Singolare, femminile - #011: Dispacci francesi

Singolare, femminile
lo schermo delle donne
- di Alice Cucchetti e Ilaria Feole -
#011 - Dispacci francesi
Ciao ,
questa è Singolare, femminile, un viaggio settimanale attraverso i film, le serie televisive, le autrici, le attrici che hanno fatto e stanno facendo la storia del cinema e della tv.
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Uno sguardo al Festival di Cannes 2021, in pieno svolgimento, e ai titoli di un quintetto di autrici europee che sulla Croisette hanno riconfermato la peculiarità dei loro sguardi: Andrea Arnold, Clio Barnard, Catherine Corsini, Julia Ducournau e Mia Hansen-Løve.

Bergman Island
Edizione festivaliera della nostra newsletter: in trasferta al Festival di Cannes, abbiamo avuto modo di apprezzare i nuovi titoli di un quintetto di registe europee il cui lavoro seguiamo da anni sulle pagine di Film Tv; cinque sguardi che coi film portati in Croisette (tre nel Concorso principale, altre due nelle sezioni collaterali), tra documentario e cinema di genere, tra commedia e spaccato sociale, hanno al contempo confermato e innovato il proprio sguardo d’autrice.
La fracture di Catherine Corsini
Regista e sceneggiatrice francese attiva da quarant’anni, Corsini torna in gara per la Palma d’oro a 20 anni esatti da La répétition - L’altro amore con un film, La fracture, che per chi scrive potrebbe facilmente ambire a qualche premio. Cantrice dell’universo queer, da Les amoureux a La belle saison, Corsini fa parte dell’associazione francese collectif 50/50, che si impegna per il raggiungimento della parità di genere e per l’inclusività nell’industria audiovisiva, e la sua militanza prosegue fuori e dentro lo schermo: con La fracture affronta di petto alcuni nodi cruciali del clima sociopolitico della Francia contemporanea, ma lo fa scegliendo una chiave narrativa brillante, nella prima metà del film quasi di pura commedia, mettendo in scena gli incontri/scontri farseschi tra una manciata di individui per caso costretti a passare la notte in un affollato ospedale parigino. Nel caso di Raf (una irresistibile Valeria Bruni Tedeschi) si tratta di un incidente sciocco: si è rotta la caviglia inseguendo la (ex) compagna Julie (Marina Foïs), mentre Yann (Pio Marmaï) è stato ferito in uno scontro con le forze dell’ordine durante una manifestazione dei gilet jaune sugli Champs Élysés. Una coppia borghese, benestante e avvolta nel proprio privilegio, a confronto con un camionista proletario sceso per strada per far valere i propri diritti: la frattura, diventa chiaro, non è solo quella dell’osso malandato di Raf, ma quella che percorre trasversalmente la società francese e che mette in discussione i presunti valori tradizionali della sinistra e della destra (un tema complesso e molto bene affrontato, in questo stesso Festival, dal bel documentario di Jean-Gabriel Périot presentato alla Quinzaine des réalisateurs, Retour à Reims). La commedia è puntuta e non risparmia colpi bassi a nessuna delle due “fazioni”, ma la struttura del film, rinchiuso in poche stanze di ospedale e narrato quasi in tempo reale, fa montare per gradi una tensione sottile, con cui la regista trasla dentro le corsie asettiche le medesime brulicanti istanze di lotta che sfilano lungo i viali parigini: la farsa cede il passo al thriller, e la satira mostra i denti di una frattura scomposta per la quale, il film di Corsini lo dice chiaramente, non c’è gesso che tenga.

Titane
Titane di Julia Ducournau
Alla proiezione stampa è stato accolto da applausi e da «buuu» e questo, al di là di ogni giudizio di merito, è sempre il segno di un film che sa osare qualcosa di diverso: l’attesa opera seconda della regista parigina di Raw - Una cruda verità è una fiaba nera grondante sangue e olio motore, violentissima e cruentemente ironica. Classe 1983, Ducournau conferma con questo film un talento fuori dal comune, e prosegue il suo lavoro sul corpo femminile e sul genere horror come chiave di lettura del mutamento sociale e individuale: Raw era il coming of age (e il coming out) di una giovane donna che scopriva la sua inesorabile natura di cannibale, ma Titane alza la posta mettendo al centro del film il corpo cangiante di Alexia (una incredibile Agathe Rousselle, debuttante strepitosa), che da bimba, a seguito di un incidente, si vede innestare una placca di titanio nel cranio, sviluppando da adulta una passione erotica ed estrema per le carrozzerie delle auto e per il metallo in generale. Tra Cronenberg e Winding Refn, ma con uno sguardo molto personale e paradossalmente delicato nel tratteggiare il ritratto di questa donna bionica e brutale, Ducournau esaspera il realismo anatomico di contusioni, ferite e lacerazioni, all’interno però di un racconto fortemente simbolico e survoltato che mette al centro un corpo femminile in trasformazione. Da figlia a madre, da bimba a donna, da danzatrice sexy a efebico giovane uomo, Alexia muta forma, attraversa e incendia i confini tra i generi, scardinando i cliché dei due ambienti altamente stereotipati a livello sessuale che attraversa: la fiera automobilistica dove le donne non sono che altre carrozzerie e la caserma dei pompieri dove la virilità esibita è una codice inviolabile. Narrativamente spezzato in due dal passaggio tra una famiglia naturale indifferente e fisicamente incapace di accettare la diversità di Alexia a un padre “adottivo” determinato ad amarla al di là della sua identità, Titane è - anche - una riflessione sulla fluidità di genere e sulla fertilità del corpo fuori dai canoni; provocatoria, eccessiva, sovraeccitata.
Bergman Island di Mia Hansen-Løve
Classe 1981, Hansen-Løve è una delle giovani registe più interessanti della scena francese, già al settimo lungometraggio a soli 40 anni: il suo cinema si muove con grazia tra Rohmer e l’autobiografia, esplorando le geometrie dei rapporti umani con sguardo acuto e una spiccata sensibilità per gli ambienti. In un’intervista (vedi sotto) ci ha detto una volta che per lei «filmare i luoghi e filmare le persone è la stessa cosa», e la riflessione risulta lampante vedendo questo suo ultimo lavoro in gara per la Palma d’oro, Bergman Island, in cui al centro di tutto sono i luoghi - mitologici e avvolti, per qualsiasi cinefilo, di un’aura quasi mistica - dove il maestro svedese ha vissuto e girato i suoi film, sull’isola di Fårö: lì si reca la coppia (anche nella vita) di registi e sceneggiatori Anthony e Chris (Tim Roth e la Vicky Krieps di Il filo nascosto), per lavorare sui rispettivi nuovi progetti e farsi ispirare dalla luminosa estate scandinava e dai fantasmi bergmaniani. Hansen-Løve, francese di origine scandinava a sua volta, filma le coste dell’isola e gli interni spartani della casa dove fu girato Scene da un matrimonio con lo sguardo devoto ma ironico di chi conosce il peso di quelle immagini, lasciando che dalla minacciosa solidità di un letto o dalla sensualità delle onde sugli scogli scaturiscano suggestioni cinematografiche molto più eloquenti di quanto la sceneggiatura possa dire. Miscela con leggiadria il bagaglio autobiografico (per 15 anni è stata legata a Olivier Assayas, sodalizio artistico e sentimentale che si riflette come in uno specchio in quello tra i protagonisti) con l’elemento metacinematografico, lasciando che il copione su cui Chris sta lavorando si faccia spazio tra le immagini, dando vita a un film nel film (con Mia Wasikowska) dove il confine tra realtà, finzione e autofiction diviene labile sino a sparire come spuma di mare. Così, tra le pieghe di un omaggio al regista che è stato il maestro indiscusso nel portare sullo schermo gli angoli bui delle relazioni interpersonali, c’è anche il ritratto schietto e luminoso di un’autrice in divenire, delle sue incertezze e della sua ricerca di un posto nel mondo; che sull’isola bergmaniana è prima costretto e soffocato (da fantasmi del passato, dalle preoccupazioni sulle cose che verranno), poi libero di fluire e riscrivere - letteralmente - se stessa e il proprio ruolo.

Cow
Cow di Andrea Arnold
Per chi la segue dal suo esordio Red Road, e ha amato i suoi notevoli drammi Fish Tank, Wuthering Heights, American Honey, può sembrare apparentemente curioso che la regista britannica esordisca, dopo oltre vent’anni di attività dietro la macchina da presa, nel documentario. Con un soggetto, fra l’altro, di primo acchito molto lontano dai suoi intensi studi di personaggi dei film di finzione: la vita di una mucca, filmata per sei anni dando vita al doc Cow, presentato a Cannes fuori concorso. La vacca in questione, cresciuta in un allevamento inglese, si chiama Luma e Arnold l’ha messa al centro del suo film come protagonista assoluta: non ci sono didascalie né voci narranti, la presenza umana è ridotta ai margini, spesso al fuoricampo, la macchina da presa è saldamente ancorata al corpo del bovino, alle sue zampe nel fango, alle mammelle chiuse nei macchinari per estrarre il latte, al ventre che, anno dopo anno, partorisce vitellini (che il documentario segue per qualche tempo, distanti dalla madre). L’approccio sensoriale, epidermico e di assoluta prossimità col soggetto è qualcosa che Arnold mutua dalla sua esperienza nella finzione: tutti i suoi film sono ritratti intimi e viscerali, in cui i protagonisti sono filmati senza distanza e osservati nella loro interazione con l’ambiente. in questo senso, Cow prosegue un lavoro impressionante di studio del corpo in cattività, racchiuso da limiti che nel caso dei protagonisti di Fish Tank o American Honey erano linee invisibili e convenzioni sociali, ma nel caso di Luma sono i confini concreti e per lei invalicabili dell’allevamento e, più in generale, del capitalismo, che si manifestano nelle tempistiche ineludibili dello sfruttamento delle sue risorse: Luma produrrà latte e vitellini finché non sarà più utile all’azienda. Cow non è, però, un pamphlet animalista né un teorema sul veganesimo come stile di vita: ad Arnold non interessa predicare su questi temi, ma piuttosto usare il linguaggio cinematografico per ribaltare con potenza visiva innegabile la centralità dell’uomo nella narrazione dell’animale. Così il suo obiettivo si accosta al muso di Luma dando vita a curiose semi-soggettive in cui guardiamo con gli occhi della mucca, scoprendo prospettive inedite, per vedere un mondo di cui, in quanto consumatori ordinari, solitamente non esploriamo che l’anello finale della catena. Lontano dal rigore formale e politico di Gunda, o dalla brutalità di Le sang des bêtes di Franju, Cow non vuole rieducare il nostro sguardo o la nostra coscienza, ma aprirci alla possibilità di uno sguardo differente (non scevro da sentimentalismi e curiosi tentativi di antropomorfizzazione quasi disneyani), come solo il cinema può fare.
Ali & Ava di Clio Barnard
I nomi di Ali e di Ava sono semplici e brevi, allitterati e abbinabili: eppure non c’è niente di semplice nell’avvicinarsi delle loro esistenze. Ali (l’Adeel Akhtar di Utopia e Sweet Tooth, magnifico), che vive da separato in casa con la moglie, ha origini bangladesi ed è proprietario di appartamenti sparsi per la città (Bradford, nello Yorkshire); Ava (Claire Rushbrook, altrettanto ottima) è di famiglia cattolica irlandese, è un’insegnante di sostegno con quattro figli, cinque nipotini e un paio di uomini sbagliati alle spalle. Diversi per classe sociale, religione, età e quartiere di residenza, Ali e Ava hanno in comune una vitalità contagiosa e una curiosità capace di scavalcare tutti i paletti che i rispettivi amici e parenti mettono al loro rapporto, destinato a crescere a dispetto delle perplessità di tutti i coinvolti. Clio Barnard, autrice di The Arbor e The Selfish Giant, torna a raccontare Bradford, già location dei suoi film precedenti, inquadrando nelle contraddizioni e stratificazioni della città quelle più ampie della società inglese, con piglio realista e crudo (non lontano dal linguaggio della succitata Andrea Arnold): le radici del razzismo duro a morire, il lascito di un padre skinhead, ma anche il pregiudizio della famiglia agiata di Ali nei confronti dei chav (il termine dispregiativo usato per indicare i proletari “cafoni”) come Ava, sono tutti elementi di un calderone culturale lontanissimo dall’acquietarsi. Acque turbolente in cui Barnard ci immerge con la grazia di una sceneggiatura acutissima e attenta alle sfumature, concentrata sulla coreografia di incertezze e bugie che Ali e Ava danzano per abitudine e per terrore. Solcato dai ritmi dissonanti delle rispettive preferenze musicali (Ali ascolta elettronica, Ava folk: tramite cuffie e altoparlanti, le colonne sonore impastano un’unione tanto improbabile quanto fertile), il film edifica con naturalezza una coppia fuori da ogni schema, una rom com disperata e tenera, goffa e del tutto incurante delle convenzioni estetiche (Ava, donna cinquantenne dalla bellezza non canonica, è filmata e interpretata con una sensualità che legittima il diritto alla seduzione e al piacere del suo corpo di donna autentico), anagrafiche e narrative del genere. Dietro i due protagonisti ci sono i rispettivi cori familiari, decenni di tormentato meltin’ pot britannico, ma Barnard ci invita a guardare a tutto questo con gli occhi (e le orecchie, in questo caso) aperti alle possibilità: un piccolo inno umanista e accorato che ha illuminato gli schermi della Quinzaine des réalisateurs e speriamo venga distribuito in Italia. ILARIA FEOLE

Abbiamo intervistato Mia Hansen-Løve in occasione dell’uscita del suo bellissimo Le cose che verranno, in cui ha diretto la grande Isabelle Huppert, su Film Tv n° 15/2017.

Dove nessuno guarda
Intervista a Mia Hansen-Løve
Cosa fare della propria vita quando un matrimonio finisce, di colpo, dopo 25 anni? Se lo chiede Nathalie (incarnata da una folgorante Isabelle Huppert) in Le cose che verranno, quinto lungometraggio della giovane regista francese Mia Hansen-Løve, autrice di Il padre dei miei figli e Un amore di gioventù. Abbiamo parlato con lei del nuovo film, premiato con l’Orso d’argento per la migliore regia alla Berlinale 2016.
Dopo Eden, ispirato a suo fratello, in Le cose che verranno racconta la storia di sua madre: quanto c’è di autobiografico?
In realtà non è strettamente autobiografico, non c’è nessun personaggio basato su di me: mi sono ispirata a mia madre e anche a mio padre, che sono entrambi professori di filosofia, quello è l’ambiente in cui sono cresciuta. Ma Nathalie non è mia madre: è stata influenzata da lei, ma pure da altre donne sue coetanee, perché mi ha colpito il fatto che a una certa età le donne vivano esperienze simili, una sorta di crudeltà della vita, e che spesso vengano lasciate. Questa considerazione mi ha molto spaventata e mi ha fatto pensare alla solitudine che vivono le donne raggiunta una certa età.
Da Le cose che verranno, in effetti, traspare una saggezza che sembra appartenere a un’età più avanzata della sua.
Non credo di essere saggia! Mi dicono spesso che sembro più vecchia di quanto sia, ma invece io mi ritengo la persona più immatura che conosco. Penso che fare film, per me, sia un modo di essere più saggia: il cinema è anche una ricerca di saggezza, e se quest’opera è così non è perché riflette come sono, ma piuttosto perché rispecchia come vorrei essere e la direzione in cui vorrei andare.
Isabelle Huppert è un’attrice dal curriculum impressionante: quanto ha aggiunto al suo personaggio, girando?
Da Isabelle non ti aspetti che aggiunga qualcosa: lei sa dare intensità e intimità a ogni ruolo togliendo, più che aggiungendo, è molto minimalista. Non so come faccia: è il suo talento, o forse è genio, ma la forza che ha traspare in ogni momento, nel suo modo di abitare l’inquadratura. Anche per questo abbiamo avuto una relazione molto facile e tranquilla sul set: per me girare è questione di ritmo, dell’equilibrio tra parole e movimento, e Isabelle è così intelligente da cogliere tutto già durante la lettura del copione. L’unica cosa che le ho chiesto prima delle riprese è stata di cercare insieme una certa tenerezza per Nathalie: volevo che fosse forte, ma non dura, né amara o borderline come solitamente sono i personaggi che lei interpreta. A Isabelle interessava molto questo aspetto, perché è una cosa che non le viene chiesta spesso: per esempio, ho amato molto il suo lavoro in Elle, mentre nel mio film fa esattamente il contrario.
Parlando di «parole e movimento»: Nathalie, come altri suoi personaggi, si muove molto, quasi più di quanto parli.
Per me il movimento è molto importante, è una cosa che è cominciata con Il padre dei miei figli, quando dovevo filmare un personaggio che, facendo il produttore cinematografico, si muoveva molto. Mi piaceva che il suo agire sostituisse la parola, e mi stimolava il fatto di doverlo inseguire, di cogliere gli spostamenti con la macchina da presa, anche quando era più veloce di me, come un vortice. Credo che fare il regista significhi soprattutto seguire il movimento, catturare la vita. Non intendo solo i movimenti fisici, ma anche quelli intellettuali, il movimento come questione morale. Poi, in fondo, i miei film sono ritratti, e non credo di poter ritrarre una persona se non la filmo mentre cammina e si muove.
Le due case, l’appartamento parigino di Nathalie (dove si disputa i libri col marito) e la casa di montagna dove è ospite, sono quasi personaggi aggiuntivi.
Le case per me sono fondamentali e spesso le ho già in mente prima di iniziare a scrivere, anzi; mi influenzano nella fase di sceneggiatura. Per quanto mi riguarda, i luoghi fanno parte della struttura drammatica del film al pari dell’azione e penso sempre prima al modo in cui filmerò dentro gli spazi. La questione dei libri mi stava a cuore: spesso nei film non se ne vedono, nemmeno nelle case di personaggi che sicuramente leggono, oppure si vedono ma si percepisce che sono finti, o scelti senza criterio. In questo caso, per i miei personaggi, volevo che i volumi fossero realistici, li abbiamo scelti uno per uno e abbiamo deciso l’ordine in cui disporli, come avrebbero fatto Nathalie e suo marito. Magari questo poi non si percepisce vedendolo, ma per me era importante che fossero veri! Un po’ come quando Visconti per Il Gattopardo voleva che negli armadi, anche se restavano sempre chiusi, ci fossero lenzuola autentiche: per me è lo stesso coi libri, in tutti i miei film.
Perché è così importante per lei il rapporto fra quei due ambienti, la metropoli e la montagna?
Io sono cresciuta a Parigi, ho vissuto nello stesso appartamento fino a 18 anni: una casa al piano terra in un edificio moderno, vicino alla metropolitana, di cui sentivo sempre il rumore. Non che voglia lamentarmene, era molto bello, ma ogni estate andavamo a casa di mia nonna nell’Ardèche, in montagna, ed è lì che si è formata la mia connessione con la natura, ma non solo; anche la mia relazione con la luce e gli spazi. Quel luogo ha costruito la mia immaginazione e in qualche maniera ha definito il mio modo di fare cinema. Anche il movimento costante fra città e natura è una cosa che ha strutturato la mia vita e segnato il mio essere cineasta.
Nel film vediamo Nathalie alle prese con il restyling della casa editrice per cui scrive; capita spesso, nei suoi film, che si vedano ambienti professionali inusuali, ben poco cinematografici.
Il fatto è che mi piace filmare luoghi, o persone (che poi per me è la stessa cosa), che nessuno vorrebbe riprendere, che nessuno si ferma a guardare. Può suonare ingenuo, ma non mi importa. Mi piace fare film su cose su cui nessuno farebbe film: girare la macchina da presa e riprendere il retro, il backstage. Sento la necessità di parlare di persone nell’ombra, non sotto i riflettori. Nessuno fa film sugli intellettuali, per esempio, se ci provi ti dicono che vuoi essere troppo cerebrale. E nessuno fa film su donne oltre i 50 anni, a meno che non siano povere o colpite da disgrazie: Nathalie invece è benestante, privilegiata, è una donna forte ed emancipata, e il fatto che nessuno sia interessato a parlarne mi fa venire ancora più voglia di raccontare un personaggio così.
Anche in Le cose che verranno c’è un “prima” e un “dopo”, rispetto a un evento cruciale: è una struttura che sente sua?
È così, e vorrei liberarmene, ma non lo faccio apposta, non me ne accorgo nemmeno. Poi per fortuna ci siete voi giornalisti che mi fate notare che mi ripeto... A volte, inconsciamente, si usano degli espedienti, anche se spero che non si tratti solo di questo; non so bene perché lo faccio, e credo che solo il mio psicanalista potrebbe rispondere, ma mi trovo spesso a raccontare di personaggi abbandonati o traumatizzati. In fondo si tratta di cose banali, ma anche universali. Però vorrei cambiare, credo che i miei prossimi film saranno diversi.
Già in questo lavoro si percepisce un’ironia abbastanza inedita nel suo cinema.
Crescere significa anche cambiare, invecchiare non è solo un fatto deprimente: si trova più leggerezza e più luce. Sicuramente a 25 anni sentivo più la necessità dell’oscurità, mentre crescendo si diventa meno seriosi e cupi. Ma credo che qui la levità venga soprattutto da Nathalie, dalla sua autoironia, che poi sono tratti di mia madre; se il personaggio fosse stato più serio e triste, questo sarebbe stato un film diverso.
[pubblicato su Film Tv n° 15/2017]

Altre news da Cannes: Maura Delpero, autrice di Maternal, è la prima donna italiana (nata a Bolzano, la regista si è formata a Buenos Aires) insignita dello Young Talent Award di Women in Motion, premio collaterale dal 2015 dedicato a influenti personalità femminili dell’audiovisivo.
Sophia Loren, Monica Vitti, Franca Valeri, Silvana Mangano e molte altre sono Le ragazze irresistibili del cinema italiano, celebrate a Milano con una rassegna inaugurata il 13 luglio per l’Estate Tabacchi (il cinema in terrazza) della Cineteca Milano MIC: 16 film con protagoniste icone al femminile del nostro cinema degli anni 50 e 60.
A Roma, due serate di eventi speciali in preparazione al Festival Cinema d’Idea - International Women’s Film Festival (che si terrà a settembre): il 14 e il 20 luglio, al Cantiere di Trastevere, proiezioni di film (tra cui il documentario Six Angry Women di Megan Jones), presentazioni e monologhi teatrali.
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