Singolare, femminile ♀ #137: Sailor Moon Generation
Incontriamo Giorgia Sallusti, curatrice del volume Genere e Giappone, edito da Asterisco: un lavoro composito e collettivo, che rivede titoli, autorialità, fenomeni e temi ricorrenti della produzione di manga e anime attraverso prospettive femministe e queer. Per scoprire quanto la potenza immaginifica di fumetti e serie animate, da decenni seguitissimi anche in Occidente, abbia plasmato il nostro presente.
Uno dei saggi contenuti in Genere e Giappone – Femminismi e queerness negli anime e nei manga, volume curato da Giorgia Sallusti per Asterisco Edizioni e uscito alla fine dell’anno scorso, è dedicato a una parola che in molti ormai conosciamo, ma che difficilmente riusciamo a tradurre con un solo termine equivalente in italiano (o anche in altre lingue): kawaii. Qualcosa che è contemporaneamente un’idea e un’estetica, e pure un paradigma narrativo, che identifichiamo immediatamente come specificamente giapponese e che, nel saggio intitolato Tenerezza ed eterna giovinezza – L’estetica kawaii da rivoluzione a orientalismo, l’antropologa Marianna Zanetta ci rivela come profondo e stratificato, un contenitore di significati opposti e potenzialità contrastanti. È qualcosa che succede spesso, in Genere e Giappone, quasi una cifra ricorrente: manga e anime sono un territorio vasto e vibrante, capace di contenere, e insieme esplicitare, moltitudini, anche contraddittorie. Ne parliamo con Giorgia Sallusti, che oltre ad aver curato questo volume è anche una traduttrice, una libraia (gestisce la libreria indipendente Bookish a Roma) e una yamatologa (ovvero una studiosa di lingua, letteratura e civiltà giapponese). In libreria è arrivato da poco anche il suo A Tokyo con Murakami, e se siete interessati al Giappone vi consigliamo di ascoltare il suo podcast Yamato.
Com’è nata l’idea di Genere e Giappone?
Tutto è cominciato un paio di anni fa, se non sbaglio: il progetto ha avuto una lunga gestazione. Mi ha contattato Laura Fontanella di Asterisco Edizioni e ci siamo scritte a lungo anche con il resto della redazione: loro avevano in mente di fare un libro sui manga e gli anime giapponesi, e in qualche modo rileggerli in chiave femminista e queer, e mi hanno offerto la curatela. Io ovviamente ho accettato con grande entusiasmo perché ho passato lunghe ore della mia infanzia davanti alla tv e volevo metterle a frutto (ride, ndr)! A questo punto è iniziato un lavoro molto divertente, e collettivo, che ho chiamato “il calciomercato”: scegliere le autrici e gli autori, e poi gli argomenti. È questo che ha richiesto una lunga gestazione: ci siamo presi il tempo necessario, abbiamo scelto le persone con cura, e poi qualcuna l’abbiamo persa per strada, qualcun’altra si è unita all’ultimo. È stato divertente e stimolante: considera che ognuno di noi aveva un limite di battute, e nessuno è riuscito a rispettarlo, avevamo tantissime cose da dire, il libro si è ingrandito, la foliazione è aumentata… e finalmente, a fine 2023, è arrivato in libreria!
La domanda successiva parte proprio da qui, infatti: come hai selezionato i collaboratori e, soprattutto, come avete deciso quali titoli e quali argomenti includere, mappando un campo potenzialmente sconfinato?
Per quanto riguarda la scelta degli autori, per continuare a usare un gergo calcistico, abbiamo cercato di mettere in squadra sia persone che si occupassero già da tempo di manga e di anime, sia qualcuno che fosse esperto di Giappone e letteratura giapponese in un senso più ampio, e anche qualcun altro che fosse studioso di fumetto in generale. Per esempio, ci sono Francesca Torre, che è una sceneggiatrice; Carla Gambale, che ha un canale e un podcast sui fumetti ma non specificamente sul Giappone; Andrea Pacini, che invece si occupa di lingua e letteratura giapponese… Il tentativo era quello di rileggere manga e anime da prospettive differenti, e per farlo abbiamo lasciato anche completa libertà nella scelta dell’argomento, ferma restando l’applicazione di un filtro femminista e/o queer all’analisi. Ognuno è stato libero di scegliere o un singolo fumetto o serie, o un autore o autrice, o di fare un discorso più trasversale. Per esempio Mara Famularo ha scelto di parlare di un collettivo di autrici, il “gruppo dell’anno 24”. Sono molto soddisfatta del risultato che abbiamo assemblato.
A colpire nella lettura dei saggi, sia che ci si concentri su personaggi femminili sia che si parli di queerness, è una costante ambivalenza: affrontando questi macroargomenti, emergono sempre contraddizioni interne ed esterne a ogni titolo analizzato. Per fare un solo e più immediato esempio: la grande presenza di eroine “empowering” – il libro si apre proprio con un saggio su Sailor Moon, che all’epoca della messa in onda era in piena continuità con opere occidentali come Buffy l’ammazzavampiri – in una società estremamente conservatrice come quella giapponese, in cui ancora oggi la parità tra generi è lontana, figuriamoci negli anni 70 o 80 in cui sono stati realizzati alcuni dei fumetti trattati…
Mi interessa molto il collegamento che fai tra Sailor Moon e Buffy, perché anche se arrivano da contesti culturali diversi in entrambe le serie c’è un ribaltamento di prospettiva. La serie Buffy rovescia il concetto di “damsel in distress”, “damigella” in pericolo: Buffy ha l’aspetto della tipica final girl degli horror, bionda, giovane, carina, ma invece di dover esser salvata va a caccia di mostri. È un ribaltamento di prospettive e di archetipi, e questo stesso processo nei manga e poi negli anime giapponesi comincia decisamente prima, sin dai tempi di Lady Oscar, o da quelli ancora precedenti di La principessa Zaffiro. Credo che queste dinamiche, presenti nei fumetti e nei cartoni animati, siano ancora più forti proprio perché nascevano in una società in cui la spinta era contraria, e quindi raccontavano un’esigenza femminile e femminista che faticava a trovare spazio nella vita reale, nell’esistenza quotidiana. C’è anche da dire che nella società giapponese c’è una grande distinzione tra ciò che è finzionale e ciò che è reale: nel mondo del cartone animato, ma anche in quello della narrativa in generale, della letteratura, è possibile dar voce a chiunque e in qualunque modo fintantoché questo non si ripercuote sulla realtà. Se dobbiamo parlare dei diritti della comunità LGBTQ nella produzione giapponese, son dolori! È necessaria una battaglia ancora più lunga e difficile. Ma, per esempio, nel saggio di Mara che citavo prima, quello sul gruppo dell’anno 24, si racconta la storia di un collettivo di mangaka donne, e quindi della difficoltà di essere intanto una donna che fa un lavoro che in genere è appannaggio maschile, e poi di un successo, di un modo di farsi strada che, in un contesto professionale faticosissimo (la professione di mangaka è notoriamente usurante), trova la propria forza nel collettivo, nel lavorare insieme, nel rendersi una rete di cura. Anche l’esperienza stessa di fare fumetti può essere rivoluzionaria.
Dicevi, appunto, che per quanto riguarda le istanze queer la situazione è ancora più complessa…
Al Salone del libro di Torino mi è capitato di partecipare a un evento di Star Comics, insieme a Claudia Calzuola – che dirige la loro collana di manga queer – e alla traduttrice Anna Specchio, e abbiamo rilevato che questa differenza inscalfibile tra ciò che è finzionale e ciò che è pertinente alla vita reale sta iniziando pian pianino a mostrare delle crepe. La generazione che noi chiamiamo millennial, e che in Giappone in molti chiamano non a caso “generazione Sailor Moon”, si è formata nel contesto di certi anime e manga, e oggi è molto più rumorosa e meno conservatrice di chi l’ha preceduta. Speriamo che abbia un impatto sempre più rilevante. Io sono molto nostalgica e legata ai titoli della mia infanzia, ma oggi come oggi anche le distinzioni binarie nel marketing dei manga spesso non vengono nemmeno più considerate. I lettori di oggi hanno molti più strumenti, e credo sia la conseguenza proprio del lavoro fatto da opere finzionali nella vita reale.
Tornando al gruppo dell’anno 24, la loro storia mi ha colpito molto, proprio per la dimensione lavorativa “alternativa” di cui dicevi. In Genere e Giappone si parla molto di donne sul posto di lavoro, anche nel saggio su Aggretsuko, che in effetti è una delle serie più recenti che analizzate.
Aggretsuko è una serie animata che a me piace particolarmente, e ha diversi meriti. È un ottimo prodotto, ed è molto divertente – non dimentichiamo mai che l’intrattenimento, qui, è il punto fondamentale. Aggretsuko racconta però davvero cosa significhi essere una donna lavoratrice nel Giappone di oggi, soprattutto in una grande azienda (qualcosa che aveva raccontato anche Amélie Nothomb in Stupore e tremori, un libro che consiglio molto). Il gap salariale tra uomo e donna in Giappone è molto ampio – non che in Italia si stia troppo meglio… –, e la disparità di carriera è ancora molto forte. Aggretsuko parla di mobbing, di discriminazioni, in un modo divertito e divertente, la protagonista reagisce alle sue giornate stressanti cantando death metal al karaoke. Una cosa interessante che differenzia Aggretsuko da altre serie precedenti – per esempio dalla stessa Sailor Moon, che ha moltissimi meriti, ma comunque propone un modello estetico di femminilità standardizzata e convenzionale – è che tutti i personaggi sono animali antropomorfi, e nessuno ha caratteristiche negative o positive associate all’aspetto fisico. E così riesce a superare anche quel tipo di stereotipo.
Nel saggio che hai scritto tu, invece, parlando di Lamù convochi lo xenofemminismo di Helen Hester e il Manifesto cyborg di Donna Haraway. La grande presenza della fantascienza, negli anime e nei manga, è un fattore che può diventare anche teorico e politico?
Lo xenofemminismo mi interessa molto, il superamento della “naturalità” è, secondo me, una parte fondamentale del lavoro sui corpi. La fantascienza è un campo da gioco molto vivace da questo punto di vista, basta pensare, oltre a Haraway e Hester, anche a Ursula K. Le Guin. Lamù mi sembrava il fumetto perfetto per queste riflessioni, perché racconta di una ragazza aliena ultratecnologica che arriva sulla Terra degli anni 80, e quindi rappresenta già, di per sé, l’Altro da noi. È una donna, un individuo femminile che si muove in modo diverso ma che, nel corso del fumetto, si integra con i terrestri, sempre rappresentando però una certa libertà, la possibilità di andare oltre i binari prestabiliti. Lamù è un fumetto scritto da Takahashi Rumiko, che è una fumettista giapponese di grandissimo successo ancora oggi, per questo manga in particolare. Quando è uscito in Giappone le etichette di target che dividono i manga giapponesi – gli shojo per il pubblico femminile e gli shonen per quello maschile, per esempio – erano ancora molto ben definite, solide e impermeabili, anche se negli ultimi anni le cose stanno cambiando (Naruto o One Piece, per dire, oggi sono letti indifferentemente da ragazzi e ragazze). Eppure Lamù vinse all’epoca il premio come miglior fumetto dell’anno sia nella categoria shojo sia in quella shonen. Takahashi è riuscita da sola, e in anticipo sui tempi, ad abbattere questa barriera. È uno dei miei manga preferiti, ed è pieno di senso del comico anche quando tratta temi profondi.
Ragionando ancora sulla fantascienza, ma anche sull’horror e sul fantastico (al centro dell’interessante saggio di Antonia Caruso), penso a come sia proprio il medium del disegno, e poi del disegno animato (anche in contrapposizione al live action che domina l’intrattenimento occidentale non per bambini), a poter contenere in sé un germe rivoluzionario: spalanca illimitate porte all’immaginazione, e l’immaginazione – come diceva Ursula Le Guin, che citavi – è ciò che ci permette di andare oltre, di vedere le possibilità di cambiamento. E anche di introdurre quell’ambivalenza di cui parlavamo all’inizio. Mi viene in mente, per esempio, un manga/anime che non è stato trattato nel libro, ma a cui è impossibile non pensare, cioè Ranma ½, in cui lo stesso personaggio cambia continuamente genere, da ragazzo a ragazza…
Anche Ranma ½ è di Takahashi Rumiko, ed è forse uno dei suoi lavori più comici, in cui il cambiamento di genere apre le porte a equivoci molto divertenti. Moltissime cose nei manga e negli anime giapponesi sono insitamente queer, prima ancora che esistesse la parola, o che fosse usata come la intendiamo oggi. Noi che siamo cresciuti guardandoli abbiamo familiarizzato con certi concetti o situazioni prima ancora che fossero definiti come tali, e quando è poi arrivato il momento li abbiamo accolti con naturalezza. Qui sta, secondo me, il potere immaginifico degli anime: ci hanno dato un linguaggio da usare prima ancora che sapessimo di cosa stavamo parlando. Il saggio di Antonia che citavi, invece, parla dei corpi mostruosi, e del mostruoso femminile, e lì l’animazione e il disegno sono portentosi nel dare forma a qualcosa di totalmente immaginifico, e incredibilmente potente.
Di contro, come giustamente notano alcuni altri saggi, ci sono anche manga e anime che invece sono densi di stereotipi anche terribili, che sono spesso passati inosservati proprio perché inseriti nel contesto “leggero” del cartone animato. I saggi su Pokémon e ancora di più su Pollon sono rivelatori, anche per come ci ricordano che i censori dei canali occidentali si sono sempre preoccupati molto di oscurare, per dire, la queerness dei personaggi di Sailor Moon, ma non gli stupri e le violenze che subiscono in ogni puntata i personaggi femminili di Pollon…
Sì, anche per questo è importante andare a rileggere quei titoli con una diversa prospettiva. Pollon, tra l’altro, è una bambina molto sessualizzata, nella versione italiana l’età è stata alzata a 10-11 anni, ma in quella originale dovrebbe avere 6 anni… Quella di Pollon è stata una rilettura interessante, e dolorosa, ma secondo me importante, alla luce di una consapevolezza più ampia.
Oggi, invece, il contesto giapponese è molto cambiato? Ci sono, per esempio fumetti apertamente queer di successo?
Sì, molti, e in tirature molto ampie. Come dicevo prima, anche in Italia Star Comics ha una collana dedicata ai manga queer, che pubblica molte opere interessanti. E anche nel nostro paese la lettura dei manga si è fatta molto più diffusa, è uscita dalla nicchia, i numeri stanno crescendo, questo tipo di storie arriva a un grande pubblico.
A questo proposito, ti faccio una domanda che esula dal libro e da femminismo e queerness. Tu sei una yamatologa, studi il Giappone da sempre. Oltre a questo aumento del consumo di manga di cui parli, negli ultimi anni è indubbio che ci sia un’ondata di Giappone-mania… Anche solo negli ultimi mesi abbiamo visto il grande successo dell’ultimo film di Miyazaki, di Perfect Days di Wim Wenders e della serie Shogun su Disney+. Soprattutto mi interessa chiederti cosa pensi di questi ultimi due, considerato che sono opere sul Giappone, sì, ma fatte da occidentali.
Il Giappone ha sempre incuriosito noi occidentali, ci sono sempre stati molti appassionati. Negli ultimi anni però è vero che la passione è esplosa. Il mio parere personale è che, proprio come negli anni 90 il successo dei manga è stato trainato dalle serie anime in tv, oggi un ruolo simile è giocato dalle piattaforme streaming, che hanno portato a una maggiore diffusione di serie e film giapponesi (dal catalogo Ghibli su Netflix ai canali streaming interamente dedicati agli anime). C’è stata anche una grande legittimazione del fumetto in generale, a un certo punto i fumetti sono entrati nelle classifiche di vendita e nelle librerie, e questo ha trainato anche il resto. Si traduce, per fortuna, molto di più dal giapponese, ed è fisiologico che quando arrivano così tanti titoli non tutti siano di qualità, ma questo successo ci ha consentito di portare in Italia anche autori e autrici ancora poco noti, come Kawakami Mieko e Murata Sayaka. Molte case editrici si sono accorte che esiste tanta letteratura giapponese che esula dallo stereotipo “del gatto e del caffè”… Per quanto riguarda l’approccio occidentale, anche questo è “antico”: il romanzo da cui è tratta Shogun, scritto da un inglese, è del 1975: io l’ho letto all’università e mi ero divertita moltissimo, è un romanzo storico ma anche d’avventura. Invece Perfect Days di Wenders è ambientato a Tokyo, ma mi sembra che racconti una Tokyo vista con gli occhi di un occidentale: l’autore ha fatto i compiti perfettamente, ma la sua resta una visione personale, e parziale. Per dirla tutta, penso sia un po’ “piacione”: ne capisco perfettamente l’estetica, ma la Tokyo che racconta è molto silenziosa, quando quella reale ti schiaffeggia con i suoi rumori, i colori, gli odori, è sempre in movimento… Ma, in ogni caso, è giusto che ognuno possa raccontare il “suo” Giappone, e mi pare che anche noi occidentali qualche passo avanti rispetto alla Madama Butterfly di Puccini l’abbiamo fatto…
Ultimissima domanda, per chiudere tornando al libro Genere e Giappone: se dovesse mai esserci un “volume 2”, anche visto quel che dicevamo prima, che il territorio potenzialmente analizzabile è larghissimo… di cosa vorresti occuparti?
Sarebbe troppo facile dire Ranma ½! Ma un titolo che mi interessa molto è La principessa Zaffiro di Tezuka Osamu. È un lavoro di una generazione precedente, e l’autore è un uomo, però affronta questioni affascinanti: la principessa Zaffiro decide di crescere come un principe, è avventurosa, sfida altri a duello, si aggira al galoppo… è uno dei miei personaggi preferiti, ed è circondata da altri caratteri molto interessanti. Tra cui Zelda, la figlia di Satana, che invece è estremamente femminile, passa le giornate a cogliere fiori, a essere gentile con le persone e gli animali, e Satana cerca di catturare Zaffiro per strapparle il cuore e trapiantarlo nel petto di Zelda… Per farla diventare una donna più feroce, più violenta, la sua degna erede. Secondo me è un fumetto incredibile, e mi piacerebbe analizzarlo in profondità. ALICE CUCCHETTI
All’animazione giapponese abbiamo dedicato il n. 13/2024 di Film Tv, con uno speciale che comprendeva anche una panoramica sui maggiori autori non solo contemporanei. Tra questi, solo un’autrice, Naoko Yamada, di cui in Italia sono stati distribuiti i film La forma della voce e Liz e l’uccellino azzurro. Vi riproponiamo qui la recensione del primo, pubblicata su Film Tv n. 43/2017.
La forma della voce
Nel 2016 al botteghino giapponese – e, in seguito, a quello planetario – s’impone il fenomeno inarrestabile Your Name.; l’unico titolo che gli resiste, fin quasi a pareggiarne l’entusiastica risposta di pubblico e critica, è questo La forma della voce, dal manga d’esordio di Yoshitoki Oima. Opera effettivamente sorprendente nella sua essenzialità e pulizia, nella delicatezza con cui racconta il travagliato percorso di crescita del giovane Shoya – che prima pratica e poi sperimenta tutte le declinazioni, prima esplicite e poi subdole, del bullismo – e in quelli della coetanea non udente Shoko. Nomi simili, destini paralleli che collidono, si attraggono e respingono. Ma la love story (inespressa) cede progressivamente il passo alla ricerca condivisa di una redenzione che non sentono di meritare e del superamento dell’odio di sé – aggravato da un opprimente senso di colpevolezza, tipicamente orientale –, e infine alla rivelazione del bisogno disperato, e la disperata paura, degli occhi degli altri. Il film di Yamada, già sceneggiatrice del ghibliano La ricompensa del gatto, concede tempo (ben 130 minuti) e respiro ai tanti personaggi, permettendo alla storia di fluire liberamente, sprofondando nel melodramma (il gruppo di ragazzi che si mette “a processo”, in una scena che è quasi parente alla lontana della serie Tredici), e agendo fra ottime trovate espressive (le “segnaletiche di esclusione” con cui Shoya si difende dagli sguardi del mondo) e un montaggio per suggestioni, che ricompone le incomprensioni del passato nelle dure consapevolezze del presente, fino a scioglierle in una struggente catarsi finale. FIABA DI MARTINO
Mentre a Cannes e in sala arriva la serie diretta da Valeria Golino L’arte della gioia, vi suggeriamo un podcast per (ri)scoprire l’incredibile figura di Goliarda Sapienza, autrice dell’omonimo libro, e di cui il 10 maggio si è festeggiato il centenario della nascita. Il podcast è curato dal collettivo Mis(S)conosciute e si intitola Gagliarda potenza.
Sempre a proposito di L’arte della gioia, nel cast c’è anche Jasmine Trinca che, proprio in vista della presentazione al Festival francese, ha concesso questa intervista a “Vanity Fair” in cui parla delle molestie subite nel mondo del cinema italiano e del fallimento del progetto Dissenso comune, che si proponeva di generare un effetto #MeToo anche nel nostro paese.
In Croisette è stato presentato in questi giorni, in Concorso, il secondo atteso film di Coralie Fargeat, The Substance. Il primo, Revenge, era stato per noi e per molti una vera rivelazione. Sulla rivista di cinema da combattimento I 400 Calci, il direttore Nanni Cobretti ha intervistato la protagonista di quel film, Matilda Lutz: una bella e lunga chiacchierata che vi consigliamo.