Singolare, femminile ♀ #140: Qui non succede mai niente
Autrice di libri già di culto, come Il mio anno di riposo e di oblio, la statunitense Ottessa Moshfegh è anche sceneggiatrice, e ora è in sala Eileen, che ha adattato dal suo omonimo romanzo: un ritratto di donna respingente e magnetico al contempo, scritto da una penna che non teme le zone oscure del femminile.
Eileen non è una donna come le altre, nemmeno vorrebbe esserlo. O forse sì? Forse Eileen non lo sa, cosa significa “una donna come le altre”: sua madre è morta quando era giovanissima, vive sola con un padre alcolizzato, lavora nell’amministrazione di un carcere minorile, non ha amici, non ascolta i Beatles (siamo negli anni 60) e ha verso il sesso una curiosità al contempo morbosa e puritana. Eileen è cinica e spietata, inquadra tutti i vizi altrui, guarda con disprezzo la maggior parte degli abitanti della mesta X-Ville (così non si chiama, nel romanzo, la cittadina del New England in cui vive da tutta la vita). Eppure Eileen è romantica e sognatrice, fantastica di vivere storie d’amore, appassionati coiti, momenti di intensità sublime: «Scommetto che sogni altri mondi» le dice, appena l’ha conosciuta, l’elegantissima nuova psicologa del carcere, Rebecca Saint John, e una donna dal nome tanto hitchcockiano non può portare niente di buono, è chiaro.
Eileen è il primo vero romanzo di Ottessa Moshfegh, pubblicato (dopo il romanzo breve McGlue) nel 2015, e ora è anche un film, nelle sale italiane con Lucky Red, che Moshfegh ha prodotto e co-sceneggiato insieme al marito e sodale Luke Goebel, per la regia del londinese William Oldroyd. A incarnare Eileen è la talentuosa Thomasin McKenzie, mentre nei panni della femme fatale Rebecca c’è una platinata, luminosa Anne Hathaway; ma attenzione ad attribuire ruoli classici o etichette femminili standard alle due protagoniste, perché Eileen è un’audace, provocatoria e seducente riscrittura degli stilemi del noir, dove a essere fatale è forse la condizione femminile stessa, che si riverbera in modi assai differenti fra l’introversa, sciatta, vorace Eileen e la colta, ambiziosa e sensuale Rebecca; ma che coinvolge anche i personaggi assenti (la madre defunta di Eileen) e quelli minori, in un circolo perversamente virtuoso di empatia e comprensione che si spinge al di là di ogni morale: in un passaggio tanto sconvolgente quanto indimenticabile del romanzo, una donna confessa il crimine indicibile del marito, e il proprio benestare a quel gesto orribile, perché dopo averlo commesso le ha dimostrato di amarla. «Lo so, è impossibile da capire» dice affranta la donna; e la voce narrante di Eileen commenta tra sé, rivolta al lettore, che «invece era perfettamente comprensibile; chi non l’avrebbe capito?» (Lo stesso momento è reso nel film, dove però si è scelto, in modo efficace per lo schermo, di elidere la voce narrante della protagonista, la cui complessità è comunque ben raccontata dall’interpretazione elettrica di McKenzie). Quello al centro di Eileen, d’altronde, è un legame che ha, sì, le sfumature di una passione queer, ma che è soprattutto una questione di riconoscimento: la giovane Eileen vorrebbe essere, crede di poter essere matura e sofisticata come la psicologa Rebecca, e in un certo senso è come se tramite lei si innamorasse, finalmente, di se stessa (non a caso, libro e film sono segnati non dall’incontro erotico con l’altro, quanto dall’incontro masturbatorio con una parte di sé rinnegata).
Frustrata dalla sua vita ripetitiva e atona, Eileen è bloccata in una stasi opprimente, eppure è anche animata da una bramosia incandescente, e abitata da visioni cruente di morte - la sua, o quella di altre persone. Il romanzo, così come il film, prende una strada imprevedibile, sterzando in un thriller che sarebbe un vero peccato “spoilerare”, dunque ci fermiamo qui: quello che ci importa è parlare dei personaggi femminili di Ottessa Moshfegh, la cui cifra, l’avrete già intuito, è la contraddizione. Sono donne ciniche eppure speranzose, come Moshfegh stessa si definisce; respingenti, talvolta perfino repellenti, con un che di brutale nel loro modo di perseguire desideri e fantasie, eppure anche carismatiche, ipnotiche nell’incedere schietto sino all’urticante delle loro voci narranti. Antieroine che conducono esistenze vuote, parassitarie, apparentemente prive di eventi (Qui non succede mai niente è il titolo di uno dei suoi racconti); eppure hanno vite interiori sconvolgenti, illuminazioni devastanti, e quando ottengono ciò che desiderano, spesso, è una catastrofe.
Moshfegh, classe 1981, figlia di musicisti (madre croata, padre iraniano), è cresciuta a Boston, nello stesso gelido New England di Eileen, che ha abbandonato dopo aver rischiato «migliaia di incidenti stradali sulle strade gelate»; ha vissuto in Cina, a Wuhan, dove gestiva un «bar punk» con l’ex compagno; ha studiato alla Brown University e tra il 2015 e il 2018 ha pubblicato i succitati McGlue, Eileen, una raccolta di racconti (Nostalgia di un altro mondo, che Bret Easton Ellis definì «La migliore raccolta che ho letto da molto, molto tempo» e questo la dice lunga sullo sguardo nerissimo che Moshfegh esprime sul mondo) e il già cult Il mio anno di riposo e di oblio, la storia di una studentessa orfana di entrambi i genitori, che per sfuggire al dolore esistenziale pianifica un complesso e dettagliato regime di assunzione di farmaci per dormire quasi continuativamente per un anno intero. La penna di Moshfegh è abrasiva, il suo punto di vista sulla società impietoso, i suoi protagonisti spesso apatici e insieme irrequieti; c’è molta droga, molta dipendenza (dalle sostanze, dalle slot machine, dal sesso), molti disturbi dell’alimentazione, molta acne, molto junk food e troppo caffè, che si tratti di giovani donne dell’Upper East Side o di uomini di mezza età in un villaggio cinese. Il senso della vita è precario, risibile, affogato di palliativi o di invincibile dissonanza cognitiva, e i pensieri dei suoi protagonisti (che siano espressi in prima o in terza persona singolare) sono viscosi e martellanti, irresistibili anche nei momenti più ridicoli o volutamente disturbanti.
A 36 anni Ottessa era una delle giovani scrittrici più in vista del panorama statunitense, e intervistata in proposito per la newsletter “Lenny” dichiarava di essere «ossessionata dal denaro, una priorità molto alta perché devo garantirmi libertà e indipendenza nel mondo materiale. Sono esausta, non posso continuare a scrivere un libro all’anno. O meglio, posso, ma so che finirò per incasinarmi la vita». Nella stessa intervista affermava anche di aver fermamente deciso di restare single per tutta la vita, e proprio come potrebbe accadere nelle pagine di un suo libro, nel giro di un anno aveva ribaltato completamente la prospettiva: un giornalista e scrittore, Luke Goebel, andò a intervistarla nel 2017 e tra loro scattò quello che Moshfegh definisce, lei stessa con stupore, l’amore a prima vista; oggi Moshfegh e Goebel sono sposati e hanno fondato una casa di produzione, la Omniscient Productions, e sono attivissimi nel trasformare in film la produzione letteraria di lei. Dopo Eileen, è in cantiere McGlue per la regia di Andrew Haigh, e Margot Robbie ha già opzionato con la sua Lucky Chap i diritti di Il mio anno di riposo e di oblio (fino a poco fa circolava l’indiscrezione che a dirigerlo potrebbe essere Yorgos Lanthimos); nel frattempo, la prolifica Moshfegh ha dato alle stampe anche La morte tra le mani e Lapvona: non dubitiamo che anche questi approderanno prima o poi al grande schermo (in Italia tutti i suoi lavori sono editi da Feltrinelli, con l’eccezione di Eileen, appena ripubblicato da Mondadori).
Il primo progetto su cui Moshfegh e Goebel hanno lavorato a quattro mani è Causeway (ne avevamo parlato nel n. 72 della newsletter), dramma che ha segnato il ritorno sullo schermo di Jennifer Lawrence nei panni di un’ex militare traumatizzata dalla guerra in Afghanistan, diretto da Lila Neugebauer. Un altro ritratto al femminile spigoloso, che fa attrito col mondo circostante, come spesso accade anche nelle pagine di Moshfegh, le cui protagoniste si comportano come aliene, curiose ma sostanzialmente indifferenti agli affanni e alle abitudini di chi le circonda (e in almeno un caso, forse, sono davvero aliene, come nel perturbante racconto Un posto migliore su cui si chiude la sua raccolta Nostalgia di un altro mondo). Animata da una determinazione cocente, quella di tornare prima o poi sul campo di battaglia, la giovane soldata di Causeway è in qualche modo opposta e speculare alla ragazza senza nome di Il mio anno di riposo e di oblio: entrambe vogliono smettere di sentire il dolore, di farsi domande, di confrontarsi col prossimo, l’una rituffandosi nel conflitto e nell’azione, l’altra tentando di annullare e ottenebrare ogni possibile input dal mondo esterno, rinchiudendosi in uno stato di parziale coma controllato e intontendosi di droghe e vecchi film in VHS.
Da questo punto di vista, la svolta hollywoodiana di Ottessa Moshfegh è l’ennesimo colpo di scena biografico, felicemente contraddittorio, che pare uscito da uno dei suoi racconti: come autrice millennial è chiaramente ossessionata dalla cultura pop e dal cinema degli anni 80 e soprattutto 90, che permea molti dei suoi titoli e in modo specifico, quasi assillante, Il mio anno di riposo e di oblio, dove la protagonista ha una fissazione per Whoopi Goldberg e Harrison Ford, ed è in grado di rivedere Sister Act o Presunto innocente più e più volte nella stessa giornata. Il rapporto con Hollywood, l’ambizione di arrivare a essere un attore, il legame morboso con la fama sono temi ricorrenti nei racconti e nei romanzi di Moshfegh, che spesso mettono in scena la tensione tra provincia (luoghi negletti e apatici di un’America bulimica e tossicodipendente) e lo scintillio vacuo e ingannevole del centro delle metropoli: la New York delle pretestuose performance artistiche di Il mio anno di riposo e di oblio, ma pure la Los Angeles presunta fabbrica dei sogni che funge da contraltare idealizzato nel succitato Qui non succede mai niente, dove il “qui” sono i sobborghi pigri da cui proviene il protagonista aspirante attore, paragonati alla fantomatica frenesia di Hollywood. Il rapporto di Moshfegh con l’industria audiovisiva è dunque di attrazione e repulsione, e il suo ingresso così attivo nel mondo del cinema fa di lei un’autrice interessante proprio per le contraddizioni che mette in campo, anche nella rappresentazione del femminile, sempre in bilico tra una sgradevolezza anche calcolata e un’autenticità lacerante. Lei, d’altronde, non vorrebbe mai che la sua fosse etichettata come “narrativa femminile”, si ispira a Bukowski, a De Lillo e a Philip Roth e rivendica il valore politico delle sue opere (Il mio anno di riposo e di oblio è in fondo un romanzo sull’11 settembre; Causeway affronta la questione della guerra in Afghanistan da un’angolazione molto peculiare e incisiva). Un valore politico che passa anche dal raccontare giovani donne alle prese con quello che Moshfegh ha definito «lavaggio del cervello», la convinzione, da cui lei stessa ha dovuto disintossicarsi, di dover per forza apparire belle e magre per esistere («la vanità è il nemico» recita un post-it incollato nella casa di Ottessa, che spesso viene citato nelle sue interviste): Eileen, in questo senso, con la sua protagonista afflitta dall’idea di non poter essere amata (ma pure intimamente convinta di meritare lo sguardo degli altri sul suo corpo ordinario) è anche un cruento, violento e abbagliante coming of age, perché dietro i twist di un noir cupo e torbido c’è la storia di una giovane donna che esce dalla crisalide per accettarsi finalmente così com’è, trovando l’amore per se stessa nel luogo più oscuro possibile. ILARIA FEOLE
Uscito alla fine di maggio, Eileen è ancora in numerose sale; mentre vi consigliamo di recuperarlo, vi riproponiamo anche la recensione del film pubblicata su Film Tv n. 22/2024.
Eileen
Presentato al Sundance 2023, Eileen di William Oldroyd (già autore del celebrato Lady Macbeth), tratto dal romanzo omonimo di Ottessa Moshfegh e sceneggiato dall’autrice in collaborazione con il marito Luke Goebel, è un thriller di formazione al femminile che - a tratti - sembra omaggiare la tradizione degli intrighi highsmithiani. Eileen (Thomasin McKenzie) lavora in un centro di recupero giovanile. Attratta da una delle guardie maschili, vede le sue poche certezze quotidiane infrangersi quando nell’istituto prende servizio la dottoressa Rebecca Saint John (Anne Hathaway). Fra le due donne inizia un gioco di attrazione e seduzione che diventa complicità quando entrambe iniziano a fare i conti con aspetti oscuri delle loro vite. Con il suo passo da melodramma hollywoodiano, il film di Oldroyd sfrutta al meglio l’alchimia fra le protagoniste - l’una all’opposto dell’altra - creando i presupposti per un gioco al massacro che conduce nelle articolazioni di rapporti familiari malati. La fotografia di Ari Wegner - che vanta collaborazioni con Jane Campion per Il potere del cane e Sebastián Lelio per Il prodigio, oltre che titoli emblematici del cinema post-femminista come Zola e In Fabric - lavora le sfumature invernali della vicenda facendole diventare segni di cuori che riprendono poco alla volta a battere. Il tono noir del racconto è strutturato come una progressiva emancipazione dalla colpa e dalla vulnerabilità, cosa che permette anche di inserire in controluce altre tonalità. Film solido e manierista, Eileen funziona egregiamente, magari senza mai entusiasmare davvero, ma permettendo comunque alle interpreti di offrire delle ottime prestazioni. GIONA A. NAZZARO
Per approfondire la conoscenza di Ottessa Moshfegh e di Luke Goebel consigliamo la lettura del lungo e bel profilo tributatole nel 2018 dal “New Yorker”, scritto da Ariel Levy [in inglese].
Un’altra bella intervista, questa recentissima, è quella alla grande autrice e attrice comica (ma non solo comica) Julia Louis-Dreyfus, che si racconta in occasione dell’uscita del suo ultimo film Tuesday, targato A24 e diretto dall’esordiente croata Daina Oniunas-Pusić.
A Roma dal 16 al 21 giugno è in cartellone l’ottava edizione del Festival Cinema d’iDEA – International Women’s Film Festival, interamente dedicato al cinema delle registe e diretto da Patrizia Fregonese de Filippo. 11 film in concorso di cui 7 anteprime, cortometraggi, masterclass e incontri; tra le anteprime c’è il doc The Other di Joy Sela, sul conflitto israelopalestinese.