel suo sfuggire agli schemi, aspirante soldatessa fortissima nella lotta e seducente in modo irresistibile. Nello stesso anno, Haenel riceve il César come migliore non protagonista per il film Suzanne e durante il discorso di ringraziamento fa coming out come lesbica (Céline Sciamma è, in quel periodo, la sua compagna di vita); negli anni seguenti entra a far parte del collettivo 50/50, organizzazione che mira all'eliminazione delle differenze di genere nell'industria audiovisiva; compare pubblicamente in manifestazioni femministe e più di recente dichiara il suo sostegno al partito trozkista Révolution permanente, costruendo passo dopo passo un'identità militante visibile ed eloquente. Il 2019 è un anno cruciale per la sua carriera: al Festival di Cannes è la regina della Croisette con ben tre film in diverse sezioni, il già citato Ritratto della giovane in fiamme dell'ex compagna Sciamma, Doppia pelle di Quentin Dupieux e Les heros ne meurent jamais di Aude-Léa Rapin. Tre titoli diversissimi che testimoniano del suo eclettismo e della sua voglia di sperimentare, prestandosi al gioco di thrilling demenziale di Dupieux, con cui esplora territori attoriali inediti, o mettendosi al servizio di una regista esordiente come Rapin. Dopo il trionfo cannense risulta ancora più significativo, quindi, l'atto pubblico con cui Haenel diventa uno dei nomi più discussi del 2020, pochissimi giorni prima che la pandemia prenda il sopravvento su qualsiasi altra news: alla cerimonia dei César 2020, al momento in cui sul palco viene annunciato, in ovvia assenza del regista, il premio a Roman Polanski per L'ufficiale e la spia, Adèle grida «vergogna!» dalla platea e abbandona la sala. L'episodio rimbalza di media in social, c'è chi dichiara che Haenel non lavorerà mai più dopo una scena simile, chi la accusa di lesa maestà nei confronti di un riconosciuto maestro del cinema internazionale. Per chi scrive, Polanski non merita né l'oblio né la condanna, e il film in questione è un capolavoro; ma l'atto pubblico dell'attrice è un fondamentale strappo nel cielo di carta del sessismo istituzionale, un tentativo urgente e legittimo di lacerare l'ipocrisia. È giusto separare l'uomo dall'artista e applicare tutti i distinguo del caso nella complessa vicenda giudiziaria di Polanski, nella quale non è questa la sede per addentrarsi: ma a suon di distinguo e "not all men" si perde di vista l'ampiezza e la forza di un sistema che, col ritornello "si è sempre fatto così", ha condonato e normalizzato per decenni abusi, molestie e rapporti di forza sbilanciati nell'industria audiovisiva. Quello di Haenel è un gesto contro il sistema, un grido di impazienza e di richiamo alla protesta: un atto di esasperazione, più che di coraggio.
Assente dagli schermi da allora, Adèle era tornata sul set per il fantascientifico L'empire di Bruno Dumont, la cui lavorazione è stata, però, la fatidica goccia che fa traboccare il vaso. L'attrice si è scontrata sul set col regista, trovando il film «pieno di battute sulla cancel culture e la violenza sessuale, e sprezzante verso i più deboli». Sempre nella stessa intervista per "FAQ" dichiara che «Il problema è che dietro la facciata divertente il film si schierava in difesa di un mondo sessista e razzista. Ho provato a discuterne con Dumont, perché credevo il dialogo fosse possibile. Volevo credere, per l'ennesima volta, che non fosse intenzionale. Invece lo era». L'attrito fra le modalità di messa in scena di un regista come Dumont, che mette continuamente alla berlina e alla prova lo sguardo moralizzante (l'ultimo France ne è esempio lampante), e la militanza combattiva e intransigente di Haenel era forse inevitabile; forse pure calcolata per finalità artistiche dal regista, che con questo tipo di scontri e di reazioni autentiche alimenta il suo cinema, e rimpiangiamo la mancata realizzazione di un sodalizio tanto improbabile quanto fertile. Adèle ha abbandonato il set e, insieme, il cinema tutto: «Questa industria è un sistema oppressivo che continua a esercitare il sessismo. Se restassi, diventerei quel tipo di femminista che si fa garante di un mondo maschilista e patriarcale. Il mio sogno è di rendere chiaro che questa industria difende un mondo capitalista, patriarcale, razzista e sessista di diseguaglianza strutturale».
Haenel continuerà a lavorare in teatro, a spendersi per il supporto alle vittime di abusi e, per nostra fortuna, ha già indicato due eccezioni alla sua uscita di scena: lavorerà al cinema solo se si tratterà di film di Céline Sciamma o di opere prime di registi indipendenti. Intanto, ha fatto una scelta radicale e antidivistica: quella di far sì che la sua assenza, anziché la sua presenza, abbia un peso. ILARIA FEOLE
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Esce in sala oggi, 1° giugno, Wild Nights with Emily Dickinson, il film di Madeleine Olnek dedicato all'immortale poeta americana, icona di anticonformismo femminile. Per l'occasione vi riproponiamo la recensione di un altro, grande film biografico incentrato sulla sua figura, A Quiet Passion, diretto dal maestro britannico Terence Davies, da Film Tv n° 24/2018.
A Quiet Passion
Emily Dickinson, poetessa. Tra le più grandi di sempre. Donna del New England puritano di metà Ottocento; spirito libero e indipendente; figlia devota di genitori osservanti e inflessibili; sorella amorevole di Austin e Vinnie; animo gentile condannato all’infelicità da un’intransigenza morale al limite dell’autolesionismo; artista reclusa liberata dalla poesia. Terence Davies, in questo biopic che arriva in sala con due anni di ritardo, ne racconta la vita dalla giovinezza alla morte (avvenuta per nefrite nel 1886, a 55 anni), cercando di replicare la semplicità della sua scrittura con una messa in scena rigorosa. Gli interni della casa dove Emily si rinchiuse mano a mano che invecchiava, scrivendo di notte, rifiutando il proprio aspetto fisico e la corte degli uomini, innamorandosi senza speranza di un pastore protestante già sposato, sono ripresi con la sobrietà di primi piani, piani fissi, lunghe carrellate e densissime scene di conversazione che restituiscono la lotta interiore della protagonista fra la passione e l’ironia da un lato e la fede e il rigore dall’altro. La poesia entra nel vissuto come tensione verso l’eternità, dolore profondo di quella che Emily, parlando di sé in uno straordinario dialogo con la cognata, definisce una «vita minore». Poi ci sono i versi, che Davies usa con parsimonia, accompagnando per esempio una carrellata di fotografie della Guerra civile americana o il funerale di Emily: frammenti di letterarietà, in un film che usa il cinema, con la sua lingua piana e complessa, per illustrare l’invisibile bellezza di una donna che scelse di nascondersi al mondo, regalandogli però la sua anima.
ROBERTO MANASSERO
Dal 1° giugno in streaming su Streeen il cinema di Wilma Labate: sette titoli, dall’opera prima Ambrogio fino al doc Arrivederci Saigon, per ripercorrere la carriera della regista, prossimamente in sala con La ragazza ha volato.
Giugno è il mese del pride: MUBI lo celebra con la mini retrospettiva di titoli recenti Orgoglio senza pregiudizio, che comprende, fra gli altri, i film Wet Sand di Elene Naveriani, Our Bodies Are Your Battlefields di Isabelle Solas e Due di Filippo Meneghetti.
Parte il 7 giugno l’omaggio della Cineteca Milano MIC alla compianta Catherine Spaak, icona femminile dentro e fuori lo schermo: in programma, tra gli altri, La parmigiana, Il sorpasso e Dolci inganni.
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