Dopo The Idea of You e A Family Affair (e mentre aspettiamo Babygirl in sala), arriva in streaming Lonely Planet, dove tocca a Laura Dern interpretare una donna matura che allaccia una relazione con un uomo molto più giovane: è l'era del "nuovo cinema MILF"? E cosa sta cambiando nella rappresentazione del desiderio femminile?
In Lonely Planet, da pochi giorni disponibile su Netflix, Laura Dern è una romanziera il cui blocco dello scrittore ha motivi personali e logistici: finita la storia col suo compagno dopo 14 anni, sta cercando una nuova casa e nel frattempo le manca soprattutto un luogo dove scrivere in pace. È solo per questo che accetta l'invito a partecipare a una residenza per scrittori celebri in un resort di lusso del Marocco, dove si trincera nella sua stanza senza parlare con nessuno, e ci vuole proprio la mano insolente del fato a farle incontrare il prestante Liam Hemsworth, fidanzato di una delle altre romanziere e circa 25 anni più giovane di lei. Lui è onesto, gentile, ha il fisico da quarterback, lavora nella finanza e forse per questo non ha tempo per la letteratura (durante un gioco di indovinelli non è in grado di identificare chi sia il dickensiano Pip, con sommo disappunto della sua giovane compagna) e usa metafore sul football per spiegare la vita: l'unica forma di resistenza che Laura Dern oppone è provare a sminuirlo chiamandolo «ragazzino», ma bastano pochi giorni perché si lasci convincere a consumare un'esotica fuga romantica. Raccontato così, lo sappiamo bene, pare la trama di un romanzetto Harmony dalle location illuminate di eterno tramonto, ma guardiamolo più da vicino: il film è scritto e diretto da Susannah Grant, autrice e produttrice veterana di Hollywood che in curriculum ha la sceneggiatura di Pocahontas e una nomination all'Oscar per lo script di Erin Brockovich, oltre a essere creatrice e regista dell'ottima miniserie Unbelievable, incentrata sulla difficoltà per una vittima di violenza sessuale di essere creduta; la rappresentazione del femminile, la messa in discussione degli stereotipi e la visibilità di personaggi ai margini sono al centro del suo lavoro da decenni. E Lonely Planet, col suo racconto di una passione tra una donna matura e un uomo molto più giovane, si inserisce in una recente tendenza che pare tentare di rileggere e ridiscutere la figura della cosiddetta MILF, acronimo di Mother I'd Like to Fuck, creatura dell'immaginario collettivo almeno dalla metà degli anni 90, periodicamente riportata tra le prime posizioni di ogni studio sulle categorie pornografiche più cercate e fruite.
La MILF, nel cinema, è sempre esistita, intendiamoci: dalla Virna Lisi di Sapore di mare alla mitica Mamma di Stifler di American Pie, gli schermi sono stati spesso abitati dalla fantasia della donna più esperta e matura, sessualmente vorace (magari perché frustrata nella sua vita coniugale), disinibita o, viceversa, fragile e amareggiata, che si concede a un uomo molto più giovane di lei. Una fantasia maschile, dunque, a partire dalla natura stessa dell'acronimo che la indica, e al quale si accompagna un altro termine imparentato, quello di cougar, traducibile suppergiù con "panterona", usato per etichettare donne over 40 che vadano a caccia (cougar, cioè puma, ha appunto la connotazione di predatrice) di relazioni con uomini più giovani (i quali a loro volta sono poi etichettati come toy boy, i “ragazzi giocattolo” con cui la pantera si diletta). È interessante e significativo che questo armamentario di termini gergali, usati in senso più o meno ironico (o autoironico: non sono certo parole esclusivamente appartenenti al dizionario o all'immaginario maschile), non abbia alcun corrispettivo a sessi invertiti: l'age gap, ossia la più o meno cospicua differenza di età nella coppia, è regolamentato da un sistema culturale di radicatissimi doppi pesi e doppie misure. Così se la donna di 50 anni che si accompagna con un 25enne è una cougar col suo toy boy, un uomo di 50 anni che si mette con una 25enne è... un uomo. La normalizzazione dell'age gap tra uomo maturo e donna giovane o giovanissima è pressoché invincibile, diffusissima non solo nell'ambito dello showbusiness (basti pensare alla lunga e problematica cronologia di fidanzate di Leonardo DiCaprio, sempre sotto i 25 anni nonostante lui ne compia 50 a novembre; o all'84enne Al Pacino che lo scorso anno ha avuto un figlio dalla compagna Noor Alfallah, 30 anni; non ci addentreremo in casi ancora più controversi, come quello dell'attrice e regista Maiwenn e Luc Besson, rispettivamente 16 e 33 anni alla nascita della loro figlia Shanna) e percepita in qualche modo come "naturale". Il rovescio della medaglia è ancora qualcosa di tabù, che richiede un livello di lettura ironico o dileggiante, o automaticamente traslato nella sfera delle fantasie sessuali di stampo maschile.
Negli ultimi mesi abbiamo assistito a una piccola onda di titoli che, indipendentemente dal loro valore cinematografico, spesso carente, si riappropriano di quell'age gap applicandolo alle fantasie femminili, alle forme del desiderio e dell'identità di donne over 50. In maniera ludica, romantica, sfacciatamente esotica, come accade in Lonely Planet; magari anche pruriginosa, ma sempre lontana dalla classica e abusata rappresentazione del "torbido vortice di passione" che altrove vede la donna di mezza età rapita da bramosia autodistruttiva per il giovane seducente e spietato. Parte del gioco di quello che d'ora in poi chiameremo "nuovo cinema MILF" è infatti il fatto di trasporre fantasie femminili in cui il più acerbo partner è sì sexy e dotato di un corpo da statua greca, ma è anche ragionevole, tenero, sincero e sovente buffo; non un Christian Grey, ma un compagno cui affidarsi, una volta superate le titubanze sul famoso age gap. Non molte settimane prima di Lonely Planet, su Netflix era arrivato A Family Affair, diretto da Richard LaGravenese su sceneggiatura di Carrie Solomon: una commedia sentimentale in cui Nicole Kidman interpreta un'altra romanziera di grido, stavolta vedova, che s'infatua della più giovane star cinematografica incarnata da Zac Efron; in primavera avevamo avuto The Idea of You (su Prime Video) di Michael Showalter (su script di Jennifer Westfeldt; tutti i film che stiamo prendendo in considerazione hanno una penna, se non una regista, femminile, e non può essere un caso), dove la gallerista Anne Hathaway intreccia un'inattesa relazione col cantante di una boy band idolatrato dalle ragazzine.
Tutti i film hanno in comune l'ambientazione - esotica, glamour o semplicemente sfacciatamente lussuosa - da intrattenimento escapista; in tutti e tre, la protagonista over 40 (o over 50) è una donna di successo, ricca, sicura di sé, affascinante e autoironica; in tutti i casi, innamorarsi di un giovine muscoloso e devoto non è una scelta, ma è una scelta quella di concedersi la gioia e il piacere, anche erotico, della relazione. Qualcosa di più sottilmente rivoluzionario di quanto sembri; si può obiettare, certamente, che Laura Dern, Nicole Kidman e Anne Hathaway (57 anni le prime due, 42 anni l'ultima) siano esempi di corpi attoriali pienamente appartenenti ai canoni estetici dominanti, lontane dalla normalizzazione di una raffigurazione della donna di mezza età. Eppure, avere commedie romantiche mainstream con protagoniste attrici oltre la soglia dei 40 che vivano storie d'amore e d'eros è ancora una faccenda rara a Hollywood, dove la visibilità di quella fascia d'età del femminile è considerata tabù perché non redditizia. In questi giorni arriva nelle sale in anteprima un film, The Substance (poi in uscita nazionale dal 31/10), che parla proprio di questo: ne avevamo parlato sul n. 138 della newsletter e ne riparleremo, ma è indubbio che l'industria audiovisiva abbia ancora molta strada da fare nella rappresentazione delle donne e nel superamento del cosiddetto ageism, ossia la discriminazione sulla base dell'età anagrafica (una discriminazione che non si applica solo alle interpreti di mezza età, e in proposito facciamo un esempio emblematico: Olivia Wilde aveva 28 anni quando fu rifiutata per il ruolo di Naomi in The Wolf of Wall Street perché «troppo vecchia»; il ruolo è poi andato alla 22enne Margot Robbie).
Nel corso di un paio di stagioni cinematografiche ci sono stati, poi, alcuni brillanti esempi d'autore che hanno approfondito e problematizzato la questione del nuovo cinema MILF: su tutti, l'ottimo Babygirl di Halina Reijn, (vedi newsletter n. 149) per il quale Nicole Kidman (sempre lei: va riconosciuto alla diva che sta attivamente usando il suo potere produttivo e il suo talento per ripensare l'immaginario femminile sullo schermo) ha vinto la Coppa Volpi a Venezia 2024, e che vede protagonista una CEO di successo che vive una relazione clandestina con il suo stagista, costruendo con lui un complesso equilibrio di dominazione e sottomissione, che molto ha a che fare con uno dei sottotesti di questo piccolo filone di film, ovvero la questione del potere e di cosa comporta, per una donna, ottenerlo. Non è solo per meri obiettivi di intrattenimento e di location che tutte le protagoniste hanno carriere affermate e appaganti: parte della posta in gioco, per loro, è quanto hanno dovuto sacrificare di sé per poter diventare donne affermate, rispettate, stimate. Nella nostra società è ancora difficile concedere a una donna di poter essere tutto quel che vuole, e pare sottinteso che per ottenere una posizione di successo, o per essere una madre funzionale, a qualcosa si debba rinunciare; facilmente, al piacere, al godimento e all'esplorazione della propria sessualità. C'è anche questo, nelle MILF dei film che prendiamo in considerazione, ossia la pretesa, così poco tollerata per la popolazione femminile, di volere tutto, e di prendersi tutto. Come ha sintetizzato Harris Dickinson nella conferenza stampa veneziana di Babygirl, «ognuno di noi merita un buon orgasmo», e il personaggio di Kidman affronta, nel registro satirico di un film ambizioso, crudele e sexy, un percorso che la riporta in contatto coi suoi bisogni più viscerali.
Un altro paio di film, di cui avevamo parlato nel dispaccio dal Festival di Cannes nella newsletter n. 96, affrontano la questione mettendone in campo gli elementi più problematici: il notevole e sottovalutato May December (il titolo indica proprio il tipo di relazione con age gap; una coppia in cui uno dei due partner sia nella primavera della vita, e l'altro nell'inverno), diretto da Todd Haynes su sceneggiatura di Samy Burch (regista, montatrice e casting director californiana), è liberamente ispirato alla vera storia di Mary Kay Letourneau, insegnante che fu condannata per stupro, a 33 anni, dopo aver avuto rapporti sessuali col suo studente dodicenne, ma che a distanza di anni e scontata la pena sposò la sua vittima, nel frattempo divenuto maggiorenne. Il film di Haynes e Burch, con una straordinaria Julianne Moore, esplora i lati oscuri di un matrimonio fondato su un insuperabile squilibrio nei rapporti di forza, addentrandosi nella psiche di una donna che reclama il suo diritto alla libertà contro ogni comune senso della morale, e soprattutto indagando gli effetti a lungo termine sul partner più giovane di una relazione fondata sull'abuso di potere, in un modo che raramente, se non proprio mai, è stato applicato alle assai più diffuse coppie con differenza di età tra uomini maturi e donne giovanissime.
A ribaltare il punto di vista, poi, ci ha pensato la maestra Catherine Breillat, che in Ancora un'estate mette in scena la relazione proibita, sotto ogni punto di vista, tra un'avvocata e il figlio adolescente di suo marito, nato dal precedente matrimonio. Determinata, intelligente, sicura di sé, la donna interpretata da Léa Drucker seduce senza scrupoli, gioca col corpo imberbe e con la mente malleabile del ragazzo come fosse un passatempo, senza perdere se stessa nella passione; non lo fa per tappare un buco, ma solo per aggiungere qualcosa alla sua vita, finché le va, con tutti i rischi e le storture etiche che ciò comporta. Una via problematica, provocatoria e a suo modo liberatoria all'empowerment?
Non ignoriamo la limitante compattezza di rappresentazione che esce da questo campione analizzato: ci sono solo donne bianche, eterosessuali, cisgender, canonicamente belle, economicamente privilegiate, la cui incarnazione dell'invecchiamento è serena, cosmeticamente curata, perfino glamour. Il rischio è di creare un ulteriore parametro iniquo di rappresentazione del femminile, uno standard di soddisfazione della vita di mezza età totalmente irraggiungibile per gran parte delle comuni mortali, soprattutto se appartenenti a minoranze. Ma lo spirito giocoso, provocatorio e sfacciato di questo nuovo cinema MILF è, a suo modo, una piccola scossa tellurica nell'immaginario, cui ne seguiranno altre: così ci auguriamo. ILARIA FEOLE
Il precedente lavoro di Susannah Grant per Netflix era stata la succitata miniserie thriller Unbelievable: vi riproponiamo la recensione pubblicata su Film Tv n. 40/2019.
Unbelievable
Unbelievable racconta due storie, in parallelo. Le fa incrociare, ma mai toccarsi, fino alla fine. La prima è quella di Marie (Kaitlyn Dever), adolescente orfana, inserita fin da piccolissima nel sistema di genitori affidatari e case famiglia. A 18 anni vive sola in un complesso residenziale per giovani in difficoltà, dove una notte un uomo dal volto coperto fa irruzione, la lega, la stupra per ore, e poi scompare senza lasciare traccia. La seconda storia è quella delle detective Karen Duvall (Merritt Wever, superlativa) e Grace Rasmussen (Toni Collette): lavorano in due distretti confinanti, hanno caratteri e convinzioni distanti (Duvall coltiva un afflato ottimista, determinato anche dalla sua religiosità; Rasmussen, più adulta, è più cinica e indurita dall’esperienza, per molti anni sotto copertura), ognuna indaga su una violenza sessuale e, una volta riscontrate le somiglianze tra i due crimini, decidono di unificare l’investigazione, convinte che il colpevole sia un unico stupratore seriale. Alla base di Unbelievable c’è una vicenda realmente accaduta, i cambiamenti apportati dalla sceneggiatrice Susannah Grant (Erin Brokovich) e dalla sua writers room ridotti al minimo. Anche il lavoro giornalistico che l’ha portata alla luce richiama quello delle due detective: una doppia inchiesta di ProPublica e del Marshall Project confluita in un solo articolo, An Unbelievable Story of Rape, poi vincitore del premio Pulitzer. Perfetta sintesi tra i codici del true crime e quelli del crime drama (con True Detective come ovvio riferimento principale), Unbelievable li rinnova con incredibile efficacia e sobrietà, un ritmo lento, metodico e paziente, coerente con la dispersiva complessità delle indagini, poche parole indispensabili e molti fatti. Il suo profondo e innegabile senso politico procede per confronto; per esempio, quello quasi intollerabile tra il primo episodio, in cui la denuncia di Marie è accolta da agenti e personale ospedaliero del tutto impreparati a interagire con una vittima di violenza, e il secondo, dove la detective Duvall raccoglie la testimonianza di Amber (Danielle Macdonald) nel modo più adeguato auspicabile (e il paradosso rivelato sta proprio nell’attrito tra la normalità della prima situazione e l’eccezionalità del secondo approccio). O come quando la regia - di Lisa Cholodenko, Michael Dinner e la stessa Grant, che scelgono di mostrare gli stupri sempre e solo dal punto di vista delle vittime, allontanando qualsiasi ombra di exploitation - traccia collegamenti silenziosi ma significativi, per esempio la consonanza tra il trattamento medico riservato a Marie e al violentatore. Non ci sono villain più o meno carismatici, in questa storia, e nemmeno poliziotti cattivi o mele marce: con furiosa pacatezza, Unbelievable ci rende acutamente consapevoli di una fallacia sistemica e pervasiva. E indica i responsabili, gli unici cui è data la responsabilità di sommergere o salvare: le persone. ALICE CUCCHETTI
Parte oggi, 16 ottobre, l’ottava edizione di Meet the Docs! - Forlì Film Fest, con cinque giorni dedicati al cinema del reale. Nel ricco programma di proiezioni ed eventi, vi segnaliamo sabato 19/10 (ore 16) il talk Visionarie - (Dis)equilibri di genere nel cinema, con le registe Margherita Vicario (Gloria!), Anita Rivaroli (We Are the Thousand), Chloé Barreau (Frammenti di un percorso amoroso), Margherita Ferri (Zen - Sul ghiaccio sottile) e la segretaria di edizione Sara Cavani, moderate da Lisa Tormena.
Preparandoci all’uscita dell’esplosivo The Substance di Coralie Fargeat, da noi in sala per Halloween, vi suggeriamo di leggere l’intervista a Demi Moore del “New York Times”, dal significativo titolo Demi Moore ha chiuso col male gaze. [in inglese]
Ottobre è il mese della prevenzione del tumore al seno: alla Festa di Roma sarà presentata in questi giorni Distances - La vita va avanti, più lontano, docuserie che racconta le storie di sei donne con tumore al seno, e sarà poi distribuita online sul sito https://www.etempodivita.it/distances nell’ambito della campagna di sensibilizzazione È tempo di vita lanciata da Novartis.