Singolare, femminile - #016: Ai confini del mondo
Singolare, femminile
lo schermo delle donne
- di Alice Cucchetti e Ilaria Feole -
#016 - Ai confini del mondo
Ciao ,
questa è Singolare, femminile, un viaggio settimanale attraverso i film, le serie televisive, le autrici, le attrici che hanno fatto e stanno facendo la storia del cinema e della tv.
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L’estate volge al termine, ma non siamo pronti a lasciare le spiagge: questa settimana visitiamo quelle di Lezioni di piano di Jane Campion (che intanto si prepara a sbarcare al Lido con il suo ultimo film, The Power of the Dog) e Ritratto della giovane in fiamme di Céline Sciamma. In una piccola prosecuzione dello speciale spiagge di Film Tv n° 32/2021.
Lezioni di piano
Sole su una spiaggia immensa, onde in tumulto alle spalle, scogliere incombenti e giungla di fronte, ci sono Ada e Flora, una donna e una bambina in attesa. Una donna, una bambina, diverse casse e un pianoforte. In quelle ore incerte, in quel tempo sospeso tra un arrivo e una ripartenza, madre e figlia non sono di nessuno, o forse sono solamente l’una dell’altra: i marinai che le hanno accompagnate sulla costa della Nuova Zelanda, al termine di un viaggio lunghissimo cominciato in Scozia, sono ripartiti, dopo averle scaricate a destinazione, bagagli tra i bagagli; il nuovo marito, un colono britannico che ha scelto Ada “per posta”, per mezzo di un ritratto, decidendo di prenderla in moglie nonostante sia muta e già madre, non si è ancora presentato “a ritirarle”. La natura ostile le assedia, eppure questo è un momento di quiete prima della tempesta, una sorta di microscopica e improbabile utopia. Senz’altro riparo a disposizione, Ada ha utilizzato lo scheletro di una delle proprie ottocentesche gonne – letteralmente, una gabbia – per farne una piccola tenda a loro misura, ha acceso un lume, racconta alla bambina storie silenziose e tattili in un linguaggio di segni e tocchi che solo loro due possono capire. È una piccola precaria pace. Sotto quella stessa crinolina si consumerà, più avanti nel film, il primo atto sessuale pienamente consensuale tra Ada e George Baines, una resa felice, sollevata e incondizionata di lui al piacere di lei.
Sole su una scogliera battuta dal vento e baciata dal sole, la schiuma che s’infrange sulle frastagliate e imponenti falesie, ci sono due donne, Marianne e Heloïse. Fissano l’orizzonte, una a fianco all’altra, e, di profilo, sembra siano una sola persona. Quando la prima si volta a guardare la seconda, diventano due. Si guardano, ancora, reciprocamente. Un attimo prima quelle stesse scogliere, ai nostri occhi e a quelli di Marianne, significavano solo un angoscioso pericolo di morte. «Ho sognato di farlo per così tanto tempo» ha detto Heloïse dopo aver corso a perdifiato fin sull’orlo del precipizio. «Morire?» ha domandato col fiato corto Marianne. «Correre» è la risposta dentro cui Heloïse ha sciolto ogni paura insieme a un desiderio disperato di libertà. Saranno poi quelle stesse falesie le uniche testimoni del loro primo appassionato bacio.
Ritratto della giovane in fiamme
Mettere in dialogo Lezioni di piano di Jane Campion e Ritratto della giovane in fiamme di Céline Sciamma è così naturale che quasi ogni recensione del secondo si è sentita in dovere di citare il primo. Uscito nel 1993, Lezioni di piano (o semplicemente The Piano, come da più preciso titolo originale) vince la Palma d’oro ex aequo con Addio mia concubina, facendo di Campion (al terzo lungo, dopo Sweetie e Un angelo alla mia tavola) la prima regista nella Storia a ricevere il premio (e l’unica fino a quest’anno, in cui al Festival ha trionfato Julia Ducournau con Titane). Dopo l’incoronazione sulla Croisette il film guadagna un successo inarrestabile, coronato dai tre Oscar dell’anno successivo alle due attrici – Holly Hunter protagonista e l’undicenne Anna Paquin non protagonista – e a Campion per la sceneggiatura originale (l’autrice è pure nel ristrettissimo “club” di donne candidate alla regia, ma quello è l’anno di un’altra attesa consacrazione, quella di Steven Spielberg con Schindler’s List). Al di là di premi e numeri, Lezioni di piano è un titolo-terremoto, capace di imporsi contemporaneamente sia nel canone del cinema d’autore sia in quello femminile-femminista – per quanto non manchino voci contrarie, in entrambi gli ambiti –, e soprattutto di fondare un immaginario preciso, impossibile da ignorare parlando di amori in costume, spiagge e desiderio. A sua volta, è parte di una discendenza, soprattutto letteraria, in gran parte femminile: la poesia di Emily Dickinson e il romanzo gotico-romantico ottocentesco, in particolare Cime tempestose di Emily Brontë e Il risveglio di Kate Chopin (e per questo potrebbe certamente dialogare anche con Wuthering Heights di Andrea Arnold).
Céline Sciamma evoca direttamente Lezioni di piano nella prima (se si esclude la cornice narrativa in flashforward) scena di Ritratto della giovane in fiamme, uscito nel 2019, vincitore a Cannes del premio per la miglior sceneggiatura e candidato all’Oscar come miglior film straniero. Su una piccola barca instabile, nel mezzo di un mare agitato, la cassa che contiene le tele della pittrice Marianne finisce in acqua, e lei si tuffa dietro di loro – come nel finale di Lezioni di piano Ada si lasciava trascinare verso il fondo dell’oceano dal peso dell’amato pianoforte, la sua arte, la sua voce. Come in una dichiarazione d’intenti, però, Marianne corre al salvataggio dei propri strumenti e riemerge dall’acqua nuotando da sé, dopo averli recuperati; mentre a Ada lo scatto di vitalità e l’istinto di sopravvivenza che la spingono in superficie dopo aver abbandonato il piano agli abissi giunge come un’inaspettata sorpresa, e saranno poi i compagni maori di Baines a trarla in salvo sulla barca. Ma sono molti gli evidenti legami, strutturali, stilistici e tematici, tra i due film, a partire dal meccanismo che mette in moto le rispettive trame, ovvero il ritratto: quello attraverso cui il colono Alisdair Stewart ha “conosciuto” e scelto come sposa Ada nonostante si trovasse dall’altra parte del mondo, e quello che Marianne è chiamata a dipingere sull’isola della Bretagna in cui vive Heloïse, così che la madre di lei possa darla in sposa a un gentiluomo milanese senza che questi la veda mai, prima, dal vivo. Condividono anche l’impalcatura narrativa, con il racconto racchiuso tra due estremi definiti, in entrambi i casi identificati dal voice over della protagonista e da alcune scene che si svolgono in luoghi diversi e lontani dal mondo dell’azione principale. Come fossero fiabe, o miti, da far rivivere nel racconto, nella memoria, e infatti Lezioni di piano è spesso in rima con la fiaba di Barbablù, messa in scena dalla piccola comunità di coloni britannici (e interrotta dai maori), mentre Ritratto della giovane in fiamme disseziona il mito di Orfeo ed Euridice, di cui Heloïse, Marianne e la domestica Sophie danno tre interpretazioni diverse, e che poi la pittrice dipingerà dandogli il sapore struggente di un addio. Naturalmente sono entrambi film su un’artista – anche se forse “inconsapevole” nel caso di Ada – che utilizzano scopertamente le arti (la pittura, la musica, la letteratura) come materia costitutiva oltre che come argomento d’indagine. Sono storie sul desiderio, storie sullo sguardo, su come il primo nasca e cresca attraverso il secondo, su come entrambi definiscano un’identità.
Ritratto della giovane in fiamme
L’uso che le registe fanno delle arti figurative è esplicito, in inquadrature che hanno chiari riferimenti pittorici: Campion convoca platealmente il romanticismo ma con ampi tratti surrealisti, mentre Sciamma oscilla tra neoclassicismo, ispirazioni romantiche, verismo e impressionismo (vale la pena notare come Sciamma abbia scelto di girare in digitale, ideando insieme alla direttrice della fotografia Claire Mathon nuovi espedienti d’illuminazione per restituire il più possibile le luci naturali e soprattutto quelle dei fondamentali fuochi, falò e candele, riuscendo a ottenere una straordinaria nitidezza cromatica ma senza perdere la qualità pittorica delle immagini). Sono proprio i memorabili totali delle rispettive spiagge, soprattutto, ad apparirci come grandi dipinti, così cogliendo una travolgente sovrapposizione (romantica, inevitabilmente) tra gli stati d’animo delle protagoniste e i sublimi scenari in cui sono immerse.
La musica gioca invece un ruolo opposto, nei due film, e ne rivela anche le profonde differenze. In Ritratto della giovane in fiamme non c’è musica extradiegetica, il racconto è dominato da lunghi silenzi, rumori d’ambiente e suoni di elementi naturali (le onde, il vento, il crepitio del fuoco). Compaiono solo due brani, entrambi cruciali: l’Estate delle Quattro stagioni di Vivaldi («ce n’est pas joyeux, mais c’est vivant»), che nella prima parte del film Marianne suona su un vecchio clavicembalo per Heloïse (la quale prima d’allora non ha mai sentito musica se non quella d’organo in chiesa), e che torna nell’incredibile sequenza conclusiva; e il canto a cappella delle donne del villaggio, innalzato durante un falò dai contorni stregoneschi sovversivamente rassicuranti (accennati riferimenti alla stregoneria ci sono anche nel film di Campion: «Lei non suona come suoniamo noi...»). Quest’ultima è una composizione realizzata apposta per il film dal produttore di musica elettronica Para One (già con Sciamma in Naissance des pieuvres e Tomboy) e da Arthur Simonini, con liriche in latino scritte dalla regista. Liriche ambivalenti: le donne cantano «non possum fugere», “non posso fuggire”, una constatazione in linea con la situazione personale di Heloïse e, in generale, con la condizione della donna non solo settecentesca; ma, come ha rivelato Sciamma in diverse interviste, il testo è in realtà il libero adattamento di una celeberrima citazione nietzschiana che recita: «Tanto più ci innalziamo, tanto più piccoli sembriamo a quelli che non possono volare». In Lezioni di piano, al contrario, la musica è ovunque, col tema di Michael Nyman entrato immediatamente nelle playlist della colonne sonore più celebri e amate della storia del cinema. Da un certo punto di vista, Campion sembra utilizzare la soundtrack in modo convenzionale, per sottolineare il sentimento della scena e provocare la giusta reazione nello spettatore. Ma il confine tra diegetico ed extradiegetico è spesso più sfuggente e sottile di quel che sembra a prima vista/ascolto: la musica è la voce di Ada, è l’espressione del suo desiderio e del suo struggimento (non sempre e non solo per Baines, quanto per se stessa, un’identità scissa identificata dalla separazione fisica tra sé e il pianoforte), e più di una volta il passaggio fluido e impercettibile tra i due piani restituisce una sorta di equivalente musicale del monologo interiore. È evidente nella seconda scena sulla spiaggia, quando Baines accompagna Ada e Flora al pianoforte che Stewart aveva scelto di abbandonare: di nuovo, con una punta di surrealismo – l’immagine della pianista solitaria che suona su una riva ai confini del mondo, la bimba “alata” che fa la ruota tra le onde –, sulla battigia si erige una piccola impetuosa pace, la parentesi salvifica da una civilizzazione claustrofobica (e patriarcale), in cui Ada si abbandona instancabile all’estasi, Flora danza libera, e Baines sembra scrutare (e tentare di capire) lo squarcio di un nuovo mondo intravisto per la prima volta.
Lezioni di piano
Lezioni di piano e Ritratto della giovane in fiamme (opere dalla profondità oceanica, su cui vorremmo spendere altre migliaia e migliaia di battute) si concludono su due immagini potentissime, capaci d’avvinghiarsi alla memoria dello spettatore: il pianoforte di Ada poggiato sul fondale marino, con la donna sospesa sopra di esso, il piede intrappolato nella corda (ancora, un’immagine surrealista); il lungo primo piano sul volto di Heloïse, un crogiolo inestricabile e irriducibile d’emozioni contrastanti, l’esperienza soggiogante della bellezza mescolata alla disperazione del rimpianto per una felicità, ma soprattutto per un’identità perdute. Sono immagini – come ha notato Sciamma parlando del suo finale – in cui il pubblico riemerge dalla storia, torna a prendere coscienza di sé, nel primo caso perché messo a confronto con un’immagine indecifrabile (in opposizione al lieto fine appena visto), nel secondo con una performance che eccede il personaggio. Ritratto della giovane in fiamme è un congegno raffinato e complesso, una miracolosa fusione di passione mélo e teoria dello sguardo; Lezioni di piano resta, quasi 30 anni dopo, un mistero impossibile da sciogliere fino in fondo, un grumo contraddittorio, insieme malinconico e furente, qualcosa che s’avvicina alla definizione di “sublime”. Sulle rispettive spiagge, al confine tra mare, terra e cielo, al limitare del mondo, costruiscono per un breve tempo sospeso e indimenticabile uno spazio alieno, un’utopia egualitaria, un’ipotesi di libertà dentro la quale guardarsi, e finalmente vedersi, davvero. ALICE CUCCHETTI
La Settimana internazionale della critica che si svolge quest’anno nell’ambito della Mostra internazionale d’arte cinematografica ha alla guida, per la prima volta, una delegata, Beatrice Fiorentino. Che per noi di Film Tv, sul n° 50/2019, aveva scritto un pezzo sulle registe fondamentali della Storia del cinema, nel quale si parla anche, naturalmente, di Campion e Sciamma. Ve lo riproponiamo.
Le donne con la macchina da presa
Dalla scorsa settimana circola in rete l’hashtag #100FilmsByWomen, lanciato da BBC Culture per promuovere i suoi “cento migliori film diretti da donne”, i più votati in un sondaggio che ha coinvolto 368 esperti di cinema in 84 paesi. L’esito del poll è prevedibile e un po’ banale: etichettato sin dai tempi dell’uscita in sala nel 1993 come fulgido esempio del cosiddetto “cinema al femminile”, svetta ai vertici Lezioni di piano di Jane Campion, in una classifica che, altrettanto prevedibilmente, è parziale, principalmente bianca, quasi solo americana o europea. Ma è pure chiaro che la composizione del podio (al secondo posto c’è Agnès Varda, al terzo Chantal Akerman, l’intera classifica su bbc.com), al di là del gioco di chi è dentro e chi è fuori, chi viene prima o dopo, chi c’è e chi non c’è, è una questione secondaria, relativa e marginale, perché il punto è ricordare che accanto ai Welles e ai Truffaut, ai Visconti e ai Griffith, ai Fellini, ai Rossellini e agli altri riconosciuti grandi maestri, il cinema è fatto anche dalle donne: cineaste audaci o rigorose, militanti o sognanti, sperimentatrici, libere, anarchiche, ribelli o engagé, in qualche caso pioniere e spesso ingiustamente trascurate. È un’ottima cosa se un sondaggio o una classifica, andando oltre lo spirito ludico e un po’ narcisistico che li accompagnano, diventano qualcosa di più serio offrendosi come occasione o pretesto per ripensare la storia del cinema secondo sguardi e angolazioni diversi rispetto a quelli attraverso i quali siamo abituati a ragionare. In un percorso che - inaugurato da Alice Guy-Blaché, prima donna a sedere dietro la macchina da presa a un anno dall’invenzione del cinematografo - si vorrebbe più integrato e meno “parallelo”, parte fondante della storia del cinema e non solo “eccezione”. Non sono affatto poche, infatti, le registe che hanno lasciato il segno, non solo per coraggio e determinazione, ma per valore artistico: dalla discutibile figura di Leni Riefenstahl, vicina al Führer, che in Olympia e Il trionfo della volontà inventò l’estetica nazionalsocialista, a Lois Weber (anche attrice, sceneggiatrice e produttrice) che all’alba del Novecento, nella sua sconfinata filmografia, affrontava temi “caldi” come contraccezione, droga, pena di morte, emancipazione femminile, o a Ida Lupino, modernissima e anticonformista, fermamente contraria al ruolo passivo e spesso decorativo nel quale la donna era relegata dall’industria di Hollywood. Che si scelga di restare sui famosi 100 titoli o si preferisca piuttosto allargare l’orizzonte a tutta la produzione femminile dal 1896 a oggi, a stupire è comunque l’immensa varietà di registro e di approccio, smentendo l’odiosa tendenza a voler incasellare a tutti i costi le registe (le donne) sotto un’etichetta di sentimentale romanticismo che corrisponde per lo più a un usurato cliché. Che di certo non calza addosso a Kathryn Bigelow, l’unica ad aver mai raggiunto il premio Oscar (con The Hurt Locker), universalmente celebrata per il suo cinema muscolare, il ritmo, l’azione e l’adrenalina, un cinema teoricamente “maschile” insomma, se non ci si sofferma sulla forza tragica dei personaggi femminili che abitano la sua filmografia (la dolce vampira Mae di Il buio si avvicina o la madonna nera Mace di Strange Days, allegoricamente madri, salvatrici, nutrici di uomini fragili e incerti). Così come questa etichetta non si presta a definire Claire Denis, figura altrettanto potente ma più aliena, inclassificabile, sempre sfuggente, spiazzante e insolitamente sensuale, o a Penelope Spheeris, la regista più punk di tutti i tempi. Ma neppure a Lucrecia Martel, graffiante, disturbante e anti-borghese, una delle voci più affilate dell’America latina, o a Chantal Akerman, radicalissima e intellettuale, né alla più amata di tutte, Agnès Varda, che ha inventato la nouvelle vague prima della nouvelle vague, e presente nella Top 100 con ben sei dei suoi titoli senza tetto né legge. Chissà poi quanti adorano John Cassavetes ma ignorano l’esistenza di Barbara Loden, mentre si spera che i più orientati allo sperimentalismo non conoscano solo i lavori di Warhol e Anger ma anche Le margheritine di Vera Chytilová e Meshes of the afternoon di Maya Deren, titolo seminale che anticipa al 1943 le avanguardie degli anni 60. Da sapere anche che, se oggi in Italia ci sono Alice Rohrwacher, Susanna Nicchiarelli e Asia Argento (e Valeria Golino, Valeria Bruni Tedeschi e altre), in passato ci sono state Liliana Cavani e Lina Wertmüller, ma prima di tutte, negli anni 20, Elvira Notari, autrice prolifica e di matrice verista, invisa alla censura per la rappresentazione “troppo realistica” della vita nel buio dei vicoli partenopei. E il presente? Sempre multicolore. Porta la firma sophisticated-pop di Sofia Coppola, ma strizza l’occhio ai magnifici Eighties con Ana Lily Amirpour, ridefinisce l’identità dell’immagine della società contemporanea assieme a Mati Diop o insegue un nuovo possibile canone di femminilità seguendo la rotta segnata da Céline Sciamma (dal 19 dicembre 2019 in sala con Ritratto della giovane in fiamme, quasi un film-manifesto, il più intimo e estremo della sua filmografia). In questo percorso sommariamente tracciato resta solo da immaginare il futuro. Un futuro che stando all’impegno dei diversi movimenti che si battono per la parità di genere nell’industria cinematografica, con immensa fatica, potrebbe anche essere donna, come piacerebbe a Ferreri. Ce la facciamo?
BEATRICE FIORENTINO
[pubblicato su Film Tv n° 50/2019]
Diverse registe afgane hanno lanciato appelli alla comunità cinematografica internazionale, denunciando l’intenzione dei talebani di rintracciarle, imprigionarle e ucciderle a causa del loro lavoro. Le dichiarazioni sono stati raccolte da “Variety” in questo articolo, mentre la filmmaker Sahraa Karimi ha pubblicato una lettera aperta. Mentre scriviamo ci giunge la notizia che la regista Shahrbanoo Sadat è riuscita a fuggire da Kabul grazie all’intervento del governo francese. Vi invitiamo, se potete, a fare una donazione in sostegno delle donne afgane a Pangea Onlus, associazione contro la discriminazione e per i diritti delle donne attiva a Kabul fin dal 2003.
Vi abbiamo già parlato (e vi parleremo ancora) della podcaster Karina Longworth, critica e studiosa della Hollywood classica. Da qualche settimana è iniziato un suo nuovo podcast, scritto insieme a Vanessa Hope e incentrato sull’attrice Joan Bennett. S’intitola Love is a Crime e ha un cast vocale che comprende Jon Hamm e Zooey Deschanel. [in inglese]
Se volete saperne di più sulla musica di Ritratto della giovane in fiamme, ecco un articolo che fa al caso vostro. Su Senses of Cinema trovate un bel compendio della poetica di Jane Campion, mentre sul “Guardian” un’intervista alla regista rilasciata in occasione del venticinquennale di Lezioni di piano. [in inglese]
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