Singolare, femminile - #008: Questione di sguardo
Singolare, femminile
lo schermo delle donne
- di Alice Cucchetti e Ilaria Feole -
#008 - Questione di sguardo
Ciao ,
questa è Singolare, femminile, un viaggio settimanale attraverso i film, le serie televisive, le autrici, le attrici che hanno fatto e stanno facendo la storia del cinema e della tv.
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La serialità tv che accoglie storie, personaggi e voci della comunità LGBTQ, negli ultimi anni, sembra in costante aumento. Ma cos’è davvero una serie queer? Ne abbiamo parlato con Antonia Caruso, curatrice dell’antologia Queer Gaze.
INTERVISTA AD ANTONIA CARUSO
Giugno è il mese del Pride, e tutto sembra improvvisamente arcobaleno: le strade, le vetrine, i cartelloni pubblicitari, gli spot, i giornali, le cornici delle immagini-profilo di Facebook e i programmi tv. Negli ultimi anni, anche la serialità televisiva dà l’impressione di essere sempre più arcobaleno: quella della rappresentazione della comunità LGBTQ nei media è una storia lunga e altalenante, che affonda fin nelle origini del cinema e in quelle della tv, ma a mettere in fila i titoli che negli ultimi anni sono arrivati sui nostri piccoli schermi – Looking, Transparent, I Love Dick, Pose, Sense8, Vida, Sex Education, Gentleman Jack, SKAM, It’s a Sin sono solo alcuni tra quelli che consigliamo, e l’elenco potrebbe allungarsi - troviamo voci, storie e personaggi che solo qualche anno fa non avrebbero avuto spazio. Ne abbiamo parlato con Antonia Caruso, attivista trans/femminista, giornalista, editrice (edizioni minoritarie) e curatrice di Queer Gaze (Asterisco, pp. 120, € 15), un volume di saggi – firmati da Valerio De Simone e Stefano Guerini Rocco, Irene De Togni, Federica Fabbiani, Antonia Anna Ferrante, Elisa Manici, Lucia Tralli, Mijke van Der Drift ed Eugenia Fattori – che indagano questo panorama sfaccettato e molteplice.
La produzione di serie tv che raccontano storie o comprendono personaggi queer è indubbiamente aumentata nell’ultimo periodo, ma Queer Gaze mette in luce anche un altro aspetto di questo processo, ovvero la sua tendenza “normalizzante”.
La premessa obbligatoria è che, parlando di tv, parliamo di meccanismi produttivi complessi che mettono in gioco uno sforzo industriale consistente. Lo spostamento di molto pubblico dalla tv tradizionale a nuove modalità di fruizione come lo streaming ha concesso ad alcune produzioni e ad alcuni autori di non dover dipendere più direttamente dagli inserzionisti e dalle necessità del palinsesto e quindi ha dato loro una, seppur relativa, maggiore libertà. Una cosa che ho capito è che il queer gaze, lo “sguardo queer”, in realtà è uno sguardo della critica, non può essere mai uno sguardo della produzione. Perché la produzione è sempre comunque determinata da dinamiche e meccanismi economici, per quanto possa esserci al suo interno un’autorialità importante, per esempio di alcuni showrunner potenti come Ryan Murphy o Joey Soloway (che restano comunque casi isolati, insieme a Russell T Davies, che però si muove in un altro mercato, quello britannico). In Queer Gaze non abbiamo inteso il termine “queer” come un sinonimo di LGBT, non è un termine identitario, ma è un posizionamento politico, anticapitalista e non normativo. Negli Stati Uniti “queer” viene usato normalmente come un termine ombrello, noi abbiamo voluto rivendicarne la radice politica: è chiaro che da questo punto di vista i personaggi e le storie veramente queer, che operano una rottura sia dei canoni narrativi sia nella rappresentazione dei personaggi e anche dei corpi sono molto limitati. Se da una parte, è vero, c’è una maggiore libertà, dall’altra è come se, di fatto, si fosse creato un nuovo canone. Lo si può riconoscere chiaramente, per esempio, nella tassonomia di Netflix: “drammi LGBTQ” è diventato un genere.
La produzione di Netflix è organizzata, fin nei dettagli, attorno al fantomatico “algoritmo”, che utilizza i dati degli utenti per cercare di catturare sempre di più e sempre più a lungo il loro tempo. Anche la categorizzazione “LGBTQ” diventa una parte di questa strategia.
Esatto. Parlavi inizialmente di normalizzazione. Ci sono due modi di intendere il termine: uno è il movimento che porta ad avere, magari in un contesto di serialità molto corale, più personaggi LGBTQ, non solo a livello di quantità – per esempio in Grey’s Anatomy c’è un’interprete che ha fatto coming out come persona non binaria, e il suo personaggio nella serie ha fatto lo stesso. Oppure ci sono personaggi LGBTQ che da comprimari costantemente in secondo piano diventano sempre più effettivi co-protagonisti (vedi Sex Education). Questo è un modo “neutro” di intendere il termine “normalizzazione”; c’è poi un’accezione negativa, che corrisponde all’assimilazione a una norma, che ovviamente è una norma etero e cis. Quindi, in questo contesto, la portata rivoluzionaria queer del personaggio viene neutralizzata: quelli che vediamo sono quasi sempre gay e lesbiche middle o upper class, molto borghesi... è difficile che ci sia un personaggio LGBTQ molto problematico, molto disturbante. Per esempio: se prendiamo le prime stagioni di Tales of the City, che risalgono a più di vent’anni fa, la questione del sesso gay era trattata in modo molto più esplicito. Paradossalmente, invece, nella nuova stagione fatta recentemente da Netflix si è tutto molto neutralizzato, appiattito: le prime annate erano davvero molto più coraggiose, anche considerando il contesto; questa, in cui si sarebbe potuto osare perché non c’era nessuna censura, è diventata praticamente solo una soap opera annacquata.
La nuova stagione di Tales of the City era stata anche criticata, com’è successo anche ad altri film e serie negli ultimi tempi, per il fatto di utilizzare un’attrice cisgender (la compianta Olympia Dukakis) nel ruolo di una donna trans...
Non avrebbe avuto senso secondo me cambiare attrice! Anche perché la prima attrice trans a fare un ruolo trans in tv è arrivata solo negli anni duemila. Pose che vorrebbe essere la serie più rivoluzionaria rispetto alla media, e ha un cast di attrici trans, sicuramente racconta relazioni non borghesi, mette in scena relazioni familiari molto diverse dalla norma, ma contemporaneamente i corpi che rappresenta sono molto cisnormati. Le protagoniste sono tutte bellissime. Scompare il fattore della povertà, anche se fa parte della trama: quella che viene messa in scena è un’idea di povertà assolutamente non realistica (anche se è vero che forse nessuna serie tv, a parte magari Shameless, è mai riuscita a rappresentare l’essere poveri in modo autentico). Il problema sta anche nel fatto che non è chiaro che si tratti di una stilizzazione: soprattutto la prima stagione è costruita sull’immaginario dei film anni 80, da Saranno famosi a Wall Street... quella di Pose è una forma molto postmoderna, ma non per tutto il pubblico è evidente. La cosa davvero importante di Pose è che, oltre al cast, ha creato un ambiente produttivo quasi solo di persone trans, da Janet Mock (la showrunner) ad Angelica Ross a Our Lady J... Di fatto quando parliamo di attori e attrici trans che devono interpretare ruoli trans, non è tanto per una questione di verosimiglianza o conoscenza dell’esperienza, il lavoro dell’attore è appunto quello di rendere credibile anche qualcosa di lontano da sé. Il grosso problema che si vuole mettere in luce è quello dell’accesso a un mondo e a ruoli che alle persone LGBTQ sono ancora sistematicamente negati. Mi sembra che Jen Richards, che ha creato, diretto e interpretato la webserie Her Story, sia stata scritturata per il ruolo di una donna cis in una serie (Blindspot, ndr), ma è un caso più unico che raro.
È questo il passo successivo: un mondo in cui davvero chiunque possa interpretare qualunque personaggio.
Sì, senza dimenticare che tutto questo fa anche parte delle narrazioni dello showbiz, che si costruiscono anche sull’apparato informativo e promozionale, fondamentale per il cinema e lo spettacolo. Io di mio sono sempre scontenta, ovviamente (ride, ndr), ma serie come Pose, anche se magari non sono capolavori, sono passi nella giusta direzione.
C’è un titolo seriale che ritieni soddisfacente dal punto di vista della rappresentazione?
A me è piaciuta molto la prima stagione di Transparent perché non c’è una idealizzazione romanticizzata e romanticizzante, ma nemmeno la macchietta, lo stereotipo. Non a caso è un prodotto molto più autoriale, anche nel linguaggio è legato a certo cinema indipendente. È importante ricordare che l’algoritmo di cui parlavamo prima non considera solo gli elementi tematici, ma anche quelli del genere: le produzioni devono rispettare anche dei canoni di narrazione, di formato, di linguaggio. Modern Family è una sitcom, per esempio, e quindi dovrà restare nei binari del suo format. Ultimamente c’è una grande produzione di miniserie, di recente ho visto It’s a Sin: anche lì c’è una costruzione retorica per cui il protagonista, che è il gancio emotivo con lo spettatore, è un personaggio piacevole, simpatico, divertente, mai disturbante o sgradevole. In Sense8, che è una serie di fantascienza, i personaggi sono più che altro funzioni narrative (oltre ad avere, ancora una volta, corpi bellissimi, perfetti, molto normati), come è ovvio che sia in una cornice action.
Secondo te, infine, quale impatto hanno sulla realtà le serie tv?
Su questo ho una posizione piuttosto radicale. Non parlerei di attivismo, per le serie tv, se non quando riescono a creare condizioni di lavoro reali per le persone LGBTQ, quando showrunner e produttori usano il loro privilegio professionale per costruire un ambiente lavorativo che non c’era, chiamando a sé persone generalmente escluse. Per la narrazione in sé secondo me non si può parlare di attivismo, ma è comunque molto importante. Perché diventa un esempio facile: pensa a una persona molto giovane che vuole fare coming out, può utilizzare le narrazioni mainstream non solo per riconoscersi, ma anche per spiegarsi, per trovare riferimenti esterni. E poi perché molto semplicemente la mera presenza di certe rappresentazioni nel sistema mediatico fa in modo che ci sia una riconoscibilità collettiva. Dobbiamo considerare che ci sono tante narrazioni mainstream, che cambiano con gli schermi. Nello schermo del televisore tradizionale abbiamo la narrazione della tv e del giornalismo italiani. In un altro tipo di schermo, come quello delle smart tv, dei tablet o dei computer abbiamo le serie tv di cui abbiamo parlato finora; sugli smartphone ci sono social come Tik Tok che propongono narrazioni ancora differenti. Le serie tv si inseriscono in un ambiente mediatico molto più ampio che comprende pubblici molto diversi, che a volte – molto spesso – non si incrociano mai. In Italia è particolarmente evidente in questo periodo di dibattito sul DDL Zan: esiste un metamondo televisivo in cui si parla del DDL Zan, e poi c’è la popolazione LGBTQ che in tv a parlare del DDL Zan non c’è mai. In questo senso mettere dei personaggi LGBTQ su uno schermo è un modo di metterli in competizione con una realtà che li esclude. ALICE CUCCHETTI
Nel 2015 la prima stagione di Transparent di Joey Soloway, showrunner non binary, arrivava in prima tv su Sky Atlantic (oggi la trovate su Amazon Prime Video, che l’ha originariamente prodotta: ma all’epoca, in Italia, Prime Video non c’era ancora...). Su Film Tv n° 22/2015 la presentavamo così.
Come diventare se stessi
«Questa cosa è molto più grande di me», ha commentato Jeffrey Tambor nel ritirare il Golden Globe 2015 per la sua interpretazione in Transparent. Non si riferiva solo alla performance che per lui, caratterista californiano settantenne con una carriera di quasi 200 apparizioni fra piccolo e grande schermo, è diventata il ruolo di una vita, ma alla portata rivoluzionaria di un prodotto televisivo che tratta il tema della transessualità in una confezione da commedia drammatica per il grande pubblico. Tambor è Mort Pfefferman, docente universitario in pensione, divorziato, tre figli adulti (solo per età anagrafica) e un corpo da uomo che, da sempre, non riconosce come suo. Per tutta la vita, per questioni professionali e famigliari, ha relegato il suo bisogno di vivere come donna ad angusti angoli della sua esistenza: decide quindi che la terza età sarà la sua rinascita, e diventa definitivamente se stessa, Maura Pfefferman. Transparent (gioco di parole sulla trasparenza delle scelte di Mort/Maura e sul suo status di genitore, parent, trans), serie prodotta dal neonato comparto televisivo del colosso delle vendite online Amazon, è stata creata da Joey Soloway (già fra gli autori di Six Feet Under e United States of Tara) ispirandosi a una vicenda autobiografica: suo padre ha affrontato la transizione di sesso pochi anni fa, e a lui ha dedicato il Golden Globe vinto per la miglior serie comedy, chiamandolo affettuosamente “moppa”, crasi infantile fra mamma e papà con cui anche i figli finzionali di Transparent iniziano a identificare il rinato genitore. Ambientata in una famiglia liberale e benestante di Los Angeles, la serie mette in scena gli smottamenti emotivi e relazionali che si propagano nel nucleo dei Pfefferman a partire dal coming out di Maura: una rivelazione che ciascuno dei figli affronta in modo differente (più aperte e collaborative le ragazze, più scettico e resistente il secondogenito), costringendosi a riconsiderare la quantità di ipocrisia che ogni relazione della loro vita inevitabilmente comprende. Assai meno sorpresa è l’ex moglie di Mort (la strepitosa Judith Light), la quale sinteticamente osserva che «abbiamo avuto un matrimonio gay prima che fosse di moda»: Transparent si prende gioco con ironia pungente degli stereotipi di genere, illuminando le contraddizioni e i discorsi retorici sia della famiglia tradizionale sia della comunità LGBT. Mettendo in discussione tutti i punti di riferimento dei protagonisti: mentre Maura si avvicina timidamente, con crescente consapevolezza, alla sua nuova esistenza al femminile, il matrimonio modello della primogenita si sfalda al ritorno di un antico amore saffico e la sorella più giovane scopre la rivoluzione fittizia della trasgressione. Girata con basso budget e abbondanza di dialoghi brillanti, la serie si avvicina al mumblecore, il filone di cinema indie che persegue il naturalismo della rappresentazione sentimentale, la cui icona Jay Duplass ha qui un ruolo chiave (e Sky Atlantic HD la programma dal 9 giugno 2015, insieme alle altrettanto indie Togetherness e Looking), e fa del suo titolo una dichiarazione di poetica. Transparent mette in scena non soltanto un’affermazione identitaria transgender, ma una più ampia presa di coscienza sulla sfuggente definizione di “libertà”, sulla difficoltà di vivere con reale onestà le relazioni personali, sul miraggio di una trasparenza che ci riguarda tutti. ILARIA FEOLE
[pubblicato su Film Tv n° 22/2015]
Volete recuperare la webserie Her Story di cui parla Antonia Caruso? La trovate su YouTube. [in inglese] Per approfondire l’evoluzione della rappresentazione LGBTQ in tv, vi suggeriamo anche la miniserie doc Visible: Out on Television su AppleTv+ e, dal 25 giugno, la nuova docuserie Pride su Disney+ (su Film Tv in edicola trovate un’intervista alle produttrici).
MUBI celebra il mese del Pride con la rassegna Pride/Unprejudice: LGBTQ+ Cinema. Tra i titoli, l’inedito Shiva Baby di Emma Seligman. Sempre su MUBI, vi consigliamo caldamente il double bill di Barbara Hammer (cineasta sperimentale, femminista e pioniera del cinema lesbico) disponibile dal 24 giugno: The Female Closet e Lover Other.
Non è un consiglio cinematografico, ma per scoprire qualcosa di nuovo sulla storia delle lotte LGBTQ in Italia, ascoltate il nuovo podcast di Sara Poma (già autrice del bel Carla – Una ragazza del Novecento): s’intitola Prima e ripercorre la storia di Maria Silvia Spolato, la prima donna a rivendicare pubblicamente la propria omosessualità in Italia.
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