Singolare, femminile ♀ #042: Il giardino delle meraviglie
Singolare, femminile
lo schermo delle donne
- di Alice Cucchetti e Ilaria Feole -
#042 - Il giardino delle meraviglie
Ciao ,
questa è Singolare, femminile, un viaggio settimanale attraverso i film, le serie televisive, le autrici, le attrici che hanno fatto e stanno facendo la storia del cinema e della tv.
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Lo spazio delle donne è il titolo dell’ultimo libro, breve ma folgorante e densissimo, di Daniela Brogi. Ne abbiamo parlato a lungo con l’autrice, cercando di far entrare aria fresca in un dibattito spesso soffocante, e di scoprire come trasformare un terreno di discussioni sterili in un campo di fruttuosa decostruzione e di nuovi sguardi.
La sera di venerdì 4 marzo, in previsione della Giornata internazionale della donna – a proposito: buon otto marzo! Con un giorno di ritardo, ma d’altronde, come dice lo slogan, (l)otto marzo, lotto ogni giorno – a Milano si è svolta la marcia La notte è per tutt*, una “semi maratona” serale a tappe che dalla periferia nord si è mossa verso il centro. Ispirata alle omologhe marce Take Back the Night degli anni 70, organizzate per protestare contro gli stupri e in alleanza con lavoratrici e lavoratori sessuali, anche questa aveva lo scopo di riprendersi lo spazio vivo della città, oltre a un preciso orizzonte temporale associato spesso all’oscurità e all’insicurezza. La questione dello “spazio delle donne” (che si collega a quella delle soggettività minoritarizzate) è multiforme e molteplice: passa dalla necessità di rendersi visibili, di appropriarsi di uno spazio pubblico da cui si è e si è state escluse, e dall’esigenza altrettanto essenziale di possedere uno “spazio veramente proprio”, per usare quella che potrebbe essere una traduzione alternativa e altrettanto corretta di A Room of One’s Own di Virginia Woolf. Una traduzione alternativa offertaci da Daniela Brogi in Lo spazio delle donne, recentemente pubblicato nelle Vele Einaudi: un libro che, all’apparenza, occupa poco spazio (appena 120 pagine, nel tradizionale piccolo formato della collana) ma riesce miracolosamente a contenere, e a tenere insieme, la maggior parte delle questioni e degli argomenti che hanno dominato e dominano la riflessione contemporanea sul sessismo.
Daniela Brogi insegna letteratura italiana contemporanea all’Università per stranieri di Siena, è un’appassionata studiosa di forme della narrazione, e oltre che di critica letteraria si occupa di critica cinematografica, collaborando con Film Tv e con diverse altre testate (ci piace segnalare su Doppiozero questo suo recente pezzo sull’immagine della madre nel cinema dell’ultima stagione, qualcosa di cui ci siamo occupate anche qui a Singolare, femminile). Abbiamo dialogato con lei sul suo ultimo illuminante saggio.
Lo spazio delle donne è un libro corto, ma molto denso. Mi sembra che possa essere usato come una sorta di “manuale di istruzioni” per intervenire su molti dei temi che negli ultimi anni stanno infervorando il dibattito pubblico. Temi che l’accademia da un lato e l’attivismo transfemminista dall’altro esplorano da anni, ma davanti ai quali mi sembra che il discorso pubblico mainstream si scopra il più delle volte tragicamente impreparato.
Sì, è un manuale di sopravvivenza, in qualche modo! Sono questioni che ho pensato, studiato e considerato per tanti anni e che affrontavo in maniera trasversale quando scrivevo di letteratura o di cinema. Però contemporaneamente capivo e sentivo che la cosa importante sarebbe stata quella di dar loro una forma. Come dicevi tu non è che manchino elaborazioni, studi, ricerche... Forse quello che manca ancora è la serenità di poter parlare di queste cose in maniera pacifica, trovando e costruendo ascolto. È come se ancora non esistesse un’attenzione condivisa. Hai citato l’espressione “mainstream”, che secondo me è una parola chiave, che ha senso decostruire. Di solito concetti come mainstream e midcult sono usati un po’ come dei passe-partout, parole attraverso le quali a livello intellettuale e culturale ci si difende da quello che è considerato il senso comune circostante. È un po’ anche una civetteria, una vanità. Quando invece gli stessi – di solito maschi, di solito di una certa età – che ce l’hanno con il mainstream sono i primi a riprodurre, in relazione a certi temi, un repertorio molto mainstream di luoghi comuni, compresa l’invocazione dello spettro della cancel culture, una parola magica agitata per difendersi da ogni possibilità di confronto o di dialogo.
Per non parlare di quello che tu, all’inizio del libro, chiami “l’elefante nella stanza”.
È come se ci fosse una stanza sempre chiusa con dentro questo enorme elefante, che è la questione della rappresentanza femminile, del sessismo e della disuguaglianza, nei confronti della quale si riproducono luoghi comuni, e – questo è interessante – lo si fa perché si pensa di appartenere a una koiné, come se riprodurli fosse un segno di distinzione culturale. L’intellettuale medio italiano – stiamo parlando ovviamente per generalizzazioni, è chiaro – ragiona in maniera molto mainstream! La libertà è sapersi riappropriare anche di parole, definizioni ed etichette usate contro di noi ma che in realtà, a ben vedere, riguardano più chi le usa. Quindi con Lo spazio delle donne si trattava di edificare un discorso che potesse essere trasversale, che decostruisse la retorica dominante, che in quanto retorica è fatta di isolotti autoreferenziali anche in termini lessicali e linguistici, di frasi fatte che di solito non vengono nemmeno spiegate e articolate. La comunicazione viene interrotta, un po’ come faceva un tempo un aristocratico: «Io sono così e basta», «io sono contro la cancel culture», «io sono contro le quote rosa», e poi non si va mai oltre, non si esplorano mai i perché. Il perché costruisce comunità, confronto, dialogo con l’altro. E restringendo il discorso al cinema, tutto ciò diventa ancor più paradossale: proprio chi si occupa di cinema e di critica cinematografica, di un sapere e di una cultura che continuamente ti invitano a fuoriuscire da te stesso – anche con il corpo, perché “andare al cinema”, anche in senso fisico, è un atto di uscita da sé rispetto alla lettura di un libro, per esempio – e a metterti in mezzo agli altri... Proprio chi si occupa di questa esperienza, spesso, tocca dirlo (e bisogna dirlo non per spirito di contrapposizione fine a se stesso, ma perché è giusto farlo), riproduce dei cliché univoci. E allora – mi sono chiesta – come si fa a portare ossigeno dentro questa stanza dall’aria così viziata? Una stanza che ha tenuto le autrici in una posizione di invisibilità, ma ha tenuto anche gli uomini in una gabbia per cui produrre cultura è possibile solo dentro un recinto di coordinate sessiste... Non sono solo le donne a essere intossicate, ma anche gli uomini. Per farlo bisogna costruire riflessioni non contrappositive, decostruire la retorica sessista e servirsi anche possibilmente di nuove parole e nuovi sguardi.
Infatti nel libro, utilizzando una terminologia cinematografica, parli della necessità di utilizzare il “fuoricampo attivo”, quello spazio che non vediamo ma che è convocato da ciò che invece è visibile, e che ci porta a interrogarci su ciò che stiamo o non stiamo vedendo.
Io trovo che la categoria della critica cinematografica del “fuoricampo attivo” sia perfetta e geniale. Si tratta di costruire ponti, ascolto, competenze. Ieri ho letto Il giardino di Derek Jarman, un libro bellissimo, fotoillustrato, in cui lui racconta di come ha acquistato una vecchia casupola di pescatori e di come ha trasformato quel luogo arido e pietroso in un giardino delle meraviglie. Noi siamo dei giardinieri e dei contadini quando ci occupiamo di cultura: io ho cercato di seminare, di dissodare il terreno, di togliere le radici delle piante infestanti. Cercando contemporaneamente di spostarmi da quello che è il non luogo del discorso generico e del maschilismo benpensante verso un territorio concreto, perché – proprio pensando prima di tutto a persone giovani – è necessario decostruire, ma anche costruire, con elementi concreti. Ho proposto dunque lo strumento del fuoricampo attivo, ma anche una timeline di avvenimenti storici, che per me è fondamentale. Non perché nessuno sapesse prima certi fatti (la timeline parte dal primo voto italiano alle donne, nel 1946, e arriva alla trasformazione del reato di stupro da reato contro la morale a reato contro la persona, nel 1996, ndr), ma perché a certi dati noi dobbiamo restituire eloquenza e – per usare un’altra categoria della critica cinematografica – profondità di campo.
La timeline si ricollega a un altro discorso molto bello che fai, cioè quello sulla genealogia femminile, qualcosa di cui qui a Singolare, femminile abbiamo parlato molto, anche perché nell’ultimo anno sono usciti molti film a riguardo. Anche le genealogie femminili sono sempre state relegate a quello spazio d’invisibilità in cui sono costrette le donne. Ed è successo anche alla storia dei femminismi, che è una fase complessa e cruciale del pensiero umano, e che invece troppo spesso viene considerata qualcosa che riguarda solo le donne e di cui si devono occupare solo loro.
La questione della genealogia riguarda anche il cinema. Abbiamo autrici - come Agnès Varda, che è sempre stata trattata un po’ come la “mascotte” della nouvelle vague – che hanno subìto, tanto per cominciare, una marginalizzazione in quanto donne, quella che chiamo “rimozione di primo grado”. E poi c’è una rimozione di secondo grado nel momento in cui dalla storiografia e dalla critica vengono trattate come se fossero dei “funghi”, che spuntano così, dei “casi unici”. È così che si estirpano le biografie e le genealogie dalla Storia. Ed è di nuovo grazie al fuoricampo attivo che possiamo decostruire e interrogarci, per esempio, proprio sul perché Agnès Varda fosse l’unica. Poi c’è anche una questione che riguarda la cultura della madre, che è molto complessa e che concerne almeno due aspetti. Uno è quello di un sapere che è rimasto ai margini, che non è mai stato considerato significativo. E c’è un secondo livello importante, soprattutto se ragioniamo di cinema, che vede la madre come prima figura archetipica di narrazione. Walter Benjamin viene citato da tutti quando individua i grandi archetipi della narrazione nel mercante e nel contadino, ma anche lì c’è una rimozione, perché la prima figura che racconta delle storie, la prima che si mette e ci mette in contatto in senso narrativo con il mondo è la madre. La linea materna, per esempio, gioca moltissimo, anche in film che mettono in scena modelli patriarcali. Nell’arte fanno significato non solo i temi che sono presenti ma anche quelli che sono assenti, perché il discorso artistico non è solo un bicchiere da riempire di contenuti, ma un modo di riorganizzare contenuti, sguardi, punti di vista, voci. Il cinema e la letteratura fanno questo, si tratta di avere un atteggiamento “politeista”. Non è che chi parla dello spazio delle donne non ce l’ha, mentre chi incarna posizioni di rimozione più tradizionali ce l’ha. Vado a una questione scottante, così l’affrontiamo: Polanski. Non è che non dobbiamo apprezzare la grandezza dei film di Polanski, anzi. O, più in generale, non è che non dobbiamo guardare film che mettono in scena mondi o visioni patriarcali. Al contrario, dobbiamo guardarli capendo qual è il tipo di immaginario che rielaborano. La vera posizione moralista non è quella di chi vuole fare questo, ma di chi dice che siccome Polanski è un grande regista allora non si può parlare di tutto il resto.
In particolare da parte di chi fa critica, e che dunque dovrebbe indagare la complessità, non fuggirla.
L’aut aut è una trappola retorica sessista che di solito è messa in atto dal colonialista. È una forma di dominio. Per me il risultato da portare a casa, con questo libro, era quello di costruire discorsi comuni anche fornendo strategie e parole chiave per approfondire la discussione. È comunque un libro di un centinaio di pagine, non è un’enciclopedia! Come dice il nome della collana, Le Vele, è una vela che cerca di affrontare il mare aperto. E poi verranno altre e altri che faranno meglio di me.
È un inizio, è un punto di partenza, come dici in chiusura. Mi viene da tornare ancora alle genealogie: una delle tecniche che il patriarcato mi sembra adottare ancora oggi è quella di invisibilizzare la storia delle donne e di soggettività marginalizzate per far sembrare che ogni lotta sia la prima, sia isolata, mentre discende sempre da una tradizione antica sia di battaglie sia di pensiero.
E questo è il motivo per cui ci ho tenuto molto, anche negoziando con l’editore, che questo libro avesse una bibliografia. Non è completa, naturalmente, la lista esaustiva sarebbe lunga dieci o cento volte di più. E però è una bibliografia di partenza. Perché quest’idea che chiunque possa parlare delle questioni femminili anche senza preparazione è un’idea molto ingenua, nel migliore dei casi, ma è una forma di malafede inaccettabile quando si fa cultura. Non posso accettarla da parte di un critico che si esprime come se non esistesse nulla alle nostre spalle. Non lo faremmo per nessun’altra situazione culturale, lo facciamo solo col femminismo.
C’è un’altra parte molto interessante, nel libro, che tu affronti utilizzando esempi di scrittrici, per esempio ricordando che Natalia Ginzburg non voleva assolutamente «scrivere come una donna». Nel campo cinematografico quello sul female gaze – se esista oppure no, e cosa sia esattamente, se esiste – è un dibattito acceso, e che secondo me non consente posizioni univoche. È un discorso molto più complesso di come si tende a ridurlo.
La questione dello sguardo femminile è stata posta da donne che si occupavano, a titolo di studiose, di arti visive. È importante dirlo, perché storicamente sono state loro a capire che il modo in cui veniva guardata e rappresentata la donna era quello di un punto di vista maschile, che c’era un male gaze. Anche in questo caso quella che è un’etichetta che potrebbe spaventare va rianimata. Il female gaze in quanto “femminino sorgivo” che appartiene come essenza al corpo di una regista è una categoria più problematica. Ma il female gaze come categoria attraverso la quale noi possiamo indagare e capire le forme dell’arte, il modo per esempio in cui Chantal Akerman racconta le sue donne, il fatto che i film siano sempre contenuto e dunque anche storia sedimentata... in quel caso parlare di female gaze ha perfettamente senso, e importanza. Eccome se ne ha. Penso per esempio ai lavori recenti di Federica Fabbiani sul cinema lesbico: leggendoli ho capito meglio come devo pormi rispetto al cinema d’autrice. Il female gaze prima di tutto ti aiuta a decostruire il male gaze. Il Novecento ci ha raccontato mondi culturali molto uniformi, di una compattezza che naturalmente era prettamente maschile. Oggi però non siamo più dentro quel tipo di esperienza. Questa è una cosa a cui tengo: a me spaventa molto di più la chiusura pregiudiziale anche un po’ sarcastica nei confronti della “cancel culture”, del #MeToo, del “politicamente corretto”. Soprattutto se calate nel contesto italiano mi sembrano posizioni molto più pericolose, più chiuse, in certi casi perfino più fanatiche dei concetti che criticano. Questi concetti sono idee che possiamo attraversare, che possiamo far reagire in maniera creativa... La critica fa questo.
Forse il female gaze, o più in senso ampio “uno sguardo altro”, è soprattutto quello che dobbiamo adottare noi guardando le cose.
Naturalmente, e oltre al female gaze ci sono il black gaze, il queer gaze, etc. Lo spazio delle donne – e questa è una cosa importante – non è contrappositivo rispetto a tutti gli altri spazi, ma è uno spazio intersezionale in cui si incontrano culture e identità differenti. Nella storia del Novecento ma anche in quella del XXI secolo – e qui rientra l’importanza della storia del femminismo – le donne hanno fatto spazio all’emergenza di altre identità. E saranno queste le soggettività attraverso cui percorrere strade auspicabilmente diverse. Anche conflitti diversi: bisogna avere il coraggio di essere intersezionali anche quando è difficile, attraverso ancora una volta il corpo delle donne. Anche perché appena esplodono i conflitti è il corpo delle donne che diventa il campo di battaglia.
ALICE CUCCHETTI
Sul numero di Film Tv in edicola Daniela Brogi ha firmato per noi la recensione della terza stagione di L’amica geniale, che si è conclusa su Rai1 da poco più di una settimana e che è disponibile (con le annate precedenti) su RaiPlay. Ve la riproponiamo.
L'amica geniale
(stagione 3)
Togliamo subito di mezzo lo stereotipo per cui i film o le serie tratti dai romanzi debbano essere apprezzati solo in misura di quanto hanno saputo illustrare i contenuti del libro, come se questi fossero semplicemente dei messaggi dentro una bottiglia. Un riadattamento è un oltrepassare, una reinvenzione della storia di partenza, una vita seconda e altra che non necessariamente, per essere vera, deve solo ricalcare un modello, anzi. E così la terza stagione del ciclo L’amica geniale, tratto dalla tetralogia omonima di Elena Ferrante, e in particolare dal penultimo volume Storia di chi fugge e di chi resta, riprende e tradisce, come è vitale che accada, raccontando i fatti avvenuti tra il 1968 e il 1976 alle due protagoniste della storia raccontata da Lenù - che è l’unica narratrice. Per tre stagioni abbiamo ascoltato la sua ricostruzione attraverso la voce fuori campo di Alba Rohrwacher, che, finalmente, nell’ultima scena dell’ultimo episodio si palesa improvvisamente, come se risalisse dal fondo di un lago ghiacciato, apparendo sullo specchio in cui, per l’ultima volta, si guarda la giovane Lenù, interpretata da Margherita Mazzucco. È un effetto strano, come strana e estranea è sempre rimasta quella voce così distaccata e graffiante di Rohrwacher; ma anche questo è un esempio di come una scelta inattesa di regia possa farci ripensare meglio anche la storia di partenza. La linea narrativa prevalente nel terzo libro di Ferrante è la storia del salto di classe compiuto da Elena, che si fidanza con il figlio di un noto professore universitario, pubblica il suo primo libro anche grazie alle conoscenze giuste di sua suocera, si sposa e ha due figli da un marito tanto affettuoso quanto indisposto, in assoluta buona fede, a riconoscerle un piano di confronto paritario; mentre intanto Lila si ammazza di lavoro in una fabbrica di salumi e partecipa alle lotte sindacali. Il passaggio di regia da Saverio Costanzo a Daniele Luchetti accompagna bene in effetti il salto di prospettiva della terza parte, nel senso che mentre la regia delle prime due stagioni lavorava di più sulla relazione simbiotica tra Lila e Lenù, strette insieme come per magnetismo, adesso invece la storia pubblica conquista spazio, e in molte scene riconosciamo il regista di Mio fratello è figlio unico (2007), o Anni felici (2013). Le parti migliori sono quelle dedicate alla vita in fabbrica, mentre quelle sul terrorismo e sul femminismo sono belle, fanno vedere un’Italia troppo poco raccontata, ma talvolta restano didascaliche. Negli episodi di Costanzo era tutto grigio. Adesso dominano luci e colori gialli effetto vintage, in certi casi assecondano un gusto troppo rétro; ma le scene girate a tavola, a casa della famiglia di Lenù, o nel quartiere, sono magistrali, dirette con sapienza, capaci di narrare la forza tremenda del non detto. Le protagoniste cambieranno nella prossima stagione, per fortuna, perché già in questa terza, negli ultimi episodi soprattutto, troppe volte sembrano due ventenni travestite da donne adulte per una festa anni 70.
DANIELA BROGI
A proposito di L’amica geniale, il “Guardian” ha pubblicato recentemente questa corrispondenza tra Elena Ferrante ed Elizabeth Strout, scrittrice premio Pulitzer autrice di Olive Kitteridge. [in inglese]. Ferrante aveva dialogato anche con Marina Abramovic, lo scorso settembre, sul “Financial Times” (gli abbonati a “Internazionale” possono leggere l’articolo tradotto qui).
È nato WICIP – Women Italian Cinema. An Inclusive Project, appuntamento internazionale per la promozione del cinema italiano scritto e diretto da donne. Realizzato in collaborazione con 12 paesi, il comitato scientifico ha per il 2022 scelto cinque film - Being my Mom di Jasmine Trinca, Corpo a corpo di Maria Iovine, Faith di Valentina Pedicini, La ragazza ha volato di Wilma Labate, Le sorelle Macaluso di Emma Dante – che verranno proiettati in 20 location. Il primo appuntamento si è svolto il 7 marzo al ICFF - Italian Contemporary Film Festival di Toronto.
In onda l’11 marzo in prima serata su Sky Arte (e poi disponibile su NOW e SkyGo) vi segnaliamo il documentario Be Natural – The Untold Story of Alice Guy-Blaché che illumina la biografia e l’opera di Alice Guy, pioniera fondamentale del cinema delle origini, tra le prime persone a sperimentare un cinema narrativo.
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