Singolare, femminile ♀ #143: Magnifica presenza
È – giustamente! – l’anno di Lily Gladstone: dopo la nomination all’Oscar per Killers of the Flower Moon e l’esperienza di giurata a Cannes, da pochi giorni è su Apple TV+ come protagonista del film Fancy Dance e il 10 luglio arriva su Disney+ nella miniserie Under the Bridge. Ritratto di un’interprete sorprendente, capace di performance inesauribili.
«BIC girl» vengono chiamate le ragazze della casa famiglia Seven Oaks, attorno a cui ruota una parte cruciale della storia di Under the Bridge, miniserie in arrivo su Disney+ il 10 luglio. BIC, come la nota marca di accendini, o penne biro: usa e getta, di poco valore, qualcosa che si perde facilmente, e nessuno ne fa una tragedia. Quando una di loro, Reena Virk, scompare, infatti, l’unica che concede all’indagine un minimo d’attenzione è la poliziotta Cam Bentland: di origini native, prima di essere adottata dal capo della polizia bianco, era stata anche lei una BIC girl, un’adolescente in carico al sistema di affidamento minori, e aveva vissuto proprio lì, a Seven Oaks. A interpretare Cam c’è Lily Gladstone, che il grande pubblico conosce oggi soprattutto per il ruolo di Mollie in Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese; anche in Fancy Dance, piccolo film indipendente già presentato con un certo successo critico un anno e mezzo fa al Sundance e da pochi giorni distribuito internazionalmente da Apple TV+, Lily Gladstone interpreta una donna che ne cerca un’altra: siamo in Oklahoma, nella riserva Seneca-Cayuga, e l’intraprendente Jax (Gladstone, appunto) cerca ostinatamente sua sorella Tawi, sparita da qualche settimana senza lasciare traccia, nell’indifferenza generale, soprattutto quella delle forze dell’ordine, sia tribali sia federali.
Under the Bridge, sviluppata dalla showrunner Quinn Shephard (Blame, Not Okay) a partire dall’omonimo libro non fiction di Rebecca Godfrey (che nella serie diventa un personaggio a sua volta, interpretato da Riley Keough) è tratta da una storia vera, un’agghiacciante vicenda di cronaca accaduta nel 1997 a Victoria, in British Columbia, Canada: il brutale omicidio di Reena Virk, una ragazzina di 14 anni, selvaggiamente picchiata sotto un ponte da un gruppo di coetanei, e affogata nelle acque sottostanti. Probabilmente poco noto da questa parte dell’oceano, in Canada il caso e il conseguente processo, al centro di una montante attenzione mediatica, hanno segnato uno spartiacque nell’immaginario collettivo, sia portando il pubblico a interrogarsi finalmente su questioni come il bullismo o la gestione dell’assistenza sociale, sia scatenando un’ondata di moral panic non dissimile da quelle per il presunto “satanismo” già viste altrove negli anni 80 e 90. Fancy Dance, invece, è un racconto di finzione, firmato dalla regista Erica Tremblay (con cui Gladstone aveva già lavorato nel cortometraggio Little Chief) con la co-sceneggiatrice Miciana Alise, ma affonda le sue radici nell’esperienza autentica delle sue autrici e, soprattutto, in una crisi umanitaria tuttora in corso, e pochissimo raccontata: quella delle sparizioni e degli omicidi di donne indigene (Missing and Murdered Indigenous Women) che negli Stati Uniti e in Canada raggiungono proporzioni spaventose (in Canada il tasso di omicidi di donne indigene è sei volte superiore a quello di qualsiasi altro gruppo demografico, negli Usa le donne e le ragazze native hanno più del doppio della probabilità di chiunque altro di subire violenza nel corso della propria vita).
A legare i due titoli – diversi per genere, format, ritmo e tono – c’è, dunque, la presenza di Lily Gladstone, con due personaggi che hanno in comune alcuni tratti (la determinazione e la scarsa loquacità, soprattutto; sono anche due personaggi queer, in entrambi i casi felicemente dato di fatto e non punto primario del racconto) e l’obiettivo che li guida, la “protezione” di ragazze adolescenti (mentre cerca la sorella Tawi, Jax si prende cura della nipote tredicenne Roki); ma sono anche due donne ai lati opposti della legge (Cam è un’agente di polizia, Jax ha un passato e un presente di piccola criminalità), così come del rapporto con la propria comunità e discendenza (Cam non sa praticamente nulla delle proprie origini native, Jax invece vive nella riserva, parla la lingua cayuga, partecipa con la famiglia alle tradizioni indigene – motore del film è la partecipazione di Roki a un annuale powwow in città). Legato alla presenza di Gladstone, un altro filo tematico scorre tra Under the Bridge e Fancy Dance, quello del ricollocamento forzato di bambini e ragazzini indigeni in famiglie bianche, una pratica perpetrata fin dagli albori della colonizzazione bianca dell’America e rinnovata nei secoli attraverso differenti forme, tra cui quella “legalizzata” dell’assistenza sociale. In Fancy Dance, Roki è cresciuta con la madre e la zia (“zia” in lingua cayuga significa “piccola madre” o “altra madre”, scopriamo in un momento topico del film), ma quando Tawi scompare il “sistema” ritiene di darla in affido al nonno, bianco (Shea Whigham), e alla sua nuova moglie, nonostante la ragazzina li conosca appena e nonostante questo significhi allontanarla dalla riserva in cui è cresciuta e dalle tradizioni della sua comunità. Il film è attento a sottolineare, senza manicheismi e con delicatezza, la totale incomprensione delle tradizioni seneca-cayuga da parte dei nonni bianchi, che chiamano gli abiti cerimoniali “costumi” e cercano di indirizzare la passione per il powwow di Roki verso lo studio della danza classica.
Oltre 150 anni prima degli eventi narrati in Fancy Dance, anche Mollie Kyle, la protagonista di Killers of the Flower Moon, insieme alle sorelle, era stata obbligata alla “rieducazione” bianca in un collegio cattolico, una pratica di assimilazione forzata perpetrata con sistematicità per oltre due secoli durante il genocidio dei nativi americani: nella versione cinematografica di Martin Scorsese è sottinteso, mentre ne parla più approfonditamente David Grann nel volume-inchiesta Gli assassini della terra rossa, da cui il film è tratto. Lily Gladstone, come ha raccontato diverse volte durante la scorsa stagione dei premi, ha saputo di aver ottenuto la parte proprio il giorno del compleanno di Mollie, una coincidenza che l’ha commossa. L’invito a un incontro via Zoom con Scorsese, invece, qualche tempo prima, l’aveva ricevuto in un momento in cui stava pensando di abbandonare la recitazione, ed era sul punto di aderire a un progetto di citizen science per lo studio del calabrone gigante asiatico (una specie invasiva che nel 2020, in concomitanza con la pandemia, era apparsa in massa negli Stati Uniti). Nonostante diversi anni di lavori alla spalle, con esperienze al cinema (ha debuttato in Jimmy P. di Arnaud Desplechin) e in tv, la sua carriera non era ancora decollata, e lei era pronta a voltare pagina.
Nata in Montana nel 1986, cresciuta nella riserva Blackfeet di Browning, di madre bianca e padre di discendenza blackfeet e nez perce, Gladstone racconta di essersi appassionata alla recitazione guardando Il ritorno dello Jedi e sognando di interpretare un ewok, i piccoli e pelosi abitanti della luna boscosa di Endor che vivono in armonia con la natura e riescono a sconfiggere l’imperialismo galattico combattendo con archi, frecce e fionde (il nome “ewok”, tra l’altro, è stato scelto da George Lucas perché assonante con quello della tribù nativo-americana Miwok, originaria della foresta di Redwood dove le sequenze di Endor sono state girate – «troviamo il modo di riconoscerci nel cinema, anche se quasi mai direttamente» ha avuto modo di dichiarare proprio Gladstone, a proposito dell’esperienza di spettatrice nativa). Durante l’ultima stagione dei premi, che la vedeva in corsa per l’Oscar alla migliore attrice (la prima persona nativa americana mai nominata come protagonista in quasi un secolo di Academy Award), qualcuno ha ripescato una vecchia fotografia del suo annuario del liceo, in cui i compagni l’avevano incoronata “probabilmente destinata a vincere un Oscar”.
Ma, nonostante la sua vocazione per il palcoscenico fosse evidente a tutti (già da bambina si è messa alla prova, quando in città è arrivato l’itinerante Missoula Children’s Theatre, nei panni di una sorellastra di Cenerentola) , Gladstone ha scelto subito di non aderire al percorso “prefissato” di chi insegue una carriera a Hollywood: dopo la laurea all’Università del Montana – in recitazione e regia, più una specializzazione in studi nativo-americani – non si è trasferita a Los Angeles, non si è cercata un agente, non si è infilata nel processo ripetitivo e sfiancante di un’audizione dietro l’altra. È rimasta in Montana, ha lavorato molto in teatro, ha stretto rapporti con filmmaker locali e ha anche incominciato a insegnare recitazione, sviluppando un proprio metodo.
La radice comune alle parole “attore” e “attivista” non le è mai sfuggita, e anzi informa tutta la sua opera, e il suo approccio alla performance. In questa bella intervista al “New Yorker”, ricorda come, ai tempi dell’università, prima di andare in tour con la compagnia Montana Repertory, stava pensando di fare un dottorato in cui sviluppare un metodo pedagogico per la rivitalizzazione delle lingue indigene basato sulla recitazione. «Venendo da un background di arti performative, notavo una similitudine tra le pratiche di recitazione basate sulla fisiologia e quelle costruite sulla risposta fisica che si usano per l’immersione linguistica» spiega. «Quando impari la parola “sedersi”, ti stai sedendo. Infondi il concetto nel tuo corpo, nel tuo movimento. Sentivo che quella poteva essere una chiave, forse, il prossimo passo da utilizzare per aiutare a rivitalizzare la lingua». Una teoria che ha messo in pratica proprio sul set di Killers of the Flower Moon, dove imparare a padroneggiare l’osage le è stato fondamentale per ridare vita a Mollie (Gladstone, anche nelle interviste che sta rilasciando in questi giorni per Fancy Dance, si preoccupa spesso di far notare con grazia che le lingue native sono completamente diverse le une dalle altre, e che lei stessa non parla fluentemente il blackfoot, la lingua della sua tribù, quindi per ogni personaggio interpretato finora ha studiato una lingua completamente nuova).
Fa parte anche di questa attenzione per le lingue indigene, per l’importanza cruciale che rivestono nel ricostruire un senso d’identità e appartenenza disintegrato generazione dopo generazione, anche la sua scelta di adottare sia il pronome femminile “she” sia il “singular they” non binario: molte lingue nativo-americane non hanno pronomi genderizzati, e questo, dice Gladstone, può essere un modo di “decolonizzare il genere” attraverso il linguaggio. «Il blackfoot ha verbi genderizzati, il che è un concetto interessante» spiega, sempre nell’intervista al “New Yorker”. «Ci sono certamente ruoli di genere nella nostra comunità, ma il genere non è per forza prescrittivo. Il mio nome, Piitaki, significa “Donna aquila”, ed è il suffisso “aki” a renderlo femminile. Ma tra gli eroi della storia blackfeet c’è Piitamakaan, “Aquila che corre”, che sarebbe un nome maschile, ma ad averlo era una donna, perché era una grande guerriera. Ciò che faceva era “maschile”, ma il genere non era binario nel modo in cui siamo abituati a pensarlo. Parlando di pronomi, in blackfoot non esistono “lui” o “lei”, esiste solo “questa persona”, “quella persona”, e la traduzione più simile in inglese è il “singular they”. Come sempre, poi, la questione è differente per ogni tribù: per esempio la nazione Navajo ha molti diversi pronomi per molti diversi generi, e lo stesso mi hanno detto della nazione Crow».
Lavorando sulla lingua osage, durante le riprese di Killers of the Flower Moon, Gladstone ha partecipato anche attivamente alla riscrittura di alcuni dialoghi, in un lungo processo che ha visto il suo ruolo allargarsi mentre lo script e l’intero progetto cambiavano focus e prospettiva. È di Gladstone, per esempio, l’idea che Mollie soprannomini “coyote” Ernest Burkhart/Leonardo DiCaprio, una scelta che per molti spettatori nativo-americani nasconde un doppio significato rivelatorio: il coyote è anche, in diverse leggende indigene, un trickster, un essere mitologico del folklore capace di mutare forma (spesso è un animale antropomorfo), un ingannatore vorace e privo di morale. Gladstone ha partecipato anche alla scrittura della sequenza in cui Mollie e le sue sorelle chiacchierano in osage di Ernest e dei suoi intenti. Per prepararsi al ruolo, oltre al lavoro sulla lingua, Gladstone ha vissuto in Oklahoma per la durata delle riprese, ha conosciuto i nipoti di Mollie e Ernest, ha intessuto con la comunità osage un rapporto intenso destinato a durare nel tempo, ben oltre il periodo di realizzazione e promozione del film.
Quest’immersività non solo nel ruolo, ma anche nel contesto, verrebbe da dire nel paesaggio, è probabilmente parte di ciò che garantisce alle performance di Gladstone un tratto distintivo e unico, una presenza potente anche quando (quasi sempre) lavora in sottrazione. «Ci sono pochissimi attori che si fidano della quiete, della calma, del silenzio» ha detto parlando di lei Martin Scorsese. «E quella fiducia viene da una comprensione acuta della propria presenza. Gli attori un tempo la chiamavano “il mio strumento”: Lily ha il controllo completo del proprio strumento. È davvero raro». È qualcosa che si accorda perfettamente al cinema di Kelly Reichardt (al quale abbiamo dedicato la newsletter n. 9) nel cui Certain Women, nel 2016, Gladstone ha fatto il proprio debutto da co-protagonista. Con un ruolo, quello della giovane rancher Jamie, lavoratrice stagionale che si occupa in solitaria di alcuni cavalli nel gelo del Montana, che perfettamente si allinea al suo percorso a venire, e che già rivela tutta la potenza del suo metodo performativo: splendidamente in accordo con il minimalismo caratteristico di Reichardt (con cui tornerà a lavorare, questa volta da non protagonista, in First Cow), Gladstone costruisce il personaggio nei silenzi e nelle attese, nella ripetizione dei gesti, nel rapporto con l’ambiente, nei sorrisi luminosi che di tanto in tanto le accendono, quasi insopprimibili, il volto.
E il paesaggio è fondamentale anche in un altro titolo costruito attorno a lei, purtroppo inedito in Italia, The Unknown Country, collaborazione (anche alla sceneggiatura) di Gladstone con la regista Morrisa Maltz, un lavoro che è proseguito quest’anno in Jazzy, presentato un mese fa al Tribeca Festival, film in cui Gladstone riprende (questa volta come comprimaria) il ruolo di Tana. Per certi versi ricollegabile all’esperimento portato avanti da Chloé Zhao in Nomadland, anche The Unknown Country è un road movie che mescola fiction e documentario: Tana/Gladstone è una giovane donna che attraversa il Midwest mentre tenta di elaborare un lutto, scivolando tra i luoghi tipici del territorio statunitense, dai diner ai motel ai convenience store, incontrando lungo la strada esempi d’umanità insieme comune e straordinaria, alle cui storie vere la regista dedica détour in cui ognuno si racconta in voce off. È un film piccolo e semplice, si potrebbe dire perfino esile, in cui è proprio la presenza di Gladstone a fare, letteralmente, da motore e collante, rivelando ancora una volta la propria qualità ipnotica, implicitamente carismatica. Come poi in Killers of the Flower Moon, è allo stesso tempo una presenza enigmatica e accogliente, si muove come un mistero da sciogliere da cui è impossibile distogliere lo sguardo.
In questa stagione 2023-2024, che è stata il suo “anno della svolta”, Lily Gladstone è diventata anche per il resto del mondo la star che, per chiunque l’avesse conosciuta prima (compagni di liceo o colleghi di set), era sempre stata. Ha attraversato la stagione dei premi con intelligenza e suprema pazienza, riuscendo a spremere interesse dall’estenuante tour de force di ospitate in tv e interviste sempre uguali (segnaliamo anche la partecipazione alla “Hollywood issue” di “Vanity Fair”, con quest’altra bella intervista). Lo scorso maggio è stata giurata al Festival di Cannes, accanto alla presidente Greta Gerwig. Tra i suoi prossimi progetti c’è per la prima volta un film di fantascienza, l’atteso The Memory Police, tratto dal romanzo distopico della scrittrice giapponese Yoko Ogawa, diretto dalla Reed Morano di The Handmaid’s Tale e sceneggiato da Charlie Kaufman (una gioia per Gladstone, che ha raccontato di considerare Il ladro di orchidee – Adaptation. tra le sue visioni formative). Fino a pochi giorni fa ha fatto campagna per gli Emmy per Reservation Dogs, la bellissima serie co-creata dal suo amico Sterlin Harjo (e in cui lei è apparsa come guest star: la trovate su Disney+), che si è conclusa dopo tre acclamate stagioni, e che enormemente ha contribuito all’attuale “ondata” di produzioni hollywoodiane che finalmente, dopo oltre un secolo di white gaze, cominciano a raccontare lo sfaccettato universo nativo-americano con occhi e punti di vista indigeni. Il suo accesso allo stardom, Gladstone ne è consapevole, è un grimaldello cruciale: come ha detto al “New Yorker” non si tratta solo di «aprire la porta», ma di «metterci un piede dentro, e tenerla aperta», per tutte le storie, gli interpreti, gli autori e le autrici che verranno. Spalancata su un paesaggio, e su uno sguardo, che ci è ancora, in larga parte, sconosciuto. ALICE CUCCHETTI
Il ruolo che ha rivelato il talento di Lily Gladstone è quello di co-protagonista di uno dei tre episodi di Certain Women di Kelly Reichardt. Vi riproponiamo la recensione, firmata da Ilaria Feole e pubblicata originariamente su Film Tv n. 15/2017.
Certain Women
La raccolta di racconti da cui è tratto Certain Women si intitola Both Ways Is the Only Way I Want It, ossia “in entrambi i modi, è l’unico modo in cui lo voglio”: un rovello contraddittorio da cui traspare la miscela di ostinazione e frustrazione che anima le protagoniste del film di Kelly Reichardt. Che dal volume di Maile Meloy preleva tre storie (ma quattro donne: con un significativo cambio di sesso, è fra due ragazze la relazione irrisolta dell’ultimo segmento) e non percorre sentieri già tracciati per allacciarle in lungometraggio: Certain Women non è corale, le vicende sono labilmente legate fra loro, hanno durate variabili (dai soli 20 minuti del secondo episodio ai quasi 60 dell’ultimo) e sono giustapposte come se sfociassero spontaneamente una dentro l’altra. Lo scenario è quello delle pianure del Montana, fotografate in una tavolozza terrea e sulfurea: Laura Dern, avvocato di provincia, indica il suo maglione all’amante: «è come una pesca!», «si chiama grigio talpa» risponde lui. Quella sfumatura di colore le resta incollata addosso - mentre affronta un caso di infortunio per un cliente lagnoso e forse squilibrato - e poi scivola attraverso il film, nelle rocce di arenaria che il personaggio di Michelle Williams, moglie e madre insoddisfatta, vuole acquistare per farne la propria casa, e ancora nei maglioni sgraziati che l’aspirante avvocato di Kristen Stewart si infila per un ingaggio che le costa un pendolarismo folle (quattro ore di auto all’andata, quattro al ritorno). Microcosmi femminili che si aprono e si richiudono senza che (quasi) nulla sia cambiato: quattro donne diverse, in diversi modi alle prese con la legge (due di loro la esercitano) e col concetto di proprietà (le pietre sono un’eredità “rubata”), come in un sequel ideale di Meek’s Cutoff: là le pioniere che facevano la Frontiera, qui le loro discendenti, a contrattare il proprio posto nel (non più Nuovo) mondo. Reichardt, anche montatrice e quindi autrice materiale delle suture irregolari fra i lacerti narrativi, ha come sempre il dono di trattare i rovelli interiori alla stessa stregua dello scenario fisico in cui i personaggi si muovono. Rabbia e desiderio, impastati nella grana di un 16 mm ottundente, si fanno materici, sbalzati nel paesaggio come un bassorilievo. ILARIA FEOLE
La richiesta dei “Four Favorites”, i “quattro film preferiti”, che gli inviati di Letterboxd fanno a interpreti e registi sui red carpet è ormai un appuntamento amato da tanti cinefili. Durante la promozione di Fancy Dance, Lily Gladstone e Erica Tremblay ne hanno approfittato per segnalare titoli di registi nativi americani. [in inglese]
Su Link – Idee per la tv è in corso la serie di approfondimenti Schegge, scritta da Stefania Carini e dedicata alla storia della Rai. Il primo articolo racconta di una pioniera del nostro piccolo schermo, Elda Lanza: potete leggerla qui.
Alla libreria Tuba di Roma, dopo un primo appuntamento il 29 giugno, si svolge il 4, 5 e 6 luglio l’edizione n. 11 di Bande des femmes, festival di fumetto e illustrazione a partire da artiste, illustratrici e fumettiste.