Singolare, femminile - #007: Lungo il confine
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Singolare, femminile
lo schermo delle donne
- di Alice Cucchetti e Ilaria Feole -
#007 - Lungo il confine
Ciao ,
questa è Singolare, femminile, un viaggio settimanale attraverso i film, le serie televisive, le autrici, le attrici che hanno fatto e stanno facendo la storia del cinema e della tv.
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La serie I May Destroy You di Michaela Coel è stata in testa alla maggioranza delle classifiche delle migliori serie del 2020, e ai BAFTA della tv, a inizio giugno, ha trionfato portandosi a casa diverse statuette. Eppure in Italia è ancora inedita: ve ne parliamo in questo numero, sperando che qualche network o piattaforma streaming colmi presto la lacuna.
[Avvertenza: in questo articolo si parla di violenza sessuale].
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Su Film Tv n° 08/2017, oltre quattro anni fa, Ilaria Feole recensiva la prima stagione di Fleabag, io la prima annata di Chewing Gum. Messe per caso una accanto all’altra, spiccavano le similitudini: entrambe erano serie britanniche, col formato tipico delle produzioni d’oltremanica, sei episodi da meno di 30 minuti l’uno; entrambe avevano una protagonista che era anche la creatrice e la sceneggiatrice della serie; entrambe rompevano spesso la quarta parete, rivolgendosi direttamente allo spettatore, sia a parole sia guardando semplicemente in macchina; entrambe erano l’adattamento televisivo di un monologo teatrale. Entrambe erano profondamente londinesi, sebbene fotografassero due paesaggi talmente agli antipodi (la borghesia bianca upper class nel primo caso, la multietnica working class dei palazzoni popolari nel secondo) da far dubitare che si trattasse della stessa città; entrambe erano distintamente millennial, come le rispettive autrici, d’altronde: Phoebe Waller-Bridge, classe 1985, e Michaela Coel, classe 1987. Per tanti altri aspetti Fleabag e Chewing Gum erano però anche due show lontanissimi, a cominciare dalla differente sfumatura di commedia: più esplicitamente drammatica, sarcastica e a tratti crudele quella di Waller-Bridge, più esageratamente comica, satirica e fisica quella di Coel.
Due anni dopo, l’esplosivo successo della seconda stagione di Fleabag, accanto a quello della sua nuova serie Killing Eve, avrebbe imposto Phoebe Waller-Bridge alla strameritata attenzione internazionale (complice anche la distribuzione della serie via Amazon Prime Video), fruttandole una valanga di premi e lavori davanti e/o dietro le quinte dei più grossi franchise cinematografici (l’autrice ha co-firmato la sceneggiatura del prossimo atteso 007, No Time to Die, e sarà nel cast del quinto capitolo, in lavorazione, delle avventure di Indiana Jones). A Coel è capitata un’acclamazione molto simile la scorsa estate, quando, prima sulla BBC in Regno Unito e poi sulla HBO in Usa, è andata in onda la sua nuova serie, I May Destroy You. Che a dicembre è finita in testa alla maggioranza delle classifiche delle “migliori serie dell’anno”, eppure è stata ignorata dalle nomination ai Golden Globe, un’esclusione che si è perfettamente inserita nel discorso sull’assenza d’inclusività della Hollywood Foreign Press Association (ne abbiamo parlato anche su Film Tv n° 22/2021), spingendo una sceneggiatrice della comedy Emily in Paris a scrivere pubblicamente che la candidatura da lei ricevuta sarebbe dovuta andare a Coel; quando, lo scorso 6 giugno, i BAFTA televisivi (gli “Oscar britannici”, per semplificare) hanno visto trionfare I May Destroy You, incoronata miglior miniserie, e Michaela Coel, premiata come miglior attrice protagonista, oltre che per la regia, la sceneggiatura e il montaggio, a molti è sembrato una sorta di giusto risarcimento (vedremo cosa capiterà ai prossimi Emmy, le cui nomination saranno annunciate il 13 luglio, anche se il fatto che sia passato un anno dalla messa in onda potrebbe sfavorire la serie). Eppure, in Italia I May Destroy You non è ancora stata distribuita, e non abbiamo nemmeno notizie di una sua acquisizione prossima ventura, nonostante sia una co-produzione BBC/HBO, due tra le più prestigiosi reti del mondo.
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Mentre stava scrivendo la seconda stagione di Chewing Gum (che trovate su Netflix), incalzata da una deadline incombente, Michaela Coel è uscita per andare a bere qualcosa in un bar. Qualcuno ha drogato il suo drink, ha aspettato che fosse in stato d’incoscienza e l’ha stuprata. Il giorno seguente, al risveglio, non ricordava nulla, ma lentamente alcuni flash hanno cominciato a emergere dalla memoria. Ha rivelato lei stessa l’ispirazione autobiografica (e la sua funzione anche auto-terapeutica) di I May Destroy You tenendo una conferenza a un evento televisivo a Edimburgo: alla protagonista della serie, Arabella – una scrittrice diventata famosa come personalità di Twitter, alle prese con il secondo libro dopo il successo del primo –, succede la stessa cosa. I May Destroy You è dunque una serie sull’elaborazione di un trauma, un percorso complicato dal fatto che l’evento traumatico è affogato in un rimosso drogato, in una memoria forzatamente violata quanto il corpo. Prima ancora di scoprire il colpevole, si tratta di ricostruire l’accaduto, di dare un nome a ciò che è successo, di poter disegnare confini precisi a un’esperienza informe: parte da qui, Coel, e con spericolata ma indispensabile ambizione trasforma la propria personale non fiction in un prisma attraverso cui guardare le modalità di relazione e interazione in cui Arabella, i suoi amici, tutti noi siamo immersi. Come in Transparent di Joey Solloway (su Prime Video) il coming out di Maura era il sasso scagliato nello stagno delle convenzioni familiari e identitarie che produceva increspature sempre più ampie e costringeva ogni membro della famiglia Pfefferman a fare i conti con se stesso e la propria (mancanza di) trasparenza, in I May Destroy You la violenza subita da Arabella/Michaela non può – non può essere – solo un fatto personale, ma si riverbera in maniera via via più ampia su una cerchia sociale potenzialmente sconfinata (il modo in cui la serie affronta i social network è tra i più lucidi visti finora). Investe prima i migliori amici di Arabella, il personal trainer Kwame e l’aspirante attrice Terry, poi fruga nel passato andando a ripescare la nemica/amica di gioventù Theo; ogni personaggio, e lo spettatore con lui, è costretto a ridefinire i limiti di ciò che credeva di conoscere, ciò che riteneva lecito, a confrontarsi con le definizioni di violenza – inflitta o subita –, di consenso, di sopraffazione, di abuso. E soprattutto con le responsabilità e con le conseguenze delle proprie scelte e circostanze. Come nota la stessa Coel, quando il titolo della serie compare sullo schermo all’inizio di ogni puntata, lo “You” dopo “I May Destroy” (“potrei distruggere”) viene subito cancellato: già di partenza potrebbe essere un “tu” o un “voi”, ma una volta rimosso potrebbe essere sostituito da “me stessa” oppure “tutto”. La violenza, proprio perché inserita in un quadro sistemico, non è un fatto privato né personale: mentre Arabella “si disfa” davanti ai nostri occhi cercando di rimettere insieme i pezzi di se stessa e del mondo, tutto il mondo della serie comincia a prendere anche proprio malgrado consapevolezza delle mille sfumature di abuso che lo permeano.
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È interessante notare come - in modi, formati e generi che più differenti non si potrebbero - anche altre due serie recenti e molto discusse come la supereroica WandaVision (su Disney+) e la detective story Omicidio a Easttown (su Sky e NOW) impongano una dimensione collettiva all’elaborazione del trauma. Ma I May Destroy You, per l’appunto, rifugge da ogni categorizzazione o incasellamento di genere, da ogni convenzione narrativa e stilistica, dispiegandosi in 12 episodi dal minutaggio relativamente breve e dalla forma liberissima: nonostante il tema trattato – e trattato attraverso una lente acutamente intersezionale: nella vicenda di Arabella entrano obbligatoriamente, oltre a quelle di genere, anche le questioni di razza, di classe, di orientamento sessuale – la serie ha spesso momenti comici, esagerati e spiazzanti, splendidamente aderenti all’espressività e alla fisicità uniche di Coel stessa. La quantità di parrucche, abiti e maschere indossata dai protagonisti è solo uno dei fili conduttori di una narrazione cangiante, imprendibile (e per questo lucidamente fluida, e contemporanea), che sfida lo spettatore a individuare da sé la reazione “giusta”, fino a riconoscere che, in certi casi, una reazione giusta non c’è.
Una libertà che Michaela Coel ha guadagnato con un gesto che a Hollywood ha fatto scalpore: rifiutando l’offerta di 1 milione di dollari da parte di Netflix. Nata a Londra da genitori ghanesi, cresciuta con la sorella da una madre single tra i quartieri popolari di Hackney e Tower Hamlets, giovane cattolica inizialmente determinata a studiare teologia, negli anni universitari ha scoperto la forza della performance dal vivo e la poesia spoken word, e si è iscritta poi a una scuola di recitazione. Come dicevamo all’inizio, la serie Chewing Gum è stata tratta da un suo monologo teatrale, prodotta dal network britannico Channel 4 ma acquisita da Netflix per la distribuzione internazionale, così come un successivo lavoro di Coel (solo nel ruolo di attrice), Black Earth Rising, e la collaborazione è continuata anche con la sua apparizione in due episodi di Black Mirror. Il gigante dello streaming, ha rivelato in seguito la stessa Coel, dopo Chewing Gum le ha offerto 1 milione di dollari per il suo successivo progetto d’autrice, ma nessuna trasparenza e nessuna possibilità di mantenere il controllo definitivo sulla propria storia: «Ho esercitato l’unico potere che avevo, e ho detto di no» racconta.
A parte lo straordinario episodio finale – di cui non riveliamo nulla, per non rovinarlo a chi volesse recuperarlo –, di I May Destroy You è diventato famoso soprattutto un monologo, quello in cui Arabella parla a un gruppo di sopravvissute e, con flemma chirurgica e inquietante, spiega loro come si comporti “Bob”, il nome-ombrello utilizzato per indicare i soggetti abusanti: muovendosi sul confine dell’illecito senza mai attraversarlo platealmente, esplorando le grigie zone indefinite dove gli atti non trovano parole precise per essere descritti, e dunque non possono essere individuati e condannati. Lo fa perché ha la libertà per farlo e l’abilità di osservare attentamente i dettagli. Con la stessa indipendenza di movimento e uno sguardo ancora più acuto, Michaela Coel con I May Destroy You ha fatto in un certo senso lo stesso, si è immersa in un territorio ambiguo, sfuggente e imprendibile, inseguendo modi inediti di darvi forma narrativa. Ma ha capovolto il risultato: non più una sopraffazione, ma un’incendiaria liberazione. ALICE CUCCHETTI
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Da qualche settimana è in libreria La vita è qualcosa da fare quando non si riesce a dormire, di Fran Lebowitz: è la prima volta che la scrittrice e umorista, celeberrima negli Stati Uniti, viene tradotta in Italia (nel libro ci sono quasi tutti i suoi scritti, tratti dai bestseller Metropolitan Life e Social Studies). Il pubblico italiano ha fatto prima a conoscerla nella miniserie documentaria Netflix Fran Lebowitz – Una vita a New York, diretta da Martin Scorsese. Se non l’avete fatto, vi consigliamo di recuperarla! Intanto, ecco la recensione di Film Tv, dal n° 04/2021.
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Fran Lebowitz - Una vita a New York
Il titolo originale di Fran Lebowitz - Una vita a New York è Pretend It’s a City, cioè “fingi che sia una città”, un invito che la protagonista della serie - l’opinionista, scrittrice e umorista Lebowitz, autorità della vita newyorkese e grande amica di Scorsese, che qui dirige con lei sette episodi di mezz’ora che uniscono una loro recente conversazione, più le immagini di altri incontri pubblici (alcuni dei quali già visti in La parola a Fran Lebowitz, doc HBO del 2010), show televisivi e vari materiali di repertorio - rivolge alle persone contro le quali va a sbattere in strada, quando le sembra di essere l’unica - lei che non possiede un cellulare o un computer, ma solo un telefono fisso e un indirizzo - a guardare dove cammina, mentre la gente infila il naso in un aggeggio elettronico. «Fingi che sia una città dove ci sono altre persone» dice Lebowitz a degli sconosciuti. «Persone che non sono qui solo per turismo, ma magari devono andare da qualche parte, ad appuntamenti che pagano queste cose che vieni a vedere!». Il nodo dei suoi discorsi non sempre condivisibili - che vertono su tutto, tecnologia, moda, arte, sport, soldi, fumo, femminismo, educazione, salute, divertimento, media - sta proprio nel paradosso di fingere che una cosa vera sia finta per poterne ritrovare lo spirito (come succede quando Fran visita il plastico della città di New York al Museo del Queens, lo stesso di La stanza delle meraviglie); nell’affermare, tra le vie di una città, che quella stessa città può essere ripensata come tale strappandola all’opera di smaterializzazione del reale condotta dal digitale e riportandola al suo passato di immaginario collettivo, finzione non individuale, ma patrimonio (anche e soprattutto cinematografico, come naturalmente Scorsese non dimentica di ricordare) condiviso. Se oggi Fran Lebowitz e le sue parole a volte un po’ ciniche e gratuite suonano come un monito contro la contemporaneità, è perché sta sparendo il senso del vivere quotidiano nello spazio di una metropoli; quell’appartenenza a un processo collettivo che coinvolge giornali, librerie, cinema, teatri, artisti, locali e tutto quanto in una città possegga una storia da raccontare. Lebowitz, ebrea, lesbica, fumatrice, nemica del denaro ma amante delle feste, misantropa incallita ma prodotto del jet set e di un pensiero libertario americano un po’ confuso, dice all’amica Toni Morrison (alla cui memoria la serie è dedicata) che nei suoi scritti dà del voi ai lettori comportandosi più da giudice (ruolo dai lei interpretato in Law & Order o in The Wolf of Wall Street) che da mentore. Nella miniserie la si vede spesso camminare con lo sguardo agli edifici di New York o alle targhe incastonate nei marciapiedi, ben salda nel proprio mondo a ricordarci con la sua figura furbescamente fuori dai giochi per età e per inclinazione che nessun uomo o donna è un’isola, ma siamo tutti parte di una grande città - qualsiasi città, anche se con New York viene meglio - abitata non da turisti o clienti, ma da persone. ROBERTO MANASSERO
[pubblicato su Film Tv n° 04/2021]
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Nel pezzo inedito di questo numero abbiamo citato Omicidio a Easttown, bella serie HBO in onda in questi giorni su Sky Atlantic, e disponibile in streaming su NOW. L’abbiamo recensita su Film Tv n° 23/2021, ma in quest’intervista alla protagonista Kate Winslet si approfondisce il suo fondamentale ruolo creativo nella serie, oltre la sola interpretazione. [in inglese].
La Mostra del nuovo cinema di Pesaro, finalmente in presenza dal 19 al 26 giugno, dedica un evento speciale e una retrospettiva a Liliana Cavani, accompagnata come ogni anno da un volume di saggi pubblicato da Marsilio, a cura di Pedro Armocida e Cristiana Paternò. L’autrice sarà presente a Pesaro il 26 giugno, in occasione della proiezione della versione restaurata del suo Al di là del bene e del male.
Se cercate un modo divertente di unire la passione per le serie tv al femminismo, seguite su Instagram la pagina Saved by the bell hooks: ogni post è costituito da una scena della storica teen sitcom Bayside School (Saved by the Bell il titolo originale) e da una frase dell’attivista e pensatrice femminista statunitense bell hooks. [in inglese].
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