Già in anteprima in alcuni cinema italiani, e poi ufficialmente in sala dal 30 ottobre, arriva The Substance, l’attesa opera seconda della Coralie Fargeat di Revenge. Body horror spericolato e femminista, satira acida e fluo della pervasiva ossessione per l’estetica, pastiche d’ispirazioni e omaggi che però esprime una visione unica e uno stile inconfondibile, e molto altro ancora: pronti all’esperienza The Substance?
Come mai la doppia protagonista di The Substance non riesce a «ricordarsi di essere una», come le intimano dal primo momento, con voce tonante e a caratteri cubitali, le istruzioni per l’utilizzo del miracoloso siero? Scivolata fuori dal corpo allenato ma non più iper tonico della star cinquantenne Elisabeth Sparkle, la luminosa e levigata Sue fissa la versione matura di se stessa – la sua, ricordano sempre le istruzioni, matrice – come qualcosa di irriconoscibile, di irrimediabilmente altro. La abbandona nuda sul gelido pavimento del bagno, preoccupandosi appena di attaccarla alle sacche di nutrimento settimanale. Quell’immediato non riconoscersi è solo l’inizio di un’escalation dissociativa: il corpo di Elisabeth verrà presto nascosto, negato, spremuto, disprezzato, odiato, distrutto.
Vale pure al contrario, anche se non allo stesso modo: Elisabeth vuole, a tutti i costi, riconoscersi in Sue. Non ci riesce, e si vendica, come può, abusando il proprio corpo anziché il suo, ma così opera una nuova scissione: la odia, la invidia e la ostacola, e nello stesso tempo s’impone, si sforza disperatamente di sentirsi lei, di affidarle il proprio senso di sé, la propria identità. Ma non dovevano – la voce e le scritte maiuscole continuano a ripeterlo – essere una? E poi: una cosa? Persona? Materia? Star? Immagine?
The Substance, il secondo lungometraggio della regista francese Coralie Fargeat – in uscita “ufficiale” al cinema dal 30 ottobre ma in questi giorni già visibile in alcune anteprime cinematografiche in giro per l’Italia –, racconta, appunto, la storia di Elisabeth/Sue e di una misteriosa sostanza che dovrebbe consentire a chi la assume di generare una «versione migliore di sé». Un liquido verde acido – verde Re-Animator, riconosceranno i cinefili e gli appassionati di cinema horror e bis; verde brat, identificheranno forse le spettatrici gen Z con prodigiosa serendipità – che, una volta iniettato, mette in atto una duplicazione cellulare e poi fisica, creando un secondo corpo più giovane e “perfetto”, pronto a sgusciare fuori dall’involucro di quello primario e “danneggiato”. Ci sono, come in tutte le fiabe e le cautionary tale, delle regole da rispettare: la matrice e la sua “bella copia” potranno esistere solo a turno, sette giorni a testa, senza eccezioni. Nei suoi sette giorni di sospensione, la matrice verrà alimentata con delle sacche nutrienti, e la copia estrarrà dal suo corpo la dose giornaliera di “siero stabilizzante”. I successivi sette giorni, con la copia in “letargo”, la matrice rigenererà le energie necessarie a sopravvivere e a continuare. Ogni deviazione da queste regole produrrà effetti orrorifici e assolutamente irreversibili.
Com’è ovvio anche solo da questo riassunto, The Substance appartiene al filone del body horror (non è un caso che il successo di Elisabeth e Sue ruoti attorno a un assurdo programma di fitness), e ancor più specificamente si ricollega con naturalezza a quella sottocategoria che mette in relazione il genere cinematografico costruito sull’orrore corporeo con le sfumature distorte e disturbanti dell’abitare un corpo di genere femminile. Dal sangue mestruale alla maternità (cercata, rifiutata o imposta), passando per l’ossessione per l’apparenza e i conseguenti interventi di modificazione estetica (desiderati o subiti), dall’autolesionismo, o dalla violenza che abitualmente assedia chi ha aspetto di donna, il body horror sa corrispondere con sfumature molteplici e variegate all’esperienza femminile. Presentato all’ultimo Festival di Cannes, dove ha vinto il premio per la miglior sceneggiatura, The Substance viene accostato facilmente alla Palma d’oro 2021 Titane di Julia Ducournau, e di conseguenza anche all’esordio di quest’ultima, Raw: non a caso condividono la natura di body horror inequivocabilmente femministi (e la nazionalità francese d’origine), ma anche la presenza del doppio come linea tematica e figurazione narrativa. Anche Titane ha un* protagonista doppi*, Alexia/Adrien, e racconta una lotta-sintesi tra principi opposti, a partire dall’iniziale accostamento e contrasto tra organico-inorganico. Mentre la Justine di Raw vive la scoperta della propria identità cannibale nel riflesso ma anche nel rifiuto di quella della sorella (un’altra Alexia).
Come ha notato Fiaba Di Martino su Film Tv n. 42/2024, anche l’esordio nel lungometraggio di Coralie Fargeat, Revenge, ci mostrava una protagonista doppia, e si poggiava sulla forma bipartita che è già implicita, fin dal nome, nel genere rape & revenge: la Jen iper femminilizzata e lolitesca della prima parte rinasce nella sopravvissuta vendicatrice e muscolare della seconda, compiendo un effettivo rito metamorfico a base di fuoco, peyote e birra. Ancor più rivelatorio di una coerenza autoriale nella voce di Fargeat è il suo cortometraggio Reality+ (al momento visibile su MUBI e su IWONDERFULL), vera prova generale di The Substance, una sorta di sua versione alternativa (e più sci-fi, con sfumature alla Black Mirror).
In Reality+ a compiere la scissione non è un’iniezione verde acido, ma un dispositivo di realtà virtuale: installato nella nuca del cliente, gli (o le) permette di vedersi, e farsi vedere da chiunque abbia lo stesso impianto, nel modo (canonicamente bello) che preferisce. Anche qui alla scissione dell’aspetto corrisponde quella del tempo: chi utilizza la tecnologia Reality+ può apparire nella propria versione “bella” solo per 12 ore, mentre per le 12 restanti è “costretto” nel proprio aspetto “naturale”. Ma, inevitabilmente, sottobanco c’è chi promette di poter aggirare le regole con una ulteriore modifica (che, tra l’altro, prevede una disturbante cucitura sulla schiena molto simile a quella della Elisabeth di The Substance…).
Chissà se Fargeat ci ha pensato, ma a chi scrive viene spontaneo, guardando Elisabeth e Sue o i protagonisti di Reality+, accostarli ai personaggi di Scissione, la serie AppleTv+ (il cui titolo originale è Severance) incentrata sugli impiegati di una sinistra multinazionale sottoposti a una innovativa procedura: la loro coscienza viene tagliata in due, la loro memoria divisa nettamente tra il tempo del lavoro e quello della vita e del sonno. Le due metà non hanno alcun modo di comunicare tra loro, e pur condividendo lo stesso corpo danno vita a tutti gli effetti a due persone diverse, una delle due – quella che percepisce solo il tempo del lavoro – letteralmente schiava dell’altra. La condizione dei lavoratori di Scissione – un solo corpo, due coscienze – è nella pratica l’opposto di chi usa the substance – una coscienza, usata a turno da due corpi – ma il risultato si assomiglia: non serve a molto «ricordarsi che si è uno» quando non solo si conducono vite opposte, ma per farlo ci si ritrova a essere parassiti l’uno dell’altro.
Ad accostare The Substance (e in parte il suo “antenato” Reality+) e Scissione c’è poi anche la rappresentazione (sempre sfumata di ironia) di un turbocapitalismo inquietante, disumano e pervasivo. La mega corporation Lumon di Scissione è chiaramente un covo misterioso e labirintico di progetti malefici, mentre della compagnia che fornisce la Sostanza non sappiamo praticamente nulla: ma l’esperienza The Substance (come viene continuamente chiamata), del tutto automatizzata, impersonale e senza volto, il suo packaging dal design cool e minimale, le istruzioni astratte (stile Ikea?), l’assistenza clienti raggiungibile telefonicamente a qualsiasi ora ma fondamentalmente inutile, e infine, e soprattutto, la responsabilità degli effetti e delle conseguenze interamente scaricata sul “cliente” sono tutte caratteristiche ricorrenti nel late stage capitalism del nostro presente, rilette da Fargeat sotto una luce insieme beffarda e angosciante. Patriarcato e capitalismo, lo sappiamo, condividono – sostenendosi a vicenda – lo sfruttamento, la letterale spremitura dei corpi.
E dunque perché Elisabeth e Sue non riescono, non possono, «ricordarsi di essere una»? The Substance – come non mancano di segnalare i detrattori – è un film che indossa la sua visione politica con lo stesso massimalismo della sua messa in scena. Un film sfacciatamente, furiosamente femminista, che insieme denuncia e irride l’edificio misogino fatto di oggettificazione, ageismo, sessismo e male gaze, sintetizzato qui in una versione contemporaneamente stilizzata e aumentata di Hollywood. L’orrido produttore interpretato da Dennis Quaid si chiama Harvey, e la scena più rivoltante, in un film che con consapevolezza gioca con i limiti del disgusto, è quella in cui il suddetto sguscia gamberetti e se ne ingozza, inquadrato da un grandangolo deformante, mentre spiega che le donne, una volta compiuti i 50 anni, perdono essenzialmente di valore. Come già in Revenge, Fargeat si dimostra maestra nel rivoltare il male gaze contro se stesso: i primi piani insistiti sui fondoschiena perfetti (là di Matilda Lutz, qua di Margaret Qualley), le inquadrature che “smembrano” il corpo femminile riducendolo a culi, seni, gambe, labbra, e lo impacchettano in lucide e voluttuose immagini di puro consumo, in Revenge prima ci sfidavano al (pre)giudizio e poi al riconoscimento di un trasformazione fisica potente, in The Substance corrono sempre sulla (e nei momenti giusti sfondano la) linea del deforme, del grottesco, perfino del ribrezzo.
The Substance non nasconde, anzi, sottolinea – con uno stile e un controllo dell’immagine filmica che sa farsi immediatamente immaginario pop – le sue molte ispirazioni e discendenze: è una versione super contemporanea, femminile e femminista di Il ritratto di Dorian Grey, mescolata alla storia del dottor Jekyll e del signor Hyde; potrebbe essere un cripto remake di La morte ti fa bella, e un aggiornamento di Eva contro Eva come anche di Society; si diverte ad accumulare e a pervertire riferimenti cronenberghiani (La mosca, ma anche Inseparabili), lynchani (Elephant Man, ma anche Mulholland Drive e INLAND EMPIRE), depalmiani (Carrie), perfino kubrickiani (Shining, Arancia meccanica, 2001…); rintraccia le radici di ogni fiaba in cui una strega cattiva e crudele, ma soprattutto intollerabilmente vecchia (l’iconografia è resa esplicita nella sequenza in cui Elisabeth, sempre più decrepita, si agita in cucina attorno a calderoni fumanti mentre guarda Sue in televisione), è invidiosa della bellezza fulgida e innocente dell’“erede” destinata a soppiantarla – solo che qui, al contrario del solito, è la “principessa” (di nuovo, gli abiti contano, e quello azzurro e vaporoso del finale non lascia dubbi) a succhiare fino all’ultima goccia di vita all’anziana megera. Un castello di riferimenti, una stratificazione di mitologie, che Fargeat governa con sicurezza (e lo fa, cosa perfino più sorprendente, imponendo in ogni istante uno stile inconfondibile e personalissimo), e che corre, come rischio più grande, quello della distanza ironica, della semplice satira sprezzante.
Eppure Fargeat, grazie all’incredibile performance di Demi Moore (diva sessantunenne, che nella propria carriera e aspetto riunisce molte delle istanze di The Substance), si preoccupa di organizzare il suo film attorno a un perno centrale di struggente sincerità e autenticità, la messa in scena di una quotidiana esperienza di dismorfismo così comune a molte donne (tutte?): niente sostanze fluorescenti, niente cicatrici o mostruosità body horror, semplicemente una donna matura, elegante e truccata, pronta per un appuntamento potenzialmente galante, che si osserva prima di uscire. Con l’immagine della «versione migliore di sé» a tormentarla, a infestarle l’esistenza, sorridendole irraggiungibile da cartelloni pubblicitari e schermi, la donna allo specchio (prima quello liscio del bagno, poi quello tondo e deformante del pomello di una porta) inizia una nuova scissione, uno scollamento da sé e dalla propria immagine, un non riconoscimento prima, e poi un disprezzo, un odio letale. Il trucco si sforma in maschera clownesca, le imperfezioni della pelle in sfregi da coprire. La se stessa del riflesso in una sconosciuta disgustosa e inaccettabile – la stessa reazione che ha Sue davanti al corpo nudo e accasciato di Elisabeth. Com’è possibile, davanti a quel “mostro”, non solo «ricordarsi» ma anche semplicemente sopportare di «essere una»? Certo, riuscirci sarebbe salvifico (per Elisabeth e Sue, e per tutte noi), forse perfino rivoluzionario. Ma è già lì, in quella duplicazione primaria, ci dice The Substance, che sta l’orrore: nell’istante in cui si smette di essere e si diventa un’immagine, un’immagine che esiste solo per occhi altrui. ALICE CUCCHETTI
Sul numero di Film Tv in edicola il prossimo martedì troverete il resoconto di un incontro con Coralie Fargeat, mentre sul n. 42 abbiamo dedicato a The Substance un ampio speciale. Vi riproponiamo un doppio pezzo sulle due protagoniste del film, Demi Moore e Margaret Qualley.
Demi Moore – Ancora tu!
In America, come sempre in questi casi, già si parla di Demissance, la rinascita di Demi Moore, e non possiamo che accodarci: ci voleva una regista europea e coraggiosa come Coralie Fargeat per dare finalmente all’attrice il ruolo che meritava da tempo. Un ruolo, quello della diva in declino Elisabeth, che il corpo attoriale di Moore abita con ineludibili valenze metacinematografiche: lei, che degli anni 90 è stata il corpo per eccellenza, sempre un passo avanti a livello di provocazione per quanto riguarda la rappresentazione delle donne, sullo schermo (dalla spogliarellista di Striptease al Soldato Jane, passando per la molestatrice di Rivelazioni) e non solo (il celebre servizio fotografico con pancione su “Vanity Fair”), ora è l’eroina, grondante sangue e autosabotaggio, di un film che mette al centro proprio il modo in cui guardiamo il corpo femminile. Lo sguardo degli altri, le aspettative sociali, l’incessante confronto con corpi perfetti che i social media elevano a potenza rendono Elisabeth l’emblema di meccanismi che Demi Moore vive sulla sua pelle da decenni. E basta un banale dato anagrafico a palesarlo: Elisabeth nel film ha 50 anni, ma Moore la interpreta a quasi 62, mostrando un corpo e un volto levigati e perfezionati dai continui ritocchi di chirurgia plastica, a inseguire un’eterna giovinezza che l’attrice sbandiera sui suoi account social (ben più del suo già celebre chihuahua Pilaf). Ci vuole coraggio, allora, a mettersi a nudo (letteralmente: ma quasi sempre coperta da trucco e protesi che ne invecchiano progressivamente il fisico e il volto) in un film che racconta il vortice autodistruttivo di una celebrità il cui crudele, iniquo termine di paragone è... se stessa da giovane. Elisabeth ingaggia una lotta all’ultimo sangue con la sua copia giovane e fresca, e la prova febbrile di Moore in The Substance (materiale da nomination all’Oscar, secondo molti) è una dichiarazione di guerra agli standard sociali ingiusti e ai canoni di bellezza che limitano le carriere e le scelte delle donne: il soldato Demi è ancora in trincea.
Margaret Qualley - La buffa musa
Sarà orgogliosa mamma Andie MacDowell, da tempo paladina, con la sua chioma sale & pepe, dello smantellamento del tabù della vecchiaia femminile, nel vedere la più celebre dei suoi pargoli protagonista dello sfacciato film manifesto di Fargeat. Margaret, classe 1994, figlia di MacDowell e del modello Paul Qualley, in The Substance è la copia giovane e soda di Elisabeth, corpo perfetto creato assemblando con precisione alchemica tutto ciò che il male gaze predilige: figura magrissima ma seni e natiche abbondanti, volto angelicato, movenze lolitesche, lunghe gambe. Una fantasia ambulante che è prova dell’eccellente lavoro di make-up del film, cruciale non solo nelle scene gore: a Qualley sono state applicate protesi realistiche per renderla curvilinea e procace. «Non essendoci una pozione magica per le tette, me le hanno incollate: davvero le tette migliori di una vita, solo non della mia vita». Nella sua vita, Qualley ha il fisico asciutto da ballerina, ed è danzando e agitandosi come una marionetta impazzita che è entrata nei nostri cuori, nel 2016, con due memorabili abiti: quello giallo limone di The Nice Guys e quello verde smeraldo dello spot di Kenzo diretto da Spike Jonze (il suo primo ruolo di rilievo, però, è stato in The Leftovers; e sempre sul fronte seriale, con Maid, ha mostrato il suo talento drammatico). Dotata di una fisicità al contempo comica e sensuale, mimica clownesca sull’elegante linea da mannequin, è un corpo attoriale che contiene screwball e slapstick insieme, come una figurina da animazione rubber hose, sottile, allungata e con movenze fuori controllo, eppure sofisticate e sexy (il suo erotismo è sempre sottilmente ironico: si veda Sanctuary). Autostoppista in shorts per Tarantino (C’era una volta a... Hollywood), fuggiasca lesbica e viziosa per Ethan Coen (Drive-Away Dolls), Lanthimos ha trovato in lei un nuovo feticcio, sfruttando le sue potenzialità perturbanti e buffe in Povere creature! e Kinds of Kindness: è già un’icona. ILARIA FEOLE
Dal 23 al 27 ottobre a Bologna è in corso la 17esima edizione di Archivio aperto, il festival della fondazione Home Movies – Archivio nazionale dei film di famiglia. Il titolo dell’edizione di quest’anno è The Art of Memory e oltre ad aprirsi con il lungometraggio Sulla terra leggeri di Sara Fgaier, omaggerà la grande cineasta Chantal Akerman proiettandone i corti inediti giovanili. A proposito di Akerman: la notte di venerdì 1° novembre su Rai3, durante Fuori orario, andrà in onda in prima tv italiana il suo capolavoro Jeanne Dielman, 23, quai du Commerce, 1080 Bruxelles, e successivamente sarà recuperabile su RaiPlay.
Si ricollega in parte anche all’argomento della scorsa newsletter questo interessante articolo del “New York Times” sulla carriera di Nicole Kidman, negli ultimi anni affollatissima, anche di performance inaspettate. [In inglese]
Ancora su Goliarda Sapienza, nell’anno del centenario: Lucy sulla cultura ha pubblicato questo video in cui Giada Arena dialoga insieme al marito della grande scrittrice (nonché responsabile della sua riscoperta) Angelo Pellegrino.
Vorrei vederlo ma ho paura che sia al di sopra dei miei livelli di tolleranza al body horror